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Siria – Turchia: storie di confine
Sono migliaia i profughi siriani fuggiti dalla guerra e rifugiatisi in Turchia. Alcuni hanno preso case in affitto nella vicina provincia dell’Hatay o a Gaziantep, ma la maggioranza è nei campi profughi. Abbiamo parlato con alcuni di loro, queste le loro storie
Il protrarsi del conflitto in Siria ha finito col portare su diverse strade il destino dei profughi siriani, alcuni dei quali da più di un anno ormai, sono costretti lontano dalle loro case.
Alcuni di essi si possono permettere una casa in affitto nella regione dell’Hatay o a Gaziantep, altri cercano lavoro nelle città, rassegnati all’idea di dover restare in Turchia ancora a lungo. Secondo il quotidiano indipendente turco Taraf si tratterebbe di circa 12-15.000 persone.
La maggior parte è ancora confinata nei campi, circa 62 mila persone. Tra loro c’è chi guarda ad ogni nuovo giorno con la speranza che sia l’ultimo lontano da casa. Altri si preparano a tornare e già parlano di quello che sarà dopo.
Quello che ha portato su diverse strade il destino di queste persone è il diverso grado di speranza rispetto alla risoluzione del conflitto. Si va da chi, rassegnato, esprime scetticismo sul tempo di cui la Siria avrà bisogno per trovare nuovi equilibri, fino a coloro che attivamente cercano di dare un contributo o addirittura si proiettano al dopo Assad.
Iman
Una donna a viso scoperto, ben vestita, con un bambino di pochi mesi in un passeggino, mi si rivolge in un inglese fluente, mentre guardo i libri di lingua in una cartolibreria di Antakya. Mi dice che non riesce a trovare una grammatica di turco scritta in inglese o in arabo, nella cartolibreria nessuno parla inglese, se posso aiutarla a chiedere. Alla fine il libro non si trova, quelli che c’erano sono stati tutti venduti, per i prossimi ci vuole almeno un mese, anche perché siamo all’inizio dell’anno scolastico. Lei si chiama Iman,viene da Idlib, è venuta ad Antakya con suo marito dieci mesi fa, al quarto mese di gravidanza, dopo che la tensione si era fatta insostenibile.
Con il marito sono rimasti nel campo di Yayladagi fino al settimo mese di gravidanza, poi si sono trasferiti ad Antakya dove lui, un tintore di pelli, ha trovato un buon lavoro. Ora che il bambino ha cinque mesi ed è riuscita ad essere raggiunta da sua madre vorrebbe trovare lavoro anche lei. In Siria faceva l’insegnante, per questo ha bisogno di imparare il turco. Di tornare in Siria per il momento non ci pensa proprio, e il futuro di suo figlio potrebbe essere in Turchia, paese in cui il destino ha voluto nascesse.
Mohammed
Kilis confine con la Siria.
Il rettilineo di cinque chilometri che separa l’ospedale di Kilis dal campo profughi più grande tra quelli presenti in Turchia brucia sotto il sole di settembre. La campagna è ben coltivata ed ordinata. Quando compaiono distese di ulivi, alcuni secolari, non posso fare a meno di pensare a quanto quel panorama somigli a quello della mia regione, la Puglia. La sensazione netta di essere a casa si scontra con quella della vicinanza alla guerra. Mi fermo per scattare delle foto. Solo in quel momento mi accorgo che un ragazzino mi si accosta in bicicletta, pedala scalzo, le ciabatte le ha legate sul sedile posteriore. Maglietta nera, jeans e cappellino, Mohammed ha 15 anni, viene da Aleppo, in Turchia da 4 mesi vuole tornare in Siria quanto prima. Ci manca una lingua per comunicare, ma per quello che mi dice qualche parola di arabo, inglese e le forme di comunicazione non verbali, bastano e avanzano. È il più piccolo di 6 fratelli, 5 maschi ed una femmina, l’unica a essere venuta in Turchia con lui e sua madre. Un fratello è in ospedale a Kilis ferito nei combattimenti, era giusto andato a trovarlo, altri due combattono, l’altro fratello, il maggiore, nelle carceri di Assad insieme con il padre. Dice di voler tornare e combattere. Mi spiega tutto mimando come se si trattasse di un videogame. Non so quanto altro saremmo riusciti a dirci, anche perché in quel momento arriva una macchinone nero, vetri oscurati, accosta, il finestrino si abbassa e compare un uomo di circa 35 anni, grossi occhiali da sole, mi chiede se voglio un passaggio, mi si rivolge direttamente in inglese.
Ahmad
Ahmad mi dice subito di essere stato tenente dell’esercito di Assad. Era di stanza ad Aleppo, fino a quando la situazione si è fatta insostenibile, un anno fa. A quel punto è passato nelle fila del libero esercito siriano, dove è stato promosso comandante, “per meriti acquisiti sul campo di battaglia”, ci tiene a specificare. Mentre parla allunga un braccio sul sedile posteriore per mostrarmi la sua pistola dentro una fondina. Gli chiedo cosa intenda per situazione insostenibile. Mi parla delle operazioni che sono stati invitati a compiere ad Hama ed Homs. L’ordine di far fuoco sui civili, persino bambini, usare armi nelle piazze, preparare finti attentati per dare la colpa ai qaedisti. Come lui, in tanti hanno scelto di disertare. Da mesi fa la spola tra Kilis e Aleppo, dalla quale è ripartito due settimane fa, per portare informazioni ai generali che operano dalla Turchia. Ora si trova in attesa dell’ordine che lo riporti tra le linee, ad Aleppo.
Passiamo il confine ed il funzionario della dogana turca, che evidentemente conosce sia la macchina che Ahmad, si limita a guardare che il passaporto ce l’ho, senza neanche prenderlo in mano. Mi porta all’ufficio dell’esercito libero dove, mi dice, non crede potrò essere ricevuto prima del giorno seguente perché sta arrivando un senatore americano.
Quando un corteo di 3 macchine compare alla frontiera precedendo due suv neri, capisco che dovrò tornare il giorno dopo. Prima di tornare indietro guardo le autoambulanze turche che fanno la staffetta con quelle siriane, attendendo alla frontiera. A volte i feriti vengono trasferiti dalle seconde alle prime, che li portano all’ospedale di Kilis, ma spesso le autoambulanze siriane entrano direttamente in Turchia. Si tratta di casi urgenti, o situazioni in cui il numero dei feriti eccede quello dei mezzi a disposizione in quel momento. Fino al momento in cui Ahmad mi ha offerto il passaggio ne avevo viste sfrecciare 13, dieci turche e tre siriane.
Shahit
Gaziantep, centro città. Bevo un tè seduto in una stradina laterale, appena defilato rispetto alla confusione del Bazar. Il padrone della sala da tè, attratto dalla macchina fotografica si informa su di me, come tipico, e mi dice che ha un nuovo cameriere siriano, che parla anche turco, che se voglio posso intervistarlo. È evidente che gli fa piacere l’idea di potermi essere utile. Mi dice che è venuto con la madre due settimane fa e che questa stessa gli ha chiesto di farlo lavorare perché il padre è morto e lui è il maggiore dei fratelli.
Gli dico che va bene, seguo con lo sguardo il padrone della sala e mi accorgo subito che il ragazzo non pare entusiasta all’idea presentatagli dal suo datore di lavoro, che insiste. Il ragazzo si avvicina con lo sguardo basso, mi alzo, gli porgo la mano e mi presento. I miei occhi incrociano il suo sguardo sommesso per una frazione di secondo, sufficiente a capire il suo disagio. Provo a chiedergli da dove proviene, quando è venuto in Turchia, come è scappato. Le sue mani incrociate sul tavolo davanti a me, lo sguardo basso. Mi dice di essere in Turchia da 6 mesi, di essere di Hraytan, vicino Aleppo, di avere 17 anni e avere tre fratelli più piccoli. Alza lo sguardo, i grandi occhi scuri anticipano di un attimo la sua richiesta “Non chiedermi più nulla per favore”. “Alla mia vita in Siria non ci voglio pensare” ed il suo sguardo si alza verso il cielo per un secondo, perso nel vuoto, disegna un arco di 180 gradi sopra la mia testa. Capisco che lo sto torturando, lo ringrazio, pago i tè e vado via. Si chiama Shahid. Il datore di lavoro lo chiama Shahit, alla turca, ma sia in arabo che in turco la parola significa martire. E che lui sia un martire di questa guerra lo si capisce guardandolo negli occhi.