Srebrenica: 8372 non è un numero
Domenica, a Srebrenica, si commemorerà il genocidio avvenuto nell’estate del 1995. E c’è chi ha il coraggio di denunciare i crimini compiuti dalla propria comunità
Il rinomato giornalista di Banja Luka, Dragan Bursać, è spesso oggetto di offese e minacce di morte per i suoi articoli in cui denuncia, oltre ai casi di corruzione e malaffare, anche i crimini perpetrati durante la guerra che dal 1992 al 1995 ha devastato la Bosnia Erzegovina. Viene minacciato soprattutto perché da “ortodosso di Bosnia” (serbo-bosniaco) denuncia da sempre la negazione dei crimini perpetrati dalle forze serbo-bosniache sulla popolazione non-serba, e dunque anche il genocidio di Srebrenica.
Proprio pochi giorni fa, con l’avvicinarsi dell’11 luglio, in memoria delle 8372 vittime – i cui nomi sono oggi inscritti nel Memoriale di Potočari – Dragan Bursać ha scritto sul suo profilo Facebook : “Se leggi attentamente i nomi e i cognomi nascosti dietro a quel numero, ti ci vorranno almeno 4 ore per leggerli tutti! Quattro ore per leggere solo il prologo dietro al quale ci sono racconti di persone, destini, amori, litigi, fortune, compleanni, feste e funerali… Persona buona, se leggi attentamente vedrai che questi non sono numeri, sono PERSONE. Persone che sono state uccise solo perché portavano un nome diverso e pregavano un altro Dio! No, 8372 non è un numero. E’ la cifra del dolore, una ferita aperta della mia terra e una cicatrice sul viso dell’umanità. (…) 8372 è la cifra del dolore e il nome e cognome del genocidio!”
L’11 luglio del 1995 le truppe serbo-bosniache di Ratko Mladić entrarono a Srebrenica, cittadina decretata “Area protetta” dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU tra aprile e maggio 1993 e posta sotto protezione dei caschi blu, dove si erano assembrati migliaia di bosgnacchi fuggiti dai villaggi della zona.
Quel giorno a migliaia, t[]izzati dopo l’ingresso in città delle truppe, avevano cercato rifugio nella base dei caschi blu di Potočari a pochi chilometri da Srebrenica. Le truppe olandesi invece consegnarono i civili ai soldati. Vennero deportate, uccise e occultate in fosse comuni più di 8mila persone, tutti bosgnacchi. Centinaia di civili, tra bambini, donne e vecchi, vennero sfollati con la violenza, altri tentarono la fuga percorrendo quella che fu per molti una marcia della morte.
Un genocidio per il quale sono state condannate ad oggi 50 persone, per un totale di più di 700 anni di carcere, tra le quali anche Ratko Mladić – comandante di stato maggiore dell’esercito serbo bosniaco (VRS) – condannato all’ergastolo lo scorso 8 giugno.
Come ogni anno, anche domenica prossima avverrà la sepoltura di alcuni di quegli 8372 – di cui 1200 risultano ancora scomparsi – i cui resti, trovati nelle fosse comuni negli anni dopo il conflitto, sono stati finalmente ricomposti e identificati dall’Istituto Internazionale per le Persone Scomparse attraverso l’analisi del DNA. Dopo la “dženana-namaz” (preghiera collettiva) saranno tumulati i resti di 19 persone, in presenza di parenti delle vittime, sopravvissuti e rappresentanti di istituzioni locali e straniere.
Ma sono ancora circa 1200 le persone “scomparse”, di cui non si ha ancora traccia. Tra queste vi è anche il nome di una bambina, Selma Musić, che nel luglio del 1995 aveva sette anni. Come abbiamo raccontato su OBCT, il 12 luglio nella fuga da Srebrenica, sua madre ne perse le tracce nella folla t[]izzata, spinta a forza dai soldati. Nella primavera del 2019 in una foto del fotoreporter Ahmet Bajrić (Blicko) trovata in maniera fortuita in rete, scattata a Ravne nei pressi di Kladanj dove arrivarono decine e decine di donne, bambini e vecchi deportati da Potočari tra il 12 e il 14 luglio, i familiari riconoscono Selma.
La famiglia di Selma non ha mai smesso di cercarla. Di recente, come ci ha raccontato il fratello Alen, l’hanno riconosciuta in un’altra foto scattata dal fotoreporter canadese Roger Lemoyne il 5 agosto del 1995 in un campo profughi dell’Unhcr nella zona di Kladanj: “Abbiamo contattato il fotoreporter e con grande umanità ha assicurato che controllerà nel suo archivio per cercarne traccia anche in altre foto scattate in quei giorni”. Una nuova speranza e allo stesso tempo tanta amarezza, aggiunge Alen: “Ma è incredibile che ad oggi non si sia riusciti ad avere altre informazioni, né dalle istituzioni né da singoli".
La domanda che sovviene è: se Selma è arrivata viva in territorio libero, e finita accolta in un campo profughi gestito dalle Nazioni Unite, come è possibile che se ne siano poi perse le tracce? Alen, a questo proposito aggiunge: “Sono purtroppo arrivato a pensare che qualcuno voglia insabbiare tutto, sia persone che stanno “in alto” sia chi piange sui morti di Srebrenica ma dai quali finora non abbiamo avuto alcun aiuto. La voce di Selma va ascoltata! Non solo in Bosnia, ma in tutta Europa”.
Alen, in vicinanza dell’11 luglio, lancia ancora il suo disperato appello assieme alla sorella Elvira: “Aiutateci. Qualsiasi informazione potete darcela in incognito attraverso la pagina Facebook dedicata ".