Srebrenica senza difesa

Nel primo anniversario della strage celebrato con Karadžić e Mladić finalmente all’Aja, un commento che ripropone le scomode domande sul comportamento dei difensori dell’enclave e sulle responsabilità per la sua caduta. Le pagine di Emir Suljagić, il ruolo di Naser Orić e di Alija Iztbegović, il giudizio di Abdulah Sidran

11/07/2011, Piero Del Giudice -

Srebrenica-senza-difesa

(Foto Danilo Krstanović)

Dall’11 al 18 luglio 1995, nell’enclave protetta di Srebrenica, furono sterminati da 8 a 10.000 maschi inermi bosniaco-musulmani dai 16 ai 60 anni dalle forze armate serbo-bosniache agli ordini del generale Ratko (guerriero) Mladić. L’anniversario del genocidio prende quest’anno movenze di particolare drammaticità. Mladić, il responsabile militare di questa e altre stragi, è stato arrestato, dopo Radovan Karadžić, e viene adesso giudicato dal Tribunale Penale Internazionale dell’Aja. Il soldato, in pochi giorni, ha vestito i panni dell’anziano reduce malandato e dell’arrogante guerriero, del padre perseguitato dalla memoria della figlia suicida e del miles gloriosus che dileggia in modo grossolano i giudici del Tribunale per i crimini di guerra nella ex-Jugoslavia. Gli piace cambiare le parti in commedia. Accarezzava i bambini t[]izzati nell’enclave di Srebrenica violata mentre preparava lo sterminio dei padri; rassicurava Avdo Palić, responsabile dell’enclave di Žepa, mentre tonificava i muscoli con i pesi per ammazzarlo con le proprie mani. Mladić è “il mostro con le spalline” delle poesie dall’assedio di Abdulah Sidran, quello che incita gli artiglieri ad aumentare il ritmo dei colpi sulla popolazione civile di Sarajevo sino a “torcergli la ragione”, farli uscire di senno. E’ il protagonista, insieme a Karadžić, della “quota bosniaca” del progetto espansivo monoetnico detto della Grande Serbia.

I coltelli e i bastoni dei nazionalisti serbi agli ordini di Mladić sgozzano e uccidono diecimila uomini nella valle di Srebrenica. Il generale francese Bernard Janvier, comandante delle forze internazionali Onu (Unprofor) in Bosnia Erzegovina, blocca gli attacchi aerei contro i serbi che assediano l’enclave protetta e stanno entrando. Le forze olandesi dell’Onu, schierate in difesa dell’enclave, non sparano un colpo, alzano bandiera bianca e i loro comandanti – Karremans e Franken – collaborano con i serbi. Ecco i facitori manuali e i responsabili sul campo dell’Olocausto musulmano.

Emir Suljagić, Cartolina dalla fossa

(Foto Danilo Krstanović)

(Foto Danilo Krstanović)

Tra i tanti testi che raccontano Srebrenica, tra i più efficaci c’è Cartolina dalla fossa, di Emir Suljagić (Beit edizioni, Trieste) [il titolo evoca il poemetto La fossa, scritto durante la Resistenza jugoslava]. Suljagić, interprete ONU sopravvissuto all’eccidio, aggancia, ha una prosa diretta, antiretorica: “Quando ancora non si era alzata la nebbia sopra l’angusta e profonda conca di Srebrenica, centinaia di uomini si arrampicavano sul ripido pendio sopra la città e tutti – vestiti di cenci luridi, maleodoranti di sudore stantio – portavano un’accetta e una corda. La meta era un bosco sino al quale ci si doveva arrampicare per far legna, aiutandosi con mani e piedi… Tagliavano il primo albero che trovavano, lo legavano con la corda e lo trascinavano per centinaia di metri…”.

Srebrenica, Goražde o Sarajevo, le comunità assediate da anni, non hanno cibo, né acqua, né combustibile. Nel bisogno e nell’indigenza si formano bande, la sopravvivenza negli edifici assediati è in mano agli speculatori e ai borsaneristi, il ghetto è gestito da gerarchie di profittatori: “Nell’estate del 1994 nell’enclave scoppiò – scrive Suljagić – una protesta davanti al Comune; la gente accusava facendone i nomi il sindaco e i suoi collaboratori di furto di aiuti alimentari a danno della popolazione. Quella stessa notte, il capo della protesta fu ucciso. La città ammutolì. Le cose continuarono come prima: parte degli aiuti veniva distribuita alla popolazione, l’altra, di qualità superiore, finiva al mercato o nei magazzini privati dei funzionari cittadini che nel deposito centrale si sceglievano cosa e quanto era di loro interesse. C’era di tutto, per gli ufficiali, gli impiegati comunali, le loro mogli e le loro amanti: dalle nuove scarpe sportive ai jeans Levi’s…”.

Naser Orić

Il leggendario comandante della difesa dell’enclave è Naser Orić. Suljagić spende righe di ammirazione per questo comandante carismatico, ma scrive anche: “Alcuni anni dopo la guerra, nel 1998, ottenni per breve tempo, giusto per leggerlo, un rapporto del servizio di controinformazione del 2° korpus dell’esercito della Bosnia Erzegovina, nel quale si descriveva – nei minimi dettagli – come proprio Orić fosse l’organizzatore del mercato nero. Il rapporto conteneva alcune pagine con i nomi dei rivenditori, il modo e i luoghi del commercio con i serbi, gli articoli più richiesti…”.

Naser Orić – è storicamente noto – abbandona con i suoi ufficiali l’enclave nelle cadenze finali dell’attacco dei serbi, lasciando senza guida la difesa. Suljagić, in un andamento narrativo un po’ confuso [gli capita nei momenti topici], così ne scrive: “Hai sentito che cosa è successo?” “Che cosa?” “Naser ha lasciato la città!”, mi disse con un sorriso acido. Sentivo la paura che sgorgava da me, per poco non caddi dallo sbigottimento: “Quando?” “Stamattina: lui, Ramiz e una decina di loro” “Come?” “In elicottero” “E allora, è la fine?”, chiesi più a me che a lui.

Alija Izetbegović

La narrazione della caduta dell’enclave e del genocidio dovrebbero ricominciare da qui. Suljagić vi rinuncia e il suo libro, che ha pagine così perentorie, comincia a balbettare. In ogni caso, mentre cadono Žepa e Srebrenica, e Naser Orić abbandona il comando su ordine del governo di Sarajevo [“per sette volte ho rifiutato di salire su questo elicottero!” dirà, biblicamente, salendovi] e iniziano le stragi, nella capitale Sarajevo tutti hanno chiaro che Alija – il presidente – ha accettato la divisione etnica della Bosnia Erzegovina: “Noi diamo le enclaves lungo la Drina ai serbi e loro sgomberano i quartieri occupati di Sarajevo!”, mi ripetevano i cittadini della capitale assediata nel luglio del 1995.

Il generale bosniaco Halilović ha per anni accusato il governo di non avere voluto difendere con i corpi di armata di stanza a Tuzla, rimasti inerti, le enclaves. Del resto Izetbegović non ha mai avuto un’idea diversa da quella di una piccola Bosnia monoetnica. La sua visione politica limitata, angusta, non poteva rovesciare il tavolo delle cancellerie internazionali che stavano preparando Dayton – se mai questo rovesciamento ha pensato di farlo il pio Alija [pio, lui, in preghiera con la djellaba nella moschea e anche in Parlamento. Meno pio il figlio Bakir, architetto, gestore di grandissima fetta (2.000 miliardi delle vecchie lire) degli aiuti internazionali per la ricostruzione di Sarajevo].

Nel baratto enclaves-quartieri di Sarajevo, il pio Alija aveva messo in conto il genocidio dei bosniaci podriniesi? Rimane la domanda capitale. Eventualmente questa la colpa senza possibilità di perdono.

Sidran

Abdulah Sidran (Foto Danilo Krstanović)

Abdulah Sidran (Foto Danilo Krstanović)

Abdulah Sidran ha scritto il lungo disperato poema Le lacrime delle madri di Srebrenica (ADV edizioni, Lugano) sul lutto irredimibile del genocidio bosniaco. Sidran, alle domande: “Il presidente Izetbegović accettò, nell’estate 1995, la divisione per zone “etnicamente pulite” e lo scambio enclaves-quartieri di Sarajevo? Nessuno difese l’enclave di Srebrenica: non l’Onu, non l’esercito bosniaco, non il comandante militare dell’enclave Naser Orić, ritirato, con i suoi ufficiali, dal governo di Sarajevo prima dell’11 luglio?”, replica: “A queste domande dovranno rispondere gli storici. Un voto positivo dalla storia non l’otterrà nessuno di coloro che, in un modo o nell’altro, hanno fatto calcoli con l’idea degli spostamenti etnici e in generale di una "territorializzazione etnica". Esistono indizi secondo i quali anche la parte bosniaca è stata implicata in combinazioni di sorta. Per questo molti patrioti che hanno combattuto con onore oggi si sentono schifati. Uno ha detto: come se avessi giocato una partita, con tutte le mie forze e correttamente, per venire a sapere alla fine che la partita era stata venduta”.

Il Paese che aveva trovato per cinquanta anni, dalla Resistenza agli anni Novanta, gli equilibri di una vita comune tra genti di tradizioni e culture diverse e religioni analoghe, viene diviso nel sangue. La barbara, primitiva visione etnopolitica delle parti – e prima di tutto e senza alcun alibi del nazionalismo serbo – è responsabile del bagno di sangue che sigilla nelle fosse comuni la parabola dell’enclave di Srebrenica. Visione monoetnica e morte collettiva dell’altro

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