Srebrenica, Palestina
Oltre al richiamo retorico alla fratellanza tra "due popoli martiri" esiste un legame più concreto tra i bosgnacchi di Srebrenica e i palestinesi. Un approfondimento
Nel 1993, quando i giornalisti del francese ‘Le Figaro’ chiesero al presidente bosgnacco Alija Izetbegović se "i musulmani di Bosnia Erzegovina si sarebbero trasformati in una sorta di palestinesi europei, qualora avessero perduto la guerra", questi rispose seccamente: "Non lo escludo" (echi simili erano percepibili, peraltro, in un commento pubblicato un anno prima dal New York Times e firmato dall’ex primo ministro britannico Margaret Thatcher. Il conflitto in Bosnia Erzegovina era in quel momento in una delle sue fasi più cruente. L’isolamento dei bosgnacchi, di fronte alle indecisioni della comunità internazionale, stava avendo conseguenze drammatiche per la popolazione civile del paese. Il compromesso di Dayton, pur con tutti i propri limiti, era ancora lontano.
Se la domanda posta più di vent’anni fa dai corrispondenti francesi celava a malapena la preoccupazione che i musulmani di Bosnia Erzegovina potessero trasformarsi in un "elemento di destabilizzazione" per l’Europa, una volta cacciati dalle proprie case, è vero anche che essa intuiva una sorta di destino comune tra musulmani palestinesi e bosniaci: un legame simbolico tra due popoli che hanno dovuto abbandonare le proprie case, trascinandosi in campi profughi nell’attesa di una soluzione che, ancora oggi, tarda ad arrivare.
Da Sabra e Shatila a Potočari
"La prima volta che mi sono recato a Srebrenica, per me, è stata un’emozione enorme" ricorda oggi l’ambasciatore palestinese in Bosnia Erzegovina, Rezeq Namoora. "Io sono stato diretto testimone dei massacri avvenuti nei campi profughi dei quartieri di Sabra e Shatila nel 1982, a Beirut". L’eccidio costò la vita a 700-3.500 profughi palestinesi, secondo le stime.
"Quando sono entrato a Srebrenica, per me è stato molto commovente", confida Namoora, "ma al tempo stesso provavo una sensazione tristemente familiare, per una tragedia che è simile a quella che i palestinesi hanno subito negli ultimi settant’anni: anche noi, esattamente come gli abitanti di Srebrenica, siamo stati cacciati dalle nostre case e non siamo mai riusciti a ritornare".
I rapporti tra palestinesi e srebreničani, come racconta Namoora, sono molto più stretti di quanto si potrebbe immaginare, soprattutto viste le restrizioni oggettive cui deve far fronte l’Autorità palestinese nel momento in cui si parla di temi come la cooperazione o i rapporti internazionali.
Una cosa di cui l’ambasciatore va particolarmente fiero è, a ogni modo, il fatto che sia stata proprio un’iniziativa palestinese a gettare le basi per il progetto che sarebbe poi diventato il memoriale di Potočari, dove sono sepolti i resti di più di seimila delle 8.372 vittime totali. Fu Yasser Arafat, nei fatti, a lanciare l’idea di creare un "luogo della memoria" che servisse da monumento e da monito. "Negli anni – spiega ancora Namoora – noi stessi abbiamo imparato che è estremamente importante, per le vittime, avere un luogo fisico in cui piangere i propri cari, qualcosa di reale e di tangibile, per fare in modo che la memoria di quanto accaduto non venga perduta".
La donazione di Arafat fu poco più che simbolica (5.000 dollari), ma la sua azione fu essenziale per creare un consenso attorno al progetto della costruzione del memoriale di Potočari, che venne inaugurato nel 2003.
Una mediazione che ebbe risultati immediati soprattutto nei confronti degli altri paesi arabi che ne finanziarono, in seguito, la costruzione e il funzionamento assieme ai partner occidentali. Ogni anno, il memoriale è visitato da qualcosa come 120.000 persone, come riporta Aljazeera Balkans, ma il suo funzionamento ha un costo non trascurabile: secondo i dati che si possono ricavare dalle indagini condotte dai revisori pubblici bosniaci, la cifra si aggira sul milione di marchi all’anno – circa 500.000 euro.
La memoria dei sopravvissuti
"Tra i progetti che abbiamo deciso di realizzare in cooperazione con la comunità bosgnacca di Srebrenica", ricorda l’ambasciatore palestinese, "non sono mancati nemmeno dei viaggi di scambio e delle visite organizzate, tra famiglie di Srebrenica e famiglie di palestinesi. Ogni anno, inoltre, la nostra delegazione ha sempre partecipato con convinzione alla commemorazione dell’11 luglio di Potočari". Non a caso, una delle prime decisioni di Namoora una volta prese le proprie funzioni era stata quella di invitare nel dicembre scorso il Muftì palestinese Muhammed Ahmad Hussein, l’imam di Gerusalemme, a visitare la città.
Solo qualche settimana prima, la stessa visita era stata compiuta anche dall’imam saudita Salih Bin Humaid e dai rappresentanti dell’Arabia Saudita a Sarajevo, a conferma di come il massacro di Srebrenica sia diventato nel corso degli anni un vero e proprio evento simbolico per il mondo islamico. In effetti, proprio l’ex capo della comunità islamica bosniaca, il Reisul-ulema Mustafa Cerić, si era impegnato dalla fine del conflitto affinché Srebrenica venisse commemorata come "l’Auschwitz dei musulmani d’Europa").
In occasione della propria visita, Hussein e l’ambasciatore palestinese si erano recati in visita al memoriale, oltre che alle autorità della città e alle associazioni delle vittime. Da Srebrenica, Hussein aveva espresso la speranza che "una tragedia come quella accaduta qui non si ripeta mai più in futuro", e aveva ricordato altresì "il genocidio che la Palestina si trova a vivere quotidianamente, per mano dell’esercito israeliano".
"Il popolo palestinese è vicino a tutti coloro che qui hanno perduto i propri cari", aveva assicurato in quel momento Hussein. "Anche se un essere umano non potrà mai esprimere completamente ciò che sente dentro di sé, tutti vedono i risultati del genocidio che è avvenuto qui nel 1995. Le lapidi presenti qui a Potočari evocano immediatamente ciascuna vita andata perduta. Noi vogliamo che questi eventi siano da stimolo per la Bosnia Erzegovina, e per i suoi cittadini, affinché progrediscano insieme sulla via della pace, superando i propri lutti al fine di costruire una nuova speranza per i propri figli e per il futuro".