Slow Food Bosnia. Umile e tenace come la vite

Trebinje, Bosnia-Erzegovina. Lungo le rive del fiume Trebišnjica, nelle piane di Petrovo e Popovo Polje, circondate da montagne sassose e lunari, crescono i vitigni che donano la žilavka e il vranac, vini che hanno fatto la storia e il successo dell’enologia in Erzegovina orientale. Un tesoro di sapori secolare e fragile, oggi promosso e difeso dal locale convivum  di Slow Food

12/04/2012, Francesco Martino - Trebinje

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Cantina a Trebinje - Ivo Danchev

La notte sopra l’Erzegovina è fredda, silenziosa e puntellata di stelle. Nel mutvak di Jovo Runjevać, un mucchietto di braci attizzate di tanto in tanto dà tepore e regala un’intimità antica, disegnando ombre mutevoli sulle pareti di calcare bianco e sulle botti scure. Il mutvak (o vatrenjača) è un locale quadrato e spoglio, che in questa terra di colline carsiche e fiumi color smeraldo riveste due funzioni fondamentali.

Serve ad essiccare ed affumicare prosciutti ed insaccati che pendono generosi dal soffitto scuro, ma è soprattutto un rifugio sicuro per attraversare le notti d’inverno, lunghe e pungenti, in compagnia di amici e compaesani. Il fuoco basso e sornione scalda il corpo e le dita intirizzite. Ma Jovo sa che per scaldare l’anima ci vuole un distillato puro della terra sassosa, del vento e del sole dell’Erzegovina. E allora con gesti sicuri, misurati, versa la sua žilavka, visibilmente compiaciuto dal colore verde-dorato che danza nel bicchiere, e dal profumo di frutta, d’erbe e di suolo carsico che riempie in fretta il locale.

Non si possono capire gli abitanti di questa parte d’Erzegovina, che ruota intorno alla città di Trebinje e al fiume Trebišnjica, se prima non si beve il loro vino. Perché il vino è il legame invisibile e duraturo col territorio e con le generazioni, ma anche la porta da aprire per arrivare al cuore di questa gente sveglia, lavoratrice, ma anche un po’ sospettosa verso gli estranei, temprata da un territorio aspro e da condizioni di vita mai facili.

“E’ proprio intorno al fuoco, in serate come queste, che ascoltavo i nostri vecchi parlare di uve ora quasi scomparse, anche dai ricordi collettivi”, racconta Jovo. “E’ da lì che è nata la mia passione nel cercare e riscoprire il patrimonio dei nostri vitigni tradizionali”. E così oggi, nelle sue vigne di Zgonjevo, nella piana di Petrovo Polje, Jovo è uno dei pochi a coltivare ancora qualità introvabili e dai nomi sonori, come surac, kadarun e plavka.

Accanto a loro, naturalmente, i due vitigni che hanno fatto la storia e il successo dell’enologia in Erzegovina orientale. Innanzitutto l’autoctona žilavka, che regala un bianco dal sapore armonioso e pieno, tanto da guadagnarsi un posto d’onore alla tavola dell’imperatore d’Austria. E poi il vranac, che da un rosso color rubino venato di porpora, dal sapore intenso e ricco di profumi evocativi (dalla cannella alla liquirizia, dalla fragola alla quercia) arrivato da Macedonia e Montenegro, ma che in Erzegovina ha trovato un ambiente naturale insuperabile.

“Dai primi anni ’90, nella nostra regione la produzione di vino ha subito due shock pesanti, arrivati contemporaneamente: la guerra e la parallela disgregazione del sistema produttivo ed economico della Jugoslavia”. A parlare, mentre sorseggiamo lo schietto vranac di Jovo è Slobodan Vulešević, co-fondatore del convivum Slow Food “Trebinje-Erzegovina” e appassionato di tradizioni culturali e culinarie della propria terra. “Ai tempi della Jugoslavia si puntava soprattutto sulla quantità, e la produzione era gestita da compagnie statali. Poi, con la guerra, i campi e i villaggi di quest’area sono diventati linea del fronte. Quando i fucili hanno finalmente taciuto, contadini e produttori di vino hanno dovuto reinventare il proprio rapporto con la terra e con il mercato”.

Alcune ferite ancora non si sono cicatrizzate. Trebinje e il suo circondario fanno oggi parte della Republika Srpska, l’entità serba della Bosnia-Erzegovina. Il tradizionale sbocco, economico e culturale con la costa dalmato-croata, e soprattutto con la città turistica di Dubrovnik, che dista appena 28 chilometri, rimane ancora in gran parte poco praticabile [vedi box]. Ma questo non ha fermato gli intraprendenti vinattieri dell’area, dai più piccoli ai più grandi, dal cercare nuove opportunità e un nuovo approccio all’arte del vino.

“Questo è il tempo del vino di qualità. E noi ci muoviamo in questa direzione, nel rispetto delle tradizioni, senza paura di idee e tecnologie nuove”. Radovan Vukoje, direttore della cantina “Vukoje” non nasconde una calda sfumatura d’orgoglio mentre racconta di sé e della propria azienda. La sua famiglia è riuscita in pochi anni a divenire un punto di riferimento nel campo enologico a Trebinje e dintorni, raccogliendo premi e riconoscimenti in tutte le fiere del sud-est Europa, e non solo.

Prima cantina privata della zona, dal 2005 la “Vukoje” inizia a produrre con metodi moderni proprio grazie a Radovan, enologo professionista. Oggi la Vukoje vende in tutti i paesi dell’ex-Jugoslavia, ma anche in Scandinavia, Olanda, Austria e Germania. Nel 2003 la famiglia di Radovan corona un piccolo sogno: acquista e rimette a nuovo “le vigne dell’imperatore” di Ušće, alla confluenza dei fiumi Trebišnjica e Sušica. “ A cavallo tra il XIX e il XX secolo, Ušće è stata individuata dagli agronomi austroungarici come località ideale per la produzione della žilavka. Il vino che si produceva qui arrivava direttamente alla tavola di Francesco Giuseppe. Ecco perché averle fatte rivivere ci riempie di orgoglio e di emozione”.

Vukoje è oggi leader tra le cantine dell’Erzegovina orientale, con 100-120mila litri di produzione annua. Non tutti i produttori della zona sono così grandi. La scelta della qualità, però, resta valida (ed è anzi decisiva) anche per i più piccoli. Come la cantina di Tomo Bojanić, a Pridvorci, dove il vino è semplice e sincero come il sanguigno padrone di casa, o quella della famiglia Petijević, tra le più leste a sviluppare una forma integrata di turismo e degustazione, visitata ogni anno da centinaia di turisti russi, italiani e scandinavi sbarcati dalle navi da crociera che approdano a Dubrovnik.

Ma anche la “Vinarija Dračevo”, della famiglia Andjušić. Per arrivarci bisogna attraversare buona parte della piana di Popovo Polje, che da Trebinje si stende verso occidente, immersa nelle nubi basse che avvolgono il cielo corrucciato di inizio gennaio. Popovo Polje significa vino. Qui ogni paesino, spesso manciate di case troppo sparute per trovare posto sulla carta geografica, ha le sue vigne, che gli abitanti curano e custodiscono gelosamente, quasi ogni vite fosse un membro della famiglia.

Lungo la strada che percorriamo lenti, a testimoniare anche fisicamente l’antico rapporto tra uomo e vigne è la sagoma raccolta del monastero di Tvrdoš, adagiato lungo le rive della Trebišnjica. Qui i monaci hanno prodotto per secoli il vino necessario alle proprie necessità, e da qualche anno la cantina di Tvrdoš si è aperta anche alla produzione per il mercato.

Arrivati a Dracevo, Mladen Andjušić ci accoglie nella sua cantina con una calda stretta di mano, e un bicchiere della sua miglior žilavka. Mladen, ingegnere civile oggi in pensione, dopo la guerra è stato uno dei primi a credere alle possibilità di tornare a vivere di botti e filari. “Ho venduto la casa al mare ad Herceg-Novi, e ho investito tutto qui. E’ stata una scommessa, ma ne è valsa la pena”, dice sorridente Mladen. “Oggi, nonostante la crisi, le cose vanno bene. In Erzegovina, però, il vino è una passione che non ammette distrazioni. Lavoro, passione, costanza. Basta un attimo per mandare all’aria il lavoro di anni”.

Durante la guerra di Bosnia, Popovo polje era uno dei fronti più caldi. Tra i molti disastri del conflitto, anche le vigne hanno sofferto, e sono state distrutte. “La guerra, però, non ha scritto solo storie di odio”, mi dice Gordana Radovanović, vera anima del convivium di Trebinje. “Quando mio padre, serbo, ha dovuto abbandonare le vigne del villaggio natio di Orašje, che era letteralmente sulla linea del fronte, due sorelle croate che spesso aveva aiutato negli anni precedenti, di notte e a rischio della propria vita, le hanno curate tenendole vive”. “Un gesto d’amore”, conclude Gordana, “non solo verso un’altra persona, senza confini di nome e di nazionalità, ma anche verso questa terra”.

Perché la vite, umile e tenace, è il vero simbolo della gente di questo angolo di Balcani: capace di aspettare la fine della tempesta e di ricominciare tutto da capo, aggrappata testardamente ai pendii sassosi delle montagne spoglie, maestose e lunari dell’Erzegovina.

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