Stati de facto post-sovietici: sostenere i piccoli passi

L’Unione europea e altri attori internazionali dovrebbero sostenere pazientemente le dinamiche positive emerse nel contesto degli stati de facto post-sovietici in questi ultimi mesi. In questo contesto, nuovi approcci di ricerca possono fornire spunti utili

13/02/2019, Giorgio Comai -

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Piccoli passi possibili, ma poco spazio di manovra. Sukhumi, foto di Giorgio Comai.

(Originariamente pubblicato da ISPI )

A inizio 2019, policy-maker alla ricerca di approcci pragmatici e lungimiranti per una interazione significativa con gli stati de facto nel vicinato dell’UE possono trovare un punto di riferimento nel recente libro di Thomas de Waal “Uncertain Ground: Engaging With Europe’s De Facto States and Breakaway Territories ”. De Waal sostiene l’adozione di "più sofisticate regole di ingaggio all’interno di un quadro di non riconoscimento", suggerendo che la comunità internazionale dovrebbe "essere preparata a impegnarsi più direttamente con le autorità de facto su base negoziale". Presenta inoltre una serie di raccomandazioni specifiche su temi quali istruzione superiore, salute, diritti delle minoranze e commercio (in un precedente commento per ISPI , io stesso avevo argomentato a favore di un approccio pragmatico orientato ad un maggiore impegno per favorire tutela dei diritti umani e commercio).

Come sottolinea de Waal, trovare strade per una interazione significativa con gli stati de facto "richiede l’abbandono di un paradigma superato: l’aspettativa che stiano per collassare". Ad oggi, il fatto che gli stati de facto post-sovietici non scompariranno da un giorno all’altro è ormai chiaro a tutti gli osservatori. Ciononostante, questa semplice osservazione non è ancora stata pienamente assorbita da chi si interessa a diverso titolo della regione, rendendo più difficile comprendere appieno le dinamiche prevalenti in questi luoghi.

Le ipotesi di lavoro devono essere aggiornate al 2019

Nel 2019, gli studiosi che ricercano gli stati de facto post-sovietici dovrebbero partire dall’ipotesi di lavoro che queste entità continueranno ad esistere nella configurazione attuale per il prevedibile futuro e probabilmente procederanno nella loro integrazione con il loro protettore. Dovrebbero abbandonare l’ipotesi che gli stati de facto siano intrinsecamente diversi a causa del loro non riconoscimento, in quanto questa visione limita fortemente il campo di studio.

Tra i numerosi casi in cui un protettore è il principale fornitore di aiuto esterno, comprese le aree di conflitto ma non solo, tipicamente i ricercatori analizzano se questa assistenza è efficace, porta alla crescita economica, migliora il sostentamento dei residenti o se porta con sé altre sfide legate, ad esempio, alla volatilità degli aiuti, alla corruzione o alla "maledizione delle risorse". Nel caso degli stati de facto post-sovietici, nessuna di queste domande è stata realmente affrontata per analizzare il tipo di "state building made in Russia" che ha avuto luogo negli ultimi anni in Transnistria, Abkhazia e Ossezia meridionale. Ad esempio, la costruzione dello stato in questo contesto non è stata sistematicamente confrontata con altri casi rilevanti. Cosa si intende per "caso rilevante" può cambiare (altri casi di ricostruzione postbellica guidata da un protettore esterno? legami duraturi con un ex potere coloniale? Piccole giurisdizioni indipendenti senza storia recente di conflitto ?), ma in ogni caso gli altri stati de facto non dovrebbero essere considerati l’unico possibile termine di paragone (un dibattito più esteso su questi temi è stato recentemente pubblicato su Eurasiatica).

Fondamentalmente, questa non è solo una conversazione puramente accademica sulla terminologia e sulla selezione dei casi: una migliore comprensione delle principali dinamiche di costruzione dello stato in questi luoghi, cosa funziona e cosa no, fornirebbe utili input per policy-maker alla ricerca di efficaci modalità di impegno significativo con gli stati de facto.

Che cosa cambia nel 2019

Nel 2019, sono state ormai implementate le componenti chiave dell’assistenza russa alla costruzione dello stato in Abkhazia e Ossezia del Sud, o quantomeno è più chiaro quale forma prenderanno. Ad esempio, la linea che separa l’Abkhazia e l’Ossezia del Sud dai territori controllati da Tbilisi è ormai nettamente definita. Il ruolo della Russia nel controllare l’accesso all’Abkhazia dalla Georgia è diventato più consolidato, il processo di “borderization ” dell’Ossezia del Sud ha preso forma e quasi tutti i valichi di confine lungo l’Inguri sono stati chiusi.

In entrambi i casi, questi sviluppi hanno avuto luogo contro la volontà di Tbilisi, nonostante le proteste dell’UE e di altri attori , e hanno reso la vita più difficile a molti residenti. Eppure, indipendentemente dalla tragicità delle dinamiche che hanno portato all’attuale stato delle cose, i fatti sul campo non possono essere semplicemente ignorati. Se qualcosa di positivo può venire da un confine più strettamente regolamentato, allora questa possibilità non deve andare sprecata. Le parti potranno ancora avere “punti di vista diametralmente opposti ” su molte questioni relative a commercio transfrontaliero e transito di merci, eppure, a differenza di pochi anni fa, l’apertura di rotte commerciali formali tra questi territori sembra essere ora una possibilità concreta . Il 2019 potrebbe davvero essere il momento per parlare di commercio .

La fine di una fase di intense tensioni politiche interne in Transnistria con l’elezione di Krasnoselski a fine 2016 potrà essere negativa per il pluralismo politico a Tiraspol, tuttavia è stata probabilmente tra gli elementi che hanno permesso di attuare una serie di iniziative positive attraverso la mediazione dell’OSCE e il sostegno da parte dell’UE negli ultimi due anni.

Infine, per la prima volta in molti anni, si registrano piccoli segnali di sviluppi positivi anche in Armenia e Azerbaijan. Il numero di violazioni del cessate il fuoco relative al conflitto nel Nagorno-Karabakh è diminuito bruscamente a fine 2018. Il fatto che entrambe le parti “abbiano concordato sulla necessità di adottare misure concrete per preparare le popolazioni alla pace ” in una riunione ministeriale del 16 gennaio 2019 è stato accolto favorevolmente dall’UE e altri osservatori . Esistono certamente ampi motivi di scetticismo , tuttavia è necessaria una retorica ufficiale più conciliante per consentire lo spazio politico necessario per esprimere una gamma più ampia di punti di vista.

Anche in un luogo come l’Azerbaijan, dove la retorica presidenziale definisce in gran parte la portata di idee e opzioni che possono essere discusse pubblicamente, un approccio top-down alla risoluzione dei conflitti non può funzionare. Nemmeno un presidente neo-eletto con una forte legittimazione popolare come Nikol Pashinyan può guidare questo processo dall’alto. La legittimità di un compromesso su una questione così fondamentale richiede tempo e ampio dialogo. Ad oggi, i policy-maker che desiderano comprendere e sostenere nuovi luoghi di dialogo in questo contesto farebbero bene a cercare nuovi spunti nel rapporto “Envisioning peace ”, prodotto da International Alert nel quadro dell’iniziativa EPNK sponsorizzata dall’UE.

Un impegno significativo con gli stati de facto e un sostegno costante e paziente agli approcci costruttivi quando emergono da Chişinău, Tbilisi, Yerevan e Baku (ma anche critiche costruttive se necessario, ad esempio a Kiev) sono la strada da percorrere per l’UE e altri attori internazionali nei prossimi mesi.

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