Storie di cani e di censura

Cinquant’ anni di cinema bulgaro attraverso lo sguardo disincantato e profondo di Ivan Andonov, uno dei suoi autori di maggior successo. Nelle sue parole, il rapporto sottilmente ambiguo tra cinematografia e potere di regime, e l’instabile equilibrio tra propaganda e libera espressione

15/01/2008, Francesco Martino - Sofia

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Scena tratta dal film "Opasen char"

Ivan Andonov, classe 1934, attore, regista, regista di film d’animazione. E’ entrato nel mondo del cinema come attore, alla fine degli anni ’50, dopo aver terminato gli studi all’accademia VITIZ nel 1956. Nel 1972 ha diretto il suo primo film come regista. E’ autore di alcuni dei più popolari film bulgari di ogni tempo, come "Opasen Char" e "Dami Kanyat", "Vchera", "Adio Rio". Oggi non si occupa più di cinema, ma della sua seconda grande passione, la pittura.

Vorrei cominciare dall’inizio del suo rapporto col mondo del cinema. Quando e come è successo?

Nel mondo del cinema sono entrato quando ero ancora un bambino, nel senso che già allora ero innamorato di personaggi ormai dimenticati, come i comici "Pat i Patashon" o Shirley Temple, ancor prima della seconda guerra mondiale. Con lo scoppio della guerra i film americani furono tolti dalle sale, e arrivarono i film tedeschi, sostituiti, alla fine delle ostilità, da quelli russi.

Nonostante tutti questi stravolgimenti, il mio amore verso il cinema è rimasto saldo, insieme a quello per il teatro. A lungo mi sono arrovellato prima di scegliere se entrare nell’Accedemia dell’Arte oppure se studiare teatro, ma alla fine decisi che non avevo voglia di passare un sacco di tempo da solo a dipingere in un atelier, cosa che oggi faccio con enorme piacere, e che volevo vivere in mezzo alle persone. Nel cinema sono entrato innanzitutto come attore. All’inizio attraverso molti provini, poi feci il primo film, seguito dal secondo, e così via, ed iniziai a lavorare in modo piuttosto regolare. Nel frattempo abbandonai il teatro, e cominciai ad lavorare alla creazione di film d’animazione, e per cinque anni lavorai come disegnatore, ma anche come aiuto regista e sceneggiatore di alcuni film. Nel frattempo, proprio mentre pensavo che la mia carriera di attore si stava esaurendo, le cose andarono in modo diverso. Fui invitato all’estero, lavorai ad alcuni film in Ungheria e in Germania, e quando alla fine tornai in Bulgaria, in me era nato un fortissimo desiderio di provare a stare dietro la cinepresa. Come regista, ho girato il mio primo film nel 1972… Il lavoro prese un buon ritmo, ed iniziai a girare parecchi film. Eravamo negli anni ’70. Ricevetti anche numerosi inviti di andare a lavorare all’estero, ma dovetti rifiutare perché ero molto concentrato su quanto stavo facendo allora. Ho fatto a lungo il regista. Poi è arrivato un nuovo periodo di grandi cambiamenti, l’arrivo della democrazia, e proprio allora, purtroppo, qualcuno ha deciso che il cinema, qui in Bulgaria, è un lusso che non serve a nessuno. Quelli che lavoravano nel "Kinocentar Boyana", una grande famiglia che lavorava in modo molto affiatato e con ottimi risultati, si sono ritrovati in mezzo alla strada. Devo dire che purtroppo i vari governi che si sono succeduti in questi anni hanno fatto tutta una serie di []i fatali, che sono arrivati così lontano che addirittura lo stesso "Kinocentar" è stato venduto agli americani. E adesso le produzioni bulgare devono pagare l’affitto all’imprenditore che è diventato il proprietario di "Boyana".

Per lei, a livello personale, cosa ha significato il cambiamento di regime nell’89?

Questo cambiamento nella società era assolutamente necessario, perché pur non amando molto la retorica del cambiamento, devo dire che nell’atmosfera del comunismo era impossibile vivere. Noi nel sistema siamo riusciti a sopravvivere, ma per noi artisti, in qualche modo, la situazione era diversa, in quando si può dire che vivessimo in una "dolce illusione". Il fatto di occuparsi di prodotti artistici, insieme alla percezione di fare una vita "diversa", ti porta a non dedicare la giusta attenzione alla vita vera, alla vita vissuta. Noi ci eravamo abituati a quel sistema, e non riuscivamo nemmeno ad immaginare che sarebbe potuto cambiare, pensavamo che sarebbe durato in eterno. E quando alla fine il regime è crollato, il cambiamento ci ha preso di sorpresa, ci ha colti impreparati, impreparati alla libertà, visto che ci eravamo abituati alle sbarre della gabbia nella quale vivevamo.

E dal punto di vista professionale?

Ho continuato a lavorare. Ho fatto un film per il grande schermo, più altri tre per la televisione. La mia carriera proseguiva, per così dire, in modo normale. Poi però, i fondi a disposizione per il cinema sono iniziati a diminuire drasticamente. Soltanto adesso nel cinema, così come nella televisione, i budget sono tornati ad essere più o meno accettabili. Allora si arrivò a produrre un film l’anno. Visto che io comunque lavoravo per la televisione, mi sembrava criminale presentare progetti per il finanziamento anche per il grande schermo. Ma in breve tempo anche il budget della televisione ha cominciato a ridursi a ritmi serrati, in modo impressionante. Per dirla in poche parole, con quei soldi a disposizione non è possibile fare un film. Ad un certo punto anche l’esperienza, che permette di risparmiare, non è sufficiente. Non mi interessava più fare un film dove dovevo rinunciare a tutto, o quasi. Nella nostra vita abbiamo già fatto molti compromessi, sia ideologici che economici. Non parlo solo di me stesso, ma dell’intera categoria. Adesso,però, non ho più voglia di fare compromessi.

Il precedente regime ha investito molte risorse, umane e materiali, nel cinema. Secondo lei, quale era il ruolo nella società pensato per il cinema prima dell’89?

Il cinema era senza dubbio uno strumento di propaganda, ma al tempo stesso succedeva qualcosa di particolare in quel complesso ideologico di cui tutti noi facevamo parte. In quella strana e traviata cosa che è stato il socialismo ( perché parlare di comunismo, che non si è mai realizzato, è fuorviante), esisteva la possibilità, per così dire, di fare un leggero slalom, attraverso il quale poter esprimere elementi di verità. C’erano dei film "ufficiali", che ricevevano premi, venivano magnificati ecc. Ma al tempo stesso scorreva non dico un fiume, ma un piccolo ruscello di film che provavano ad esprimere qualcosa di vicino alla verità. E il loro era più che un semplice tentativo. Proprio in quel periodo si sviluppò quella che venne chiamata una "lingua esopica", attraverso la quale dici qualcosa facendo l’occhiolino allo spettatore. E gli spettatori, che erano assetati di verità, ti capivano al volo. E allora il film veniva adottato da questi spettatori, a differenza di quanto faceva invece il governo. E allora succedeva che questi film, quelli che il pubblico amava e guardava di più, venivano marginalizzati, e non ricevevano premi, né ai festival né in termini economici.

Ma esisteva un qualche equilibrio tra questi due tipi di film?

C’era, ma non sono in grado di dire se questo equilibrio era creato e gestito consapevolmente da chi dirigeva il settore cinematografico, perché in fondo queste persone erano al loro posto per servire il partito e il governo. Ma al tempo stesso si trattava di persone vive, con le loro pulsioni, i loro sentimenti. E alla fine, qualche volta la vita si è dimostrata più forte dell’ideologia. Ed è proprio allora che nascevano buoni film. Perché non posso assolutamente dire che tutti i film fatti durante il socialismo fossero brutti. C’erano film molto belli. C’erano buone sceneggiature, che hanno dato vita ad opere che si guardano ancora oggi. Ripeto, quando parlo dello slalom che si faceva, è una realtà evidente. Non so se questo fosse seguito con attenzione metodica da parte del potere. Quello che è certo è che molti film sono stati tagliati, o addirittura fermati. Anche i miei film sono stati tagliati in modo orribile. Anche questo faceva parte del gioco: sai che se superi certi confini e poi non torni indietro, il tuo film non uscirà mai nelle sale.

Può raccontarci come funzionava questo processo di censura?

Agiva secondo alcune procedure diverse. Ad esempio il direttore artistico poteva dirti "questo e quest’altro non vanno bene". Poi c’era il direttore generale, che io credo, sondava il parere dei piani alti del potere. Io non ho mai partecipato alle proiezioni dimostrative fatte appositamente per gli uomini di governo, ma so che tutti i film realizzati venivano guardati nelle stanze del potere. E a seconda delle loro reazioni, di quello che dicevano, questo nostro superiore portava fino a noi le linee da seguire, dicendo "questa o quella parte verranno tagliate". Da quel momento iniziava una lotta silenziosa e tenace. Naturalmente noi ci trovavamo nella posizione più debole, ma comunque si tentava di salvare determinate scene o battute. Alcune cose passavano attraverso il filtro della censura per motivi apparentemente inspiegabili. Nel sistema socialista c’era uno strano fenomeno, per cui a momenti di maggior controllo e stagnazione, seguivano momenti di rilassamento. E quindi proprio i periodi i stagnazione erano il momento adatto per osare proporre progetti più coraggiosi. Per lo stesso motivo, quando tutto sembrava più tranquillo, eri consapevole che con molta più probabilità ti sarebbero saltati alla gola…

Che cosa ci può dire invece dell’autocensura?

Sull’autocensura vi racconterò un aneddoto: è la storia del cane. C’era un pittore bulgaro molto famoso, Zlatyu Boyadzhiev. Lavorava ad un quadro molto importane, un soggetto storico, il massacro di Batak. Ed ecco che decide di inserire nell’opera un cane. Presto arriverà una commissione artistica di regime, molto severa, che deve approvare o meno l’opera, perché venga acquistata dallo stato o mostrata in pubblico. Allora una sua amica gli chiede: "Ma, Zlatyu, perché diavolo hai dipinto questo cane?". E lui, che all’epoca aveva già avuto un ictus e parlava con difficoltà, le rispose "Perché mi dicano: levalo!", cosa poi regolarmente successa. Nei film era lo stesso, si metteva un cane, per farsi dire di toglierlo, e provare a salvare altre cose più importanti. Era come un grande puzzle, un gioco che tutti avevamo imparato a giocare.

Ma c’erano film di propaganda, o di tipo diverso che il regime voleva fossero guardati in modo particolare?

Da noi non c’erano film di pura propaganda. C’erano, per quanto io ne sappia, e non ho mai studiato in modo approfondito il movimento partigiano, delle esagerazioni che non rispondevano alla realtà storica. Bisognava glorificare i grandi nomi del partito. Oggi sicuramente la cosa non appare sotto una buona luce, ma anche io ho partecipato a questo "gioco". La questione è complessa, come lo è sempre quando si prova ad essere davvero sinceri. Il fatto è che mi ero stufato di girare con mezzi di basso livello, con camere scadenti, con l’audio in presa differita, e allora come tutti ho cercato la mia strada per arrivare ad ottenere migliori condizioni di lavoro. Mi dissero: "Hai alcune possibilità, di fare un film sulla prima centrale atomica bulgara, oppure un film su Dimitar Blagoev". Io dissi immediatamente che volevo fare il film su Blagoev, innanzitutto perché già sapevo qualcosa su di lui. E poi si tratta di una figura positiva, un socialdemocratico, anche se poi i comunisti si sono appropriati della sua eredità politica. Ma che dire, con quel film ebbi la possibilità di guardare davvero da vicino il modo con cui il potere dirigeva e comandava. Continuavano a dirmi "Qui Blagoev non può dire questo, qui deve fare quello…". C’erano molti consulenti, alcuni erano bravi storici, ma altri erano terribili. Si intromettevano dicendo: "qui devi far vedere come Blagoev va in guerra". Ma come, dicevo io, se lui in questa guerra non l’ha combattuta affatto!

Ed esistevano delle forme di pressione verso il pubblico, per spingerlo a guardare questi film?

Sì, c’erano. Dicevano: "La sala è piena di fiocchi". Significava che portavano al cinema i bambini delle elementari. Altre persone non riuscivano a portarle a forza. Potevano forse forzare alcuni collettivi, dalle fabbriche, ad esempio. Si facevano però anche altre operazioni. Ad esempio si faceva risultare che gli spettatori dei film più visti, ma anche meno accettabili dal punto di vista politico, in realtà erano stati a vedere i film "ben accetti" dal potere, e così le statistiche finali sul numero di spettatori era in realtà falsato.

Passiamo ad un altro tema, la pubblicizzazione e la distribuzione dei film…

Ai miei tempi non esisteva una vera pubblicità, che giocasse un ruolo importante. "Pubblicità" era considerata quasi una parolaccia in Bulgaria. Si facevano cartelloni, che poi venivano incollati per le strade. Ma questo era piuttosto un annunciare, piuttosto che un reclamizzare. Non c’erano prodotti, e quindi non c’era nemmeno pubblicità. D’altra parte, non posso nemmeno dire che in Bulgaria ora si investano soldi e risorse nel pubblicizzare il nuovo cinema. Se invece parliamo di distribuzione nelle sale, lì il sistema funzionava. Alcuni dei miei film, ad esempio, hanno avuto milioni di spettatori paganti. Oggi questo tipo di risultati è assolutamente impensabile. Oggi, quando vado a vedere un nuovo film bulgaro, in sala non trovo più di tre o quattro altri spettatori. Non sono sicuro delle cifre, ma in Bulgaria c’erano circa tremila sale cinematografiche, più i cinema ambulanti che si recavano praticamente in ogni villaggio. Adesso credo che le sale non siano più di ottanta in tutto il paese. Non mi sembra necessario commentare queste cifre.

Oggi il cinema gioca un qualche ruolo nella società bulgara moderna?

Oggi il cinema bulgaro si muove in acque non proprio tranquille. Tutti lo insultano e se ne fanno beffe. E molti dicono: "Nessuno vuole guardarlo, non interessa a nessuno". E gli spettatori, quando sentono questo tipo di commenti, si tengono lontani dalle sale. In Bulgaria si è persa l’abitudine stessa di andare al cinema. Prima al cinema si andava, e il pubblico aveva grandi aspettative rispetto ai film prodotti in Bulgaria, talvolta c’erano film che si guardavano con la stessa passione con cui si guarda una partita di pallone, perché al cinema si dicevano cose che l’uomo della strada voleva ascoltare, che gli davano gioia. Oggi tutto questo non c’è più, ma questo non vuol dire che nel futuro non possa comparire di nuovo qualcosa del genere. Però al momento, purtroppo, la situazione è questa: non esiste un vero interesse da parte del pubblico di massa verso il nuovo cinema bulgaro.

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