Social network, i nuovi salotti della società turca

La stampa nel XIX secolo ha preparato la società ottomana al passaggio dall’Impero alla Repubblica. Saranno in grado ora, i social network, di produrre un mutamento altrettanto significativo? Un’analisi sul ruolo delle nuove tecnologie nel movimento di Gezi Parkı

04/09/2013, Luca Zuccolo -

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Le proteste ancora in corso ad Istanbul e in molte altre città della Turchia hanno evidenziato un fattore interessante del modo nuovo di fare politica delle giovani generazioni di cittadini: i social network. La Turchia, con più di 35 milioni di utenti internet, di cui 32 milioni usano facebook e 9.7 milioni usano twitter (1), è ai primi posti in Europa per quanto riguarda la connettività on-line e le modalità di sviluppo delle odierne proteste ne sono la prova più significativa.

I social network non sono solo un mezzo di contatto tra i diversi partecipanti alle proteste, ma si sono dimostrati, innanzitutto, il primo e più importante strumento di comunicazione e informazione dei e per i manifestanti. Grazie ai social network, a internet e alla possibilità di trasmettere – quasi in tempo reale – tutto ciò che accadeva a Taksim o negli altri centri della protesta, gli attori di questa ribellione contro il governo turco hanno creato una rete relazionale che supera i confini locali e che, bypassando i media ufficiali, è riuscita a far sentire la sua voce in tutto il mondo.

Questo ruolo dei social network è rilevante per diversi motivi. Da un lato, facebook e twitter si sono sostituiti ai giornali quotidiani come principale fonte di informazione. In secondo luogo le due piattaforme di socializzazione hanno creato un réseau socio-politico trasversale alla società turca che ha messo in discussione la leadership del premier Recep Tayyip Erdoğan. «La facilità di interazione sui social media», infatti, «permette anche agli utenti non-attivisti di essere coinvolti nelle proteste» (2). Infine, la facilità con cui questi strumenti tengono in contatto le persone ha fatto sì che i social network divenissero i nuovi “salotti” della società turca. Luoghi privilegiati in cui le diverse anime della protesta si sono unite in un dibattito molto più ampio che ha superato i limiti della piazza ed è entrato in tutte le case del paese.

Il ruolo di “salotti” svolto dai social network in questi ultimi mesi, nondimeno, non è del tutto nuovo. Prima del loro avvento questo compito era svolto dai giornali, gli stessi quotidiani che in più di un’occasione sono stati superati dalle potenzialità divulgative, informative e associative dei social media. Questa considerazione conduce ad un altro aspetto della questione e del confronto tra i due strumenti di informazione. Per capire come stia evolvendo la società turca è opportuno operare un parallelo tra il recente sviluppo dei social media e l’originario sviluppo della stampa quotidiana. I primi giornali turchi, risalenti all’epoca ottomana, infatti, svilupparono caratteri simili a quelli degli attuali social network proponendosi come il principale luogo di comunicazione all’interno della plurima società imperiale.

Durante il XIX secolo, grazie all’impulso dato dai Sultani e dall’emergente classe burocratico-amministrativa, si sviluppò la stampa quotidiana. Grazie alle esperienze della stampa francofona e di palazzo – Moniteur Ottoman (1830) – a partire dalla metà del secolo è fiorita la stampa di opinione, la quale ha creato un primo réseau sociale in cui discutere di quanto avveniva dentro e fuori l’Impero. I giornali divennero in breve una tribuna decisiva per lo sviluppo sociale e politico della tarda società ottomana. Attraverso di essi, così come accade oggi con i social network, i sudditi ottomani sono stati in grado di costruire una rete relazionale solida e duratura su cui si sono poste le basi per l’evoluzione dell’Impero che ha poi portato alla Repubblica di Ataürk. I quotidiani, infatti, da un lato hanno rappresentato un indispensabile strumento di diffusione delle nuove idee emerse durante il regno di Abdülhamid II (1876-1908); dall’altro hanno permesso ai gruppi antagonisti, come i Giovani Turchi, di avere una visibilità altrimenti irraggiungibile. Al pari dei social media odierni, quindi, la stampa quotidiana ha rappresentato un prolifico canale di trasmissione delle idee in grado di superare anche la barriera linguistica e dell’analfabetismo. Se oggi, infatti, la facilità di trasmettere informazioni ha permesso il superamento delle barriere generazionali e spaziali, alla fine dell’Ottocento, la stampa era in grado di superare le barriere sociali grazie alla sua straordinaria diffusione dovuta sia all’aumento del pubblico di lettori sia al pubblico di uditori – tutti coloro che non sapendo leggere ascoltavano letteralmente i giornali attraverso la lettura che se ne faceva nei luoghi della sociabilità urbana: Coffehouses e Kiraathane.

Sebbene le proporzioni del pubblico e degli attori odierni siano nettamente maggiori rispetto a quelli di fine Ottocento, il potenziale dei media sociali resta immutato in quanto “salotti” ideali in cui confrontare le proprie idee e combattere le proprie battaglie. Come i social network, anche i giornali ottomani hanno avuto un effetto importante sulla politica ottomana. Per la prima volta in modo significativo, infatti, la stampa quotidiana permette alle masse imperiali, indipendentemente dalla loro origine o religione, di avvicinarsi all’agone politico e far sentire la propria voce. Una potenzialità ben chiara al Sultano Abdülhamid II il quale, tramite le leggi sulla stampa, affiancò ai quotidiani un elaborato sistema censorio.

Questo aspetto, tutt’altro che un semplice strumento oscurantista, può richiamare le recenti prese di posizione del governo turco contro la stampa. La censura Hamidiana, tuttavia, si esercitava sotto forme molto diversificate e, dato applicabile anche al presente turco, era fondata primariamente su una forte autocensura. Quest’ultima, se da un lato dipendeva dai finanziamenti che a vario titolo il Sultano elargiva ai diversi giornali, dall’altro era motivata da un emergente sentimento patriottico, che faceva si che molti giornalisti – tra cui il principale fu Ahmet Midhat (1844-1913) – si allineassero alla retorica del Sultano.

La reprimenda voluta da Erdoğan, pertanto, dimostra ancora una volta come la stampa abbia una forte influenza e come il potere cerchi in ogni modo di controllarla. Nondimeno, sebbene i giornali e le tv allineate al governo non abbiano espresso un’informazione limpida su quanto avveniva a Gezi Parkı, molti altri giornali e organi di informazione tra cui Zaman (3) e Radikal hanno offerto al pubblico turco e internazionale uno spaccato fedele delle vicende che si sono intrecciate e si stanno ancora sviluppando nel Paese.

Mentre Erdoğan e i suoi sodali parlavano di “esagerazioni” dei grandi media piombati in Turchia da tutto il mondo per capire e descrivere gli eventi, a fare un lavoro capillare d’informazione sul terreno sono stati i social network, le radio e le tv sorte spesso all’impronta. Realtà consolidate come Acik Radyo (Radio Aperta), dell’intellettuale di sinistra Omer Madra; giornali online appena nati, come T24 (che si fregia della firma di Hasan Cemal, licenziato da Milliyet); emittenti d’opposizione come Halk TV (Tv del Popolo), capace di trasmettere via Web in diretta tutte le fasi della rivolta. È grazie a loro che i cittadini turchi, con un tam tam d’altri tempi, nelle case, negli uffici, negli alberghi apprendevano cosa realmente stesse accadendo nel loro paese (4).

Il dato fondamentale è senza dubbio internet. Senza questo mass media, infatti, sarebbe stato molto più difficile coinvolgere così tante persone nelle proteste di Taksim e delle altre piazze turche. Tenendo conto della trasversalità generazionale, sociale e politica della partecipazione alle proteste risulta decisivo l’uso di mezzi di comunicazione più neutri come facebook o twitter, i quali superano anche l’ultimo limite ascrivibile alla stampa, ovvero gli interessi dei proprietari che, sia nell’esempio ottomano che nella stringente attualità, si sono dimostrati il primo fattore di condizionamento dei media tradizionali. D’altro canto, anche i social network presentano delle problematiche nel loro utilizzo. L’assenza di controlli e di limiti, se da un lato avvantaggia la comunicazione, dall’altro porta il rischio di diffondere false notizie. L’immaterialità di internet e dei social media, infatti, è facile preda dei provocatori che senza essere identificati e identificabili dalla massa possono pilotare le azioni di molti, o per lo meno di quanti non riescono a distinguere le informazioni veritiere da quelle costruite a bella posta.

Sui social network è facile fare disinformazione, diffondere voci senza fondamento, aggressioni verbali e teorie di complotto. In una società in cui pochi si fidano dei politici o dei mezzi di comunicazione, può essere pericoloso. In ogni caso Twitter si è rivelato lo strumento principale per condividere idee, immagini e informazioni non censurate (5).

Da ristrette e personali comunità di amici, quindi, i social network sono in breve tempo assurti al ruolo di comunità globale in cui esprimere il proprio malcontento in una forma soft ancora sconosciuta, che ha nella piazza solo l’ultima risorsa e che quotidianamente corre lungo i fili del Web. I social media hanno modificato radicalmente il modo e i contenuti della politica così come fecero in modo sicuramente meno incisivo i primi giornali. La possibilità di fruire di un “salotto” virtuale su cui riversare il proprio malessere e in cui sviluppare le proprie e le altrui idee per migliorare il futuro della società è forse il dato fondamentale e decisivo della vicenda turca. Forse in modo ancor più politicamente significativo, rispetto a quanto accaduto durante le primavere arabe o i recenti fatti egiziani, i social network turchi hanno posto le basi per un radicale mutamento socio-politico. Sebbene le conseguenze delle odierne proteste siano ancora poco chiare, e dovremo attendere almeno sino alle prossime elezioni per valutare l’efficacia di quanto accaduto, è evidente che le proteste per Gezi Parkı e l’uso dei social media hanno aperto un nuovo capitolo della storia turca, così come i giornali e la stampa d’opinione avevano fatto nel XIX secolo. In entrambi i casi, infatti, dopo un intenso periodo di riforme, un tessuto sociale complesso e plurimo si è affacciato sull’agone politico rivendicando un proprio spazio sociale. La stampa del XIX secolo, assieme alle altre riforme, ha alla lunga contribuito ad erodere il potere dei sultani e ha preparato la società ottomana al passaggio alla dimensione repubblicana. Saranno in grado, i social network, di produrre un mutamento altrettanto significativo?

 

Note:

1. “The role of social networks in #OccuyGezi protests”, in Todayzaman, 02 giugno 2013, http://www.todayszaman.com/columnistDetail_getNewsById.action?newsId=317224 [consultato il 23/07/2013]

2. “The role of social networks in #OccuyGezi protests”, in Todayzaman, 02 giugno 2013, http://www.todayszaman.com/columnistDetail_getNewsById.action?newsId=317224 [consultato il 23/07/2013]

3. ANSALDO, Marco, “Çapulcu a chi?”, in Limes, 6/2013, pp.21-27, p. 25.

4. Ivi., p. 23.

5. ŞAFAK, Elif, “Se la Turchia esplode”, The Guardian, in Internazionale, 1003, 7 giugno 2013, pp. 12-14, p. 14.

 

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Questa pubblicazione è stata prodotta con il contributo dell’Unione Europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l’opinione dell’Unione Europea. Vai alla pagina del progetto Racconta l’Europa all’Europa

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