Sogni dentro il baraccone: 10 anni in un centro collettivo
Osservatorio sui Balcani ha visitato due centri (Tasovcici e Klepci) nel Cantone Herzegovina-Neretva, cercando di ricostruire le condizioni di vita di parte della popolazione sfollata in BiH oggi.
Due milioni e duecentomila abitanti della BiH hanno dovuto abbandonare la propria casa a causa della guerra. Molti di loro sono stati costretti ad andarsene via e a ricominciare da capo in un altro Paese, lontano dalla terra nativa. Oggi, dieci anni dopo, molti sono rimasti lì, e purtroppo non tornano più. La guerra e il tempo hanno fatto cambiare la vita, le abitudini… Più di un milione di abitanti della BiH resta così ancora fuori dalla Bosnia. Per quanto riguarda l’altra metà dei profughi, una parte di loro è riuscita in questo periodo a tornare a casa propria, mentre più di 450.000 sono sempre in Bosnia ed Erzegovina ma non ancora nelle proprie case. Le statistiche dicono che il 50% di loro sono sul territorio della Federazione BiH, il 46% nella Republika Srpska e il 4% nel distretto di Brcko. Nei primi sei mesi di quest’anno, sempre secondo le statistiche dell’ ACNUR sono tornati a casa 24.102 Musulmani, 6.082 Croati e 21.953 Serbi.
Con il ritorno a casa viene risolto un problema, ma purtroppo ne emergono molti altri. Come campare, dove trovare un lavoro, come inserirsi in una società dove sei considerato una minoranza o un nemico. In questi ultimi anni sono diminuiti gli organismi che si occupano dei problemi dei rientranti. Ci sono ancora alcune organizzazioni umanitarie che sostengono la ricostruzione di case e altre (poche) che fanno vari tipi di consulenza: legale, psicologica, sanitaria. Alcune di loro si occupano anche di persone che non sono ancora riuscite a trovare casa e si trovano accolte presso i centri collettivi. Tendopoli, baracconi, prefabbricati sono i luoghi dove molti abitanti della BiH hanno infatti trovato una seconda, speriamo temporanea, casa.
Le statistiche sui centri collettivi oggi purtroppo non esistono più, almeno non quelle che riguardano tutto il territorio nazionale. Secondo l’ACNUR, il numero di profughi originari della BiH che non sono ancora riusciti a trovare una sistemazione sicura oggi è di 18.000 in Croazia, 143.000 in Jugoslavija e 48.000 nelle altre zone della regione. L’ACNUR negli ultimi mesi ha chiuso molte strutture di questo tipo, mentre altre sono rimaste a carico delle autorità locali. Nel cantone Herzegovina-Neretva, solo all’inizio di quest’anno, l’ACNUR ha chiuso otto centri collettivi. Oggi ne sono rimasti sette, in maggioranza piccoli centri collettivi che contano, secondo i nostri calcoli, circa 1.200 persone in totale.
Le cifre sono una cosa, ma poi andare e vedere le condizioni nelle quali questi numeri vivono è tutt’altro. Così, abbiamo deciso di visitare uno di questi centri, che pare anche essere il più grande.
Il villaggio Tasovcici si trova a pochi chilometri da Capljina, circa 25 chilometri a sud di Mostar. La citta di Capljina oggi è prevalentemente croata, ma stanno tornando anche Musulmani cacciati via nel 1993. Nel centro collettivo Tasovcici vivono solo Croati, quelli che dalla Bosnia centrale sono arrivati in questa zona nel 1993. All’inizio erano sistemati in altre località e il centro collettivo fu fondato nel 1994. Oggi ci vivono circa 400 profughi, ci dice la signora Ivanka Ivankovic, responsabile del centro. Ci fa vedere una lista di nomi dalla quale si vede che gran parte di loro è stata già cancellata e sono state poi aggiunte altre persone. Significa che attraverso il centro ne sono passati molti, ma che altri sono lì dal principio.
Come si vive qua? E’ il cantone di Capljina a pagare le spese per l’elettricità, l’acqua potabile e a garantire un pasto al giorno. Alcune organizzazioni umanitarie, soprattutto i pellegrini di Medjugorje, ogni tanto portano altro aiuto come cibo, abbigliamento, ecc. Ci sono poi altre organizzazioni come IDEJA, che ci ha accompagnato a Tasovcici, che fanno consulenza legale, psicologica, medica…
La vita qui non è facile. Lavoro non ce n’è. Solo il 2% delle persone lavora. Altri, soprattutto i maschi, stanno tutto il giorno nel campo aspettando che arrivi qualcuno con un’offerta per un lavoro qualsiasi. Si tratta quasi sempre di lavori fisici, come lavori nell’edilizia o simili. Non si può scegliere, si prende il primo che capita. Lo stesso vale per le donne che vanno a Capljina a pulire i bar, i condomini… Tutta questa gente non pensa di tornare a casa propria. Dicono che le case sono state distrutte e, nei casi in cui sono state ricostruite è la mancanza di lavoro il motivo per cui non tornano. Ormai sono passati tanti anni e tornare lì per loro non ha più senso.
Nel frattempo alcuni profughi sono riusciti a farsi una casa nei pressi di Capljina. Ci sono state alcune organizzazioni internazionali come IRC che li hanno sostenuti, ma il problema – ci dice la signora Ivankovic – è che i donatori sono pronti a fare una casa completa al massimo per dieci famiglie, con il famoso sistema ‘chiavi in mano’. Ma così abbiamo un paio di famiglie fortunate che si prendono ‘tutto’ e un mare di altre che non hanno niente. Forse sarebbe meglio, ribadisce la signora Ivankovic, dare a ciascuno 5.000 marchi così che ognuno possa, piano piano, con la propria forza e l’aiuto di altri organizzarsi per procurarsi l’essenziale.
Tra quelli che negli ultimi anni hanno aiutato il centro ci sono l’organizzazione spagnola MPDL, la cittadina italiana di Sora che ha accolto diverse volte i ragazzi durante il periodo estivo, la Caritas italiana, la Croce Maltese, alcuni singoli donatori irlandesi e i preti di Medjugorje.
Mentre gli uomini cercano un lavoro e le donne si occupano della casa, i ragazzi vanno a scuola dove però, ci raccontano, non sono molto bravi. I problemi nel centro non sono pochi. Ci sono persone anziane, invalidi, ragazzi con handicap. In queste condizioni anche l’alcolismo non è una cosa rara. La situazione sanitaria tuttavia è soddisfacente. Finora ad esempio non ci sono state malattie contagiose. Siamo entrati in uno dei baracconi. Uno spazio di 20 metri quadrati è la casa di tre persone. Ma ci sono casi in cui ci sono anche sette, otto persone in una stanza sola. La gente è riuscita a trasformare quel piccolo spazio in una vera casa: ci sono l’armadio, le tende, i centrini… Qui si svolge la vera vita. Chi sa quanti matrimoni sono stati fatti in questi nove anni, quanti bambini sono nati? Non ci sono statistiche. Ma la prova più visibile di questa presenza è il cimitero locale che si è parecchio allargato. Quella purtroppo è la prova più concreta che la vita qui c’è(ra).
A pochi chilometri da Tasovcici c’è il villaggio di Klepci. Prima della guerra era un villaggio esclusivamente serbo. Con la guerra i Serbi sono stati cacciati via. Oggi, dieci anni dopo, stanno per tornare. Il team di ‘Ideja’ visita tutti i mercoledì anche questo villaggio. Lì c’è una specie particolare di ‘centro di accoglienza’, una casa ricostruita con l’aiuto internazionale per raccogliere la gente che sta ricostruendo la propria casa. Finora sono state ricostruite 27 case serbe. Ma è molto dura. Si tratta di un villaggio serbo circondato da Croati. Non si produce niente, non c’è lavoro. Per questi motivi, ritornano solo i vecchi. Un’eccezione alla regola è Srdjan, trentenne, che è tornato da poco e pochi giorni fa è anche diventato padre. Adesso Srdjan sta per cominciare un’altra vita, sta pensando di aprirsi un panificio che potrà servire anche agli altri. Della convivenza ancora non si parla. Ognuno vive nel proprio mondo. I pochi Serbi del villaggio quando cala il buio non escono di casa. Capita ogni tanto di sentire una sparatoria. Dall’altra parte, nella vicina Tasovcici, rimangono i Croati nel Centro Collettivo. Che sperano di trovare un mutuo per ricostruirsi la casa oppure un qualsiasi lavoro. Ognuno di loro sta sognando un futuro più bello. Sono ancora, purtroppo, due sogni diversi.
Secondo dati raccolti dallo U.S. Committee for Refugees, e resi noti lo scorso 20 novembre, i programmi per l’assistenza e la protezione dei rifugiati su scala mondiale si trovano a fronteggiare una profonda crisi finanziaria. In particolare, l’ACNUR ha attualmente un passivo di 200 milioni di dollari e prevede di terminare l’anno con 170 milioni di dollari in meno rispetto agli 1,04 miliardi necessari per rispondere alle necessità di base della popolazione rifugiata nel mondo. Decine di altre organizzazioni che lavorano con i rifugiati stanno affrontando problemi simili.
Lo U.S. Committee for Refugees ha stilato una lista di 60 esempi che descrivono l’impatto di questa crisi finanziaria sui rifugiati. (US Committee for Refugees, 20 Nov 2002)