Solidarietà balcanica
La solidarietà in risposta alle inondazioni del 2014, i Plenum, ora l’assistenza a profughi e migranti. Da questa solidarietà si può ripartire per un futuro migliore dei Balcani?
(Pubblicato originariamente da OpenDemocracy il 24 novembre 2014, tit. orig. "The return of Balkan solidarity?")
Nel maggio dello scorso anno tremende inondazioni hanno devastato parti della Bosnia Erzegovina, della Croazia e della Serbia, con decine di morti e migliaia di sfollati. Vi fu allora un’ondata di solidarietà, non curante delle divisioni etno-nazionali che si suppone dividano e determinino gli accadimenti nei Balcani.
I gesti di solidarietà sono stati molti e vari, andando da atti di gentilezza individuale a mobilitazioni collettive per fornire assistenza ai bisognosi.
Ora, con i Balcani attraversati da un fiume di migranti, in cerca di protezione all’interno dell’Ue, sono emerse nuove forme di solidarietà. Nell’intermezzo di questa solidarietà vi sono inoltre stati due semi di partecipazione politica e di una nuova strutturazione dell’attivismo civico, che si sono concentrati non sulla sofferenza causata dagli eventi ma sulla sofferenza causata dalla vita di tutti i giorni.
Non solo per jugo-nostalgici
Le guerre degli anni ’90 hanno gettato semi di divisione che hanno reso la solidarietà trans-balcanica una prospettiva lontana, alla quale solo gli jugo-nostalgici potevano aggrapparsi. Il fallimento nel venire a capo del nazionalismo e dei crimini commessi nel passato ha alimentato lo scetticismo rispetto ad una possibile riconciliazione e ad un’idea di futuro comune. Solo l’ombrello comune del percorso verso l’Ue sta proteggendo da ulteriori frammentazioni.
La cooperazione e la collaborazione attraverso i confini è ancora limitata da una profonda sfiducia e apatia derivante dalla disintegrazione distruttiva dell’ex Jugoslavia. I dividendi portati dalla pace si sono squagliati rapidamente portando al pessimismo sul fatto che i cittadini possano essere protagonisti del cambiamento.
Ciononostante, quando le acque si sono alzate nel marzo del 2014, la gente in Bosnia Erzegovina, Croazia e Serbia si è affrettata a donare ciò che poteva, inclusi vestiti, biancheria, generi alimentari. […] Le campagne di fundraising – spesso lanciate da membri della diaspora – hanno goduto di ampia diffusione sui social media.
Centri-giovani e municipi si sono riempiti di volontari che hanno garantito una distribuzione rapida ed efficace degli aiuti. Le mobilitazioni spontanee di alcuni individui si sono trasformate presto in strutture ben gestite che sono riuscite a distribuire secondo i bisogni effettivi. Comunità che in passato erano in guerra ora erano fianco a fianco ad aiutare le persone colpite dal disastro naturale.
Mentre governi disorganizzati erano in difficoltà nel mobilitare risorse, decine di migliaia di volontari si sono riuniti in lunghe catene umane per costruire argini con sacchi di sabbia. Altre barriere improvvisate sono riuscite a limitare le acque, mentre chi era in pericolo veniva evacuato dalle proprie case con canotti ed altri mezzi improvvisati. Le palestre sono state convertite in rifugi temporanei per coloro i quali erano rimasti senza casa. Molti cittadini hanno offerto le proprie case come rifugio.
Rotta balcanica
Le reazioni al flusso di rifugiati che stanno attraversando la regione – dalla Grecia in Macedonia, per poi passare attraverso la Serbia e prima in Ungheria (che ha poi chiuso i suoi confini) e poi in Croazia – ricordano quelle alle alluvioni. I singoli volontari sono stati rapidamente organizzati in strutture coerenti che hanno risposto con professionalità e integrità alla crisi che ha invece causato difficoltà a stati che hanno più volte dimostrato la loro incapacità di governare.
I cittadini della Bosnia Erzegovina hanno raccolto cibo e vestiti poi spediti nella vicina Serbia per assistere i rifugiati. Mentre nella regione si accoglievano sempre più stranieri, gli stranieri della regione si sentivano sempre più uniti da una causa comune.
In molti hanno affermato che le esperienze di sfollamento che si sono fatte nei Balcani hanno aiutato la gente a capire le sofferenze di chi stava fuggendo dalla guerra e dalle persecuzioni. Questo è parzialmente vero anche se la situazione di rifugiati e sfollati interni, negli ultimi 20 anni, ha ricevuto sempre meno attenzione e le prospettive di rientro nelle loro case sono del tutto svanite.
Certo il flusso di migranti dell’estate e il coinvolgimento nella solidarietà delle diaspore balcaniche sono servite a ricordare che milioni di persone originarie della regione vivono altrove e che la regione ha perso intere generazioni, capitale umano di cui gode ora l’Occidente.
Semi di mobilitazione in Bosnia Erzegovina
Tratti di questa solidarietà si sono inoltre visti anche nella storia più recente della Bosnia Erzegovina, in particolare nelle proteste legate alla mancata assegnazione della ‘JMBG’ (Jedinstveni matični broj građana) e in quelle del febbraio scorso. Le prime erano legate alla mancata allocazione del numero di identificazione personale (espletamento burocratico necessario a dare personalità giuridica, ndt) a causa dello stallo politico nel paese: questo ebbe tra le varie conseguenze l’impossibilità per Berina Hamidovic, neonata di tre mesi gravemente malata, di poter essere trasferita all’estero per delle cure che le avrebbero potuto salvare la vita. Le seconde sono esplose dopo l’accumulo di scontento derivante da anni di governo corrotto, ed hanno portato a proteste a tratti violente in città come Tuzla e Sarajevo.
In entrambi i casi “stranieri” sono stati uniti da cause e sentimenti comuni ed hanno dato voce assieme alle loro lamentele rispetto ad una classe politica che si è dimostrata sempre più nervosa. Le manifestazioni di scontento nonostante abbiano fallito nel raggiungere il cambiamento in cui speravano ed a valorizzare l’energia politica creata – in particolare riguardo ai Plenum, assemblee popolari, aperte a tutti – hanno creato comunque nuove fonti di ottimismo per un futuro più positivo. Anche se molte di queste energie sono andate dissipate (in parte per le inondazioni in parte per le elezioni del 2014) le nuove alleanze createsi e le strutture a cui si è dato vita hanno fornito una scintilla di speranza per future mobilitazioni.
La solidarietà mostrata nei confronti dei rifugiati non è una tantum, ma il ripetersi della stessa umanità che ha alleviato i risultati devastanti delle alluvioni. Queste mobilitazioni non sono spinte da condizionalità esterna, ma dalla solidarietà provata nei confronti dei sofferenti.
Valorizzare questi atti ed espressioni di solidarietà può aiutare a rafforzare una nuova politica della partecipazione che non sia solo focalizzata su determinati eventi (inondazioni, rifugiati) ma sulla quotidianità.
La crisi dei rifugiati ha dimostrato l’esistenza di una volontà individuale non solo di assistere gli altri ma anche di mobilitare le strutture che potrebbero aiutare a raggiungere questi obiettivi. Mentre prevale lo scetticismo, questi fatti ci ricordano delle possibilità che esistono di sorprendere anche chi si è allontanato dalla politica e afferma che il cambiamento è improbabile, se non impossibile. Valorizzare questa rinnovata solidarietà può porre le fondamenta per coinvolgere coloro i quali sono stati delusi dalla politica.