Sulla fine della Jugoslavia
Tre giorni a Graz per dibattere sulla fine della Jugoslavia. Gli attori politici dell’epoca, i ricercatori e i docenti che tutt’oggi si occupano del tema si sono incontrati dal 4 al 6 novembre scorso in Austria. Il resoconto del convegno
Quando nel 1991 la Croazia e la Slovenia hanno proclamato l’indipendenza, la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia (RSFJ) ha cessato di esistere. Vent’anni dopo lo scioglimento, nel mondo politico, scientifico e dei media continua il dibattito sulle cause della fine della Jugoslavia e dei conseguenti conflitti che hanno segnato un intero decennio.
“Debating the end of Yugoslavia” è, appunto, il titolo scelto per il convegno del Centro Studi dell’Europa Sudorientale “Karl-Franzens” presso l’Università di Graz (Austria) che ha riunito circa cento politici, studiosi e giornalisti dal 4 al 6 novembre scorsi all’interno del programma “South East European Dialogues” (SEED).
Invece di parlare ancora una volta della disintegrazione del Paese, gli organizzatori volevano appunto indicare i futuri indirizzi della ricerca scientifica. Puntando sulla prospettiva interdisciplinare, questa conferenza ha inoltre cercato di unire due “generazioni” di studiosi.
“E importante vedere riunite le persone che potrebbero fregiarsi del titolo di ‘the best of’ nella disciplina ‘immaginaria’ degli studi jugoslavi”, ha commentato per Osservatorio Balcani e Caucaso (OBC) Jovana Mihajlović Trbovc, giovane ricercatrice presso l’Istituto per la Pace di Lubiana, Slovenia. “Tuttavia, questo evento esulava dalla routine delle conferenze scientifiche visto che si proponeva, piuttosto, come una specie di dibattito aperto sui punti controversi della ricerca.”
Le testimonianze dei politici di allora
Il primo giorno era dedicato alle memorie sulla dissoluzione della Jugoslavia. Testimonianze di alcuni dei più prominenti politici della fine degli anni ’80 e dei primi anni ’90, hanno introdotto il problema e aperto la discussione su due questioni chiave: l’ineluttabilità della disintegrazione del Paese e le eventuali alternative alla guerra scoppiata subito dopo. I contributi di Azem Vllasi, presidente della Lega di Comunisti del Kosovo dal 1986 al 1988, Ciril Ribičič, presidente del Partito del Rinnovamento Democratico della Slovenia (1990-1993), Rasim Kadić, presidente del Partito Liberaldemocratico (1990-2005), Vasil Tupurkovski, membro macedone della Presidenza jugoslava (1989-1991) e Budimir Lončar, ministro degli Affari Esteri della Jugoslavia dal 1988 al 1991, hanno ricordato gli eventi che avevano determinato la dissoluzione della RSFJ.
Azem Vllasi, uno dei principali oppositori di Slobodan Milošević durante gli anni ’80, ha ricordato come il Kosovo abbia rappresentato sia il punto di partenza che quello di arrivo della disintegrazione jugoslava. La rivolta del 1981, secondo Vllasi, non significava che gli albanesi del Kosovo volevano porre fine alla Federazione, sebbene non fossero disposti a negoziare i diritti garantiti dalla Costituzione del 1974. Solo in seguito alla diminuzione drastica dell’autonomia della provincia si sono verificati i primi appelli all’indipendenza.
Ciril Ribičič ha sottolineato l’importanza della prospettiva storica per lo studio della dissoluzione della Jugoslavia. “Ora è più facile accorgersi che la Jugoslavia era un Paese destinato a fallire”, ha sostenuto. “Dopo un periodo di sviluppo veloce, le riforme economiche non si sono potute realizzare a causa della supremazia del Partito comunista.” La prospettiva europea e un sistema di confederazione asimmetrica potevano forse risolvere la crisi, anche se adesso si può solo riflettere sul passato.
Vasil Tupurkovski ha detto che la Jugoslavia non poteva essere salvata visto che i soggetti geopolitici esterni non erano molto interessati alla situazione. “La crisi doveva essere internazionalizzata”, ha aggiunto, “le iniziative solitarie erano difficili nel periodo appena successivo la fine della Guerra fredda. All’interno del Paese non esisteva la capacità di attuare in modo autonomo i necessari cambiamenti politici”. Di conseguenza, era più facile gettare benzina sulle aspirazioni nazionaliste invece di offrire un piano di riforme economiche che avrebbero migliorato la qualità della vita. Commentando la situazione attuale nella regione Tupurkovski l’ha definita come una “vittoria di Pirro” dei Paesi ora sovrani e indipendenti.
Budimir Lončar ha invece confermato come la questione della fine della Jugoslavia sia ancora di grande rilievo, soprattutto perché la sua disintegrazione, a differenza di un Paese molto più grande come l’Unione Sovietica, è avvenuta a seguito di guerre sanguinose. Secondo Lončar, la prospettiva logica sarebbe stata la dissoluzione pacifica, resa legittima anche dalla Costituzione del ‘74. Mentre circa 37 milioni di russi sono rimasti fuori dai confini del nuovo Stato russo, Slobodan Milošević aveva intenzione di cambiare le frontiere e unire “tutti i serbi in un solo Stato”. Purtroppo, la crisi diventava sempre più severa, ma l’Unione europea sarebbe stata legittimata ad un intervento diretto soltanto dopo che la Jugoslavia fosse diventata uno Stato membro. Anche l’ambasciatore Lončar aveva accennato alla complessità di una regione in cui “la pace non è stabile, la fiducia non è totale”, ma dove i Paesi dipendono economicamente l’uno dall’altro.
Il dibattito accademico
Il dibattito accademico sulla disintegrazione della Jugoslavia era riservato agli ultimi due giorni della conferenza. Si è parlato della propaganda mediatica che preparava il pubblico al conflitto, ma anche di altri elementi che univano il Paese in difficoltà, come lo sport e la cultura.
Gordana Knežević, giornalista del quotidiano sarajevese Oslobođenje durante il conflitto e ora redattrice della sezione balcanica di Radio Free Europe, ha dichiarato che non poteva “scegliere” un evento particolare per segnare la “fine della Jugoslavia”, visto che si trattava di un processo continuo e di lunga durata. Parlando della propaganda mediatica, la Knežević ha ribadito che la prima vittima della guerra è stata senza dubbio la verità. Le manipolazioni mediatiche, ma soprattutto politiche, motivarono migliaia di soldati a disertare dall’esercito. Concludendo il suo intervento, ha infine ricordato che molti degli attori principali della propaganda bellica fanno ancora parte dell’ordine dei giornalisti nei loro Paesi, a causa del mancato rinnovo istituzionale eseguito dall’élite politica.
Vjekoslav Perica, dell’Università di Rijeka, nel suo intervento ha posto l’accento su altri fattori, descrivendo lo sport come una religione dominante dello spazio post-jugoslavo. Questa dicotomia tra sacro e profano ha fatto sì che fosse possibile l’organizzazione di un campionato transnazionale di pallacanestro, un’unione sportiva che ricalca i confini della perduta unità politica.
Dall’altra parte Bojan Hadžihalilović, rappresentante del gruppo “Trio”, ha parlato della situazione culturale degli anni ’80. I partecipanti alla conferenza hanno potuto vedere anche la prima retrospettiva di questo gruppo di designer di Sarajevo e ricordarsi dell’uso coraggioso e ironico dei simboli che hanno segnato l’epoca socialista.
Una parte importante del discorso accademico si è basata sulle controversie createsi in relazione alla dissoluzione della Jugoslavia. Vladimir Petrović, dell’Istituto per la Storia Contemporanea di Belgrado, ha affermato che bisogna distinguere tra le pseudo-controversie, la politicizzazione e la propaganda, visto che si basano sulla negazione di fatti confermati storicamente.
Anche Sabrina Ramet, dall’Università norvegese di Scienza e Tecnologia, ha elencato le decisioni principali che hanno avuto un impatto diretto sulla fine della Jugoslavia, nonché le dispute legate a queste decisioni.
Stef Jansen dell’Università di Manchester ha ricordato che, nonostante il “popolo” fosse usato quotidianamente dall’élite politica nella propaganda bellica, tutt’ora non si fa una seria ricerca accademica sugli elementi della quotidianità e della gente comune del periodo degli anni ’80, “come se non fossero mai accaduti”.
Gli aspetti economici della dissoluzione e lo stato attuale della ricerca accademica
La dimensione economica della dissoluzione è stata spiegata in parte da Vladimir Gligorov, dall’Istituto per gli Studi Economici Internazionali di Vienna. Gligorov ha sottolineato che le scelte che inevitabilmente hanno provocato la guerra erano molto più probabili allora, nel momento “zero” dell’economia. Il Paese è fallito perche non vi è più stato un quadro costituzionale condiviso, e per la mancanza di uno stabile sistema fiscale comune.
Nel suo resoconto sulla situazione della ricerca attuale, Eric Gordy dell’University College of London ha espresso la sua critica su vari aspetti importanti. La ricerca continua ad essere concentrata sugli Stati e sulle élite politiche, e la sovranità è al di sopra di ogni altra cosa, compresa la società civile. Secondo Gordy, c’è bisogno di un quadro teorico più ampio dove situare tutti gli attori al di fuori delle élite. In altre parole, i cambiamenti sociali che hanno diminuito la fiducia nelle istituzioni, nonché i modi nei quali le violenze sono state pianificate, sono fattori tutt’ora poco analizzati.
“Anche dopo varie centinaia di libri sulla fine di Jugoslavia, le controversie e i miti politici sulle cause della guerra continuano a sopravvivere”, ha commentato Vladimir Unkovski-Korica, assistente alla London School of Economics.“ L’importanza di convegni come questo di Graz è quindi più che simbolica. Molti documenti relativi alla dissoluzione e alle guerre successive cominciano ad essere disponibili grazie ai processi per crimini di guerra, il che fa chiudere alcuni vecchi dibattiti, ma ne fa anche aprire molti nuovi. Questa discussione, inoltre, ha dato importanza alla ricerca sui processi sociali non soltanto a livello delle élite, ma anche ad un’analisi più ampia sul piano sociale.”
Alla fine dei tre giorni di dibattito, l’organizzatore e ideatore della conferenza, Florian Bieber, dell’Università di Graz, ha evidenziato la difficoltà della ricerca sul periodo jugoslavo degli anni ’80, perché si pensa inevitabilmente ai conflitti avvenuti poco tempo dopo. E, nonostante si tratti della fine di un Paese, la ricerca sul campo non è affatto esaurita.