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Slow food Turchia. Riti di frumento
Pochi chilometri al largo di Istanbul, nel Mar di Marmara, sorgono le Isole dei Principi. Destinazione turistica per chi vuole lasciarsi alle spalle, almeno per qualche ora, la frenesia dell’immensa megalopoli sul Bosforo, le isole sono state per millenni laboratorio di contaminazioni culturali. A testimoniarlo, pietanze, odori, sapori e parole, oggi sospese tra ricordo e oblio
La scia schiumosa del traghetto partito da Kabataş, sulla riva europea del Bosforo, le infila ad una ad una, come perle di una lunga collana immersa nel blu scintillante del Mar di Marmara: Kınalıada, Burgazada, Heybeliada, e infine Büyükada, la maggiore delle Isole dei Principi. Qui la nave, cullata dal vento, attracca al molo disadorno e centinaia di turisti scendono costeggiando la malandata, ma ancora elegante costruzione dell’iskele, la stazione marittima, impreziosita di maioliche color turchese.
Le Isole dei Principi, o semplicemente “le isole” (Adalar), sono un piccolo arcipelago ad un’ora di nave da Istanbul, di fronte alla sua sponda asiatica. La loro storia millenaria è legata intimamente a quella della città di Costantino, divenuta poi capitale dei sultani. Nel corso del tempo, come nel resto dell’Impero Ottomano, le isole hanno visto arrivare, scontrarsi, mescolarsi e convivere comunità diverse per etnia, cultura e religione: greci, turchi, armeni, aleviti, ebrei. Nei secoli, da quell’incontro è nata una sintesi unica, variegata quanto i coloratissimi bazar (çarşı), che ancora oggi stordiscono e affascinano milioni di visitatori. Una sintesi fatta di credenze, tradizioni, ma anche di scambi linguistici e formidabili intrecci di sapori e fragranze sulla tavola.
Col crollo dell’impero della Sublime Porta quel mondo multicolore, fatto di contaminazioni ed eclettismo, è in gran parte scomparso. Resistono solo piccole sacche. La più vitale, arrivata miracolosamente fino ai giorni nostri, è proprio quella delle Isole dei Principi. Qui si conservano ancora riflessi di un mondo di suoni e sapori fragile e prezioso, che oggi fronteggia una nuova sfida, quella della modernità globalizzata. Negli ultimi decenni Istanbul è letteralmente esplosa, passando dai due milioni di abitanti del 1970 ai più di 13 milioni del 2010. Un vero terremoto, in grado di stravolgere equilibri e cancellare eredità vecchie di secoli.
“Partire dal cibo. E dalla lingua. L’idea è tanto semplice quanto vera. Il cibo e la lingua sono il legame profondo, ombelicale, che lega l’uomo alla terra, alla propria identità. Per preservare il patrimonio unico delle Isole dei Principi, questa è la chiave. Anche perché è proprio dal binomio cibo-lingua che emerge il filo rosso che lega tutti gli isolani, a prescindere da religione ed etnia”.
Aylin Öney Tan, a lungo architetto specializzato in monumenti di valore storico, oggi una delle esperte di cultura culinaria più note della Turchia, vive tra Ankara, dove presiede il locale Convivium, e le Isole dei Principi. E’ lei l’anima della comunità degli educatori e promotori della tradizione alimentare multiculturale delle Isole, nata per salvaguardare un sapori e parole che rischiano di sparire per sempre.
“Quando la municipalità ha realizzato un museo su Büyükada, abbiamo preso la palla al balzo, e ci siamo dati da fare per creare una sezione su cibo e linguaggio. Col nostro lavoro abbiamo ricostruito il ciclo di festività religiose musulmane, ortodosse, cattoliche, ebraiche ed alevite, e dai piatti che le caratterizzano. E quello che ne è emerso, è un quadro straordinario di legami e sincretismo”.
L’esempio più sorprendente riguarda quanto di più semplice e fondamentale si possa trovare nel proprio piatto: il frumento. Pietanze a base di frumento segnano i riti di passaggio e lo scorrere delle stagioni in tutte le culture delle isole. Ecco allora il diş buğdayı, dolce di grano bollito e dolcificato con zucchero o melassa di miele o d’uva e cosparso di cannella e noci tritate, utilizzato nella tradizione turco-musulmana per festeggiare il primo dentino di un bambino.
Un dolce molto simile, detto koliva, viene preparato dai greci per segnare un altro, e più triste passaggio, quello dalla vita alla morte, e cucinato nella ricorrenza di Ton Psihon, il giorno dei Morti. Ma anche la comunità armena ha il suo dolce di frumento, l’anuş abur, decorato di chicchi di melograno e profumato con l’essenza di rose, senza cui nessun Natale o Capodanno può dirsi completo. E naturalmente, non poteva mancare la versione ebraico sefardita, detta trigo koço, e servita per la la festa degli alberi di Tu Bishvat, insieme a frutta secca, noci, fichi secchi, datteri e olive.
E’ proprio la comunità sefardita, arrivata ad Istanbul con la cacciata degli ebrei dalla Spagna nel 1492, ad aver dato vita ad alcune delle commistioni più incredibili e gustose. “La mia gente portò con se solo due cose, la lingua dei padri e i piatti delle madri, che qui si sposarono con quelli locali”, racconta Selin Rozanes, membro di Slow Food e fondatrice dell’associazione Turkish Flavours. Dai ricettari che mi mostra Selin, fanno capolino creazioni dai nomi irripetibili, come il dulse de kayesi (dolce di kayısı – albicocca in turco) o i burekos de igo, una delizia fatta di fichi ripieni di noce, dove alla parola turca börek, (impiegata per indicare ripieni salati) si affianca il termine ebraico-spagnolo igo (fico).
Anche gli intrecci tra tradizione armena e turca hanno radici profonde e risvolti inaspettati. “Il libro di cucina più importante della comunità, l’Aşçının Kitabı (1914), era scritto in turco, ma utilizzando i caratteri dell’alfabeto armeno”, mi racconta nel suo ufficio stracolma di libri Takuhi Tovmasyan, autrice di un libro in cui i ricordi familiari si intrecciano con le ricette della cucina armena di Istanbul e dintorni. “Carne, melanzane, peperoni verdi, cipolle, aglio, lenticchie, fagioli, pomodori, spezie. Nei ricordi della mia infanzia tutti gli ingredienti e gli odori della cucina di mia nonna parlano al tempo stesso armeno e turco, e sulla lingua sento ancora il sapore del cibo e insieme delle parole”.
Sulle isole l’attraversamento delle linee che di solito dividono religioni ed etnie era e continua ad essere una costante. Il pane dolce originariamente preparato dai greci per festeggiare la Pasqua, ad esempio, è diventato col tempo un elemento indispensabile dell’alimentazione di tutte le componenti della popolazione, e col nome di paskalya föreği viene consumato per tutto l’anno, senza riferimento alla festa religiosa. La festa di primavera di San Giorgio (Ayios Yorgi, che ha una chiesa a lui dedicata su Büyükada) corrisponde a quella turca di Hıdrellez. Entrambe le comunità festeggiano con picnic all’aperto, in cui il piatto forte è l’agnello arrosto.
“La mia era una famiglia mista, con sangue greco, turco, ma anche ebraico e ungherese. Una vera famiglia ottomana”, rievoca sorridendo Sema Temizkan, appassionata ricercatrice dell’eredità culturale greco-bizantina. “La cucina, però, era il regno di nonna Theopoula, che era capace di soddisfare e impreziosire tutte le variegate feste che segnavano la vita della nostra casa. Come la fanuropita, la bassa torta impastata con succo d’arancia e succo d’uva, consumata il 27 agosto in onore di Ayos Fanurios, il santo patrono delle cose perdute”.
Basta salire per poche centinaia di metri lungo i fianchi scoscesi di Büyükada, dove i filari di cipressi lasciano a poco a poco spazio a boschi scuri di pino marittimo, per ritrovarsi soli. Sulle isole le auto sono bandite, e ci si muove soltanto in bici o in carrozze trainate da cavalli. Di fronte, alzando lo sguardo, campeggia la visione affascinante, ma insieme spaventosa, dell’immensa megalopoli che è diventata Istanbul.
Guardando chilometri di cemento, costruzioni e grattacieli, è facile intuire perché le isole siano oggi un microcosmo ad alto rischio. Centinaia di migliaia di persone ogni settimana si lasciano alle spalle il caos della città alla ricerca di qualche ora di tranquillità sulle Isole dei Principi. Un’invasione pacifica, che rischia però di riuscire dove le invasioni violente del passato non hanno potuto: cancellare parole e fragranze di un’irripetibile storia di convivenza e fecondazione reciproca.
Un rischio reale, da combattere a colpi di gusto e parole. La posta in gioco è troppo alta:in caso di sconfitta, nemmeno l’intercessione di Ayos Fanurios, temo, potrebbe aiutare Istanbul a ritrovare il tesoro perduto delle sue perle sul Mar di Marmara.