Srebrenica: la locanda di Dule
Dopo la guerra, Dule fu uno dei primi bosgnacchi che decise di tornare a Srebrenica, dove riaprì il suo ristorante. Ad un anno dalla sua morte il figlio Avdo ripercorre la storia della famiglia, durante e dopo la guerra, in una Srebrenica ostaggio della cattiva politica. Intervista
Quando è nato il ristorante Misirlije?
Tanti anni fa! Io avevo sei anni quando mio padre, Abdulah Purković Dulac, da tutti chiamato "Dule", lo aprì. Era un ristorante a conduzione familiare, gestito dai miei genitori che erano ottimi cuochi. Ma poi è arrivata la guerra e, come quasi tutto qui a Srebrenica, è stato distrutto.
Cosa vi è accaduto nel 1992?
Sette giorni prima dello scoppio della guerra, era verso fine marzo, dopo giorni di tensione in cui alla tv davano notizie dei primi scontri armati in Bosnia e la gente era spaventatissima, ci chiamò il fratello di mia madre da Tuzla. Ci disse: “Voi siete così vicini al confine (con la Serbia) e forse è meglio che veniate via qualche giorno finché la situazione non si calmerà”. Così con mia madre e le mie due sorelle, siamo stati portati a Tuzla da mio padre. Lui tornò subito a Srebrenica per continuare a tenere aperto il ristorante. Questo fa capire come non si aspettasse minimamente che sarebbe iniziata una guerra. In sette giorni le strade vennero bloccate, non fu più possibile alcuna comunicazione, le truppe paramilitari entrarono in Bosnia Erzegovina e il resto è storia che conoscete.
Così noi quattro siamo rimasti a Tuzla, dove siamo stati a lungo in un campo profughi, mentre mio padre ha passato tutta la guerra a Srebrenica sotto assedio. Qui ha cominciato a fare il volontario aiutando gli operatori dell’organizzazione internazionale MSF – Medici Senza Frontiere, presso l’ospedale. Ed è grazie a MSF che, quando cadde Srebrenica nel luglio del 1995, mio padre riuscì ad uscire ed arrivare in territorio libero assieme ad altri civili che erano riusciti a salvare.
Quando arrivò a Tuzla la jeep di MSF non sapevo che lui fosse con loro. Ricordo che ci siamo tutti assembrati attorno all’auto e io ero lì chiedendomi chi fossero. Uno ad uno scesero e tra loro mio padre, ma io non lo riconobbi affatto. Avevo perso completamente memoria del suo viso e della figura del suo corpo… Dei suoi 105 chili ne erano rimasti solo 50, portati via dalla fame di anni di assedio.
Era uno dei superstiti di ciò che poi venne definito genocidio dalle Corti internazionali. Nonostante questo, Dule decise di tornare a Srebrenica. Perché?
I primi anni del dopoguerra furono duri. L’atmosfera era pesante, era fresca la memoria delle cose terribili accadute, da sfollati continuavamo a spostarci da un luogo all’altro… Io ho cambiato ben cinque scuole dell’obbligo. Nel 2000 mio padre si decise a richiedere indietro le sue proprietà a Srebrenica, e così ottenere il diritto a rientrare. Come lui altri profughi e sfollati cominciarono a battersi per tornare nelle proprie case, fu un processo molto difficile.
Come mai?
Nel 2000 i miei genitori presentarono richiesta di restituzione della casa. Ci riuscirono dopo enormi difficoltà perché nel frattempo era stata data ad altre persone. Si trattava di combattere contro un sistema in cui le case dei bosgnacchi venivano date a ex combattenti serbi, come premio per il valore dimostrato in guerra, con tanto di documenti in cui veniva dichiarato che quella proprietà non era più nostra. Ma l’OHR ha avviato allora una forte campagna per la restituzione delle proprietà e il diritto al ritorno delle persone nei luoghi di origine, soprattutto di serbo-bosniaci in Federazione e bosgnacchi in RS. Tutto ciò in un’atmosfera in cui c’era ancora tensione, tanta insicurezza, paura e t[]e al pensiero di tornare dove amici e parenti erano stati massacrati. A quei tempi si doveva tacere, non rispondere alle provocazioni, avere pazienza e un grande sangue freddo. Non fu per nulla facile.
Ma mio padre era deciso e nel 2002 siamo riusciti a tornare. La nostra casa era a tre piani e al piano terra, dove prima c’erano due garage, i miei genitori hanno avviato il “nuovo” ristorante, dato che quello di prima era completamente distrutto. Così, improvvisando, hanno cominciato con un fornello a gas da casa, tre tavoli, dieci tazze. Era l’inizio di quello che è oggi Misirlije, un ristorante e una pensione con quaranta posti letto…
Tornare a Srebrenica, che con gli accordi di Dayton era rimasta parte della Republika Srpska e dopo la guerra abitata quasi del tutto da serbo-bosniaci, è stato visto come un gesto eroico…
Sì, ciò che aveva fatto era molto importante anche dal punto di vista simbolico e fu d’esempio per altri amici e conoscenti. Ma c’è anche da aggiungere che tutti noi sfollati in Federazione croato-musulmana non avevamo diritto di residenza fissa, di restare a lungo nella stessa casa perché doveva giustamente essere restitutita al legittimo proprietario. Inoltre eravamo considerati uomini senza nulla, trattati come randagi o vagabondi, come non avessimo radici, tradizioni, cultura, istruzione… direi senza "pedigree". Penso che a partire dal 2000 queste persone avessero raggiunto il massimo della sopportazione. Al contempo, erano i primi anni in cui si cominciava a vedere la ricostruzione, l’apertura di qualche azienda, la strutturazione di un sistema di gestione del paese.
Inoltre, c’è da dire che in quel periodo ci hanno aiutato diversi fattori esterni. C’era una forte presenza di Ong straniere, c’era l’OHR, l’UNDP, l’OSCE, quindi un alto numeri di stranieri, a Srebrenica soprattutto, che lavoravano affinché la situazione si calmasse e la Bosnia Erzegovina arrivasse a una condizione sostenibile. Tutto questo avviò un sensibile processo di rientro, che però si arrestò dopo il 2005.
Come mai?
Si è creata una situazione che ha spinto la gente ad andarsene. Erano sì tornati nelle proprie case, ma a questo non era corrisposta la possibilità di trovare lavoro e assicurarsi un minimo di sussistenza. Per cui dal 2007 è cominciato il contro-esodo. Ad oggi, sebbene i dati del censimento non ci siano ancora, valuto che a Srebrenica vivano stabili tra le tre e le cinquemila persone… Prima della guerra eravamo 36mila.
Suo padre è morto a gennaio dello scorso anno e lei ha deciso di proseguire sulle sue orme, prendendo in gestione Misirlije. Chi sono i vostri clienti e perché vengono a Srebrenica?
Sono ospiti che provengono da tutto il mondo. La maggior parte viene per visitare il Memoriale di Potočari e per fare il “viaggio della memoria” su quello che è accaduto nel luglio del 1995. Per la maggior parte sono studenti che provengono da Austria, Olanda e Italia. Ma ne abbiamo anche dagli Stati Uniti e tutta l’estate scorsa sono arrivati gruppi dall’Australia che nel loro viaggio in Europa avevano inserito anche la tappa a Srebrenica e al Memoriale.
Perché arrivano soprattutto da quei tre paesi?
Per quanto riguarda gli austriaci, è perché c’è un legame storico. I bosniaci sentono una certa propensione verso l’Austria, perché ha governato qui e una gran parte delle infrastrutture che abbiamo oggi sono eredità del periodo austro-ungarico: le strade, le università, i municipi, le biblioteche, le scuole, le istituzioni statali… Sebbene la distanza temporale con quel periodo sia grande, i rapporti di amicizia tra i due paesi si sono mantenuti.
Gli italiani e i bosniaci secondo me hanno invece un temperamento simile, alcuni modi di fare, di vivere il sociale. Anche se non parlano la stessa lingua, riescono incredibilmente a capirsi lo stesso! E poi sono stati presenti nel periodo della ricostruzione post-conflitto, oltre ad avere accolto in Italia tanti profughi bosniaci.
E gli olandesi?
Per quanto riguarda l’Olanda direi che è perché i loro militari erano di stanza qui nel 1995 sotto la bandiera Onu con il compito di controllare l’area protetta di Srebrenica. I fatti di luglio provocarono, anni dopo, la caduta del governo olandese e i media in Olanda ne parlarono di continuo, raccontando ciò che era successo. Per cui molti semplici cittadini olandesi hanno sentito dell’esistenza di Srebrenica e hanno deciso di venirci in aiuto. Numerose organizzazioni non governative olandesi hanno lavorato qui e ci sono tutt’oggi.
Ma tra gli ospiti olandesi ci sono anche molti ex-militari. Vengono ogni anno, a volte anche più volte durante l’anno. Ho conosciuto la maggior parte di loro… allora erano ragazzi che si sono trovati nel ruolo di semplici soldati agli ordini della catena di comando. Dopo quello che è successo sono stati messi al bando dall’opinione pubblica e per loro è stata dura. Non penso che i singoli soldati abbiano colpe, perché non avevano avuto la possibilità di fare di più. Avevano ricevuto l’ordine di non reagire, di mantenere lo status quo… la responsabilità è semmai dei vertici dell’Onu.
Come vivono oggi?
Quelli che ho conosciuto di persona, che sono comunque tanti, hanno sofferto di forti disturbi da stress post-traumatico. La maggior parte di coloro che allora erano sposati hanno divorziato, molti sono diventati “soggetti disfunzionali”, nel senso che non riescono a vivere una vita normale e sono in cura psichiatrica o psicologica. Alcuni, dopo quel 1995, si sono suicidati.
A Srebrenica ci sono state decine di organizzazioni internazionali. Le donazioni sono state ingenti, eppure oggi Srebrenica è un deserto…
Penso che Srebrenica venga tuttora tenuta ostaggio. E’ ostaggio della nostra politica, sia di quella dei bosgnacchi come di quella dei serbo-bosniaci. I fondi che sono arrivati per Srebrenica da paesi donatori sono passati da Banja Luka e da Sarajevo, presi dai vertici e poi drenati. La maggior parte di quei fondi finisce nelle tasche del giro ristretto di politici e amministratori. Quando arrivano qui ne finisce una minima parte nelle mani delle persone che ne avrebbero veramente bisogno e che se lo meritano, cioè coloro che vogliono veramente vivere qui e lavorare con impegno. Accade in tutta la Bosnia Erzegovina, ma a Srebrenica soprattutto.
Abbiamo risorse naturali, territorio, acqua. Eppure finché non verrà qualcuno da fuori, una forza esterna che ci mostrerà la strada o che prenderà in mano tutto, qui non ci sarà vita. La maggior parte della popolazione non cambia, continua ad essere passiva. Ha perso la capacità di impegnarsi, lavorare, agire in modo corretto e onesto, secondo determinati pricìpi e valori che io – come lo era per mio padre – ritengo imprescindibili nella normalità della vita e a maggior ragione dopo un conflitto così devastante.