Balcani, Croazia | | Politica, Società civile
Sicurezza nelle Krajne
Un testo d’approfondimento parte della "Guida sicurezza".
A cura di Viviana Rossi.
Violenza e frammentazione
La violenza ha portato con sé un profondo mutamento nella struttura demografica del territorio, spezzando reti di relazioni e distruggendo i luoghi comuni d’incontro tra gruppi di diversa nazionalità. Le Krajine sono state, in questo senso, i territori dove questa frammentazione sociale è stata meno visibile agli occhi del mondo, la cui attenzione è stata a lungo dirottata dalla curiosità mediatica sulla tragedia bosniaca. Ma proprio in queste terre, dove inizia e si conclude il conflitto (1991-1995) la violenza sradica dalle proprie terre persone e famiglie prima croate e poi serbe. Nel 1991 infatti, in seguito alla dichiarazione di indipendenza dello stato croato, avviene l’autoproclamazione della Repubblica Srpska di Krajina, con capitale Knin. Lo "stato" secessionista caccia dalle proprie case più di 200.000 persone di nazionalità croata tra il 1991 e il 1994. Nel 1995, la riconquista della Rsk da parte delle forze militari croate determina l’esodo di circa 200.000 serbi (alcune stime parlano di 300.000 persone) in pochi giorni. Nell’arco di qualche anno in questi territori si rovescia il segno etnico della popolazione poiché le terre vuote lasciate dai serbi vengono ripopolate dai profughi croati di Bosnia, da quelli croati che nel 1991 si erano rifugiati sulla costa e da tutte le persone, di nazionalità croata, che rincorrevano le promesse del governo croato: casa e lavoro per tutti. Le case però, quando non erano distrutte o danneggiate, erano sicuramente poche e il lavoro era legato al sistema economico e ai mercati che la guerra aveva cancellato. A complicare la situazione si aggiungono i flussi di rientro che a partire dal 1996 pongono la comunità internazionale di fronte allo spinoso problema del ritorno del profughi alle loro case. Gruppi diversi, anche all’interno di una stessa nazionalità, si trovano a fare i conti con promesse mancate, povertà e risorse spesso difficilmente raggiungibili. Una società voluta e propagandata come croata, è nei fatti frammentata in gruppi differenti i cui elementi di coesione corrono sopra, sotto, attraverso il discorso "etnico". Sarebbe difficile spiegare altrimenti come i croati di Bosnia si aggreghino a parte rispetto ai croati del luogo oppure i serbi si definiscano "altri" dai serbi di Belgrado. E’ in questo clima di difficile convivenza che il problema della sicurezza prende piede e diventa un capitolo importante dell’agenda politica nazionale ed internazionale.
Sicurezza, stabilità…
Le politiche della sicurezza, più o meno volute, più o meno condivise da una classe politica alle prese con il riciclaggio di se stessa, sono state spesso indotte e formali. Indotte in primo luogo dalle pressioni della comunità internazionale che ha vincolato gli aiuti economici alla presenza di una certa stabilità politica e sociale ed al riconoscimento dei diritti personali ed individuali, negati proprio dagli stati nazionali (più o meno esplicitamente nazionalisti) usciti dal conflitto. In questo senso, il termine sicurezza ha una dimensione politica ben precisa e formale, rappresentata non soltanto in termini di incolumità fisica per tutti i cittadini, senza distinzioni di sorta, ma anche in termini sociali dalla possibilità di relazione tra gruppi e singoli con identità ed appartenenza diverse. Per molti anni però, sistemi socio-politici di fatto esclusivisti ed etnocentrici, anche dove camuffati da istituzioni ufficialmente democratiche come in Croazia, hanno di fatto ostacolato la piena realizzazione di una nuova convivenza. Inoltre, sono mancati e mancano tuttora a livello locale interventi mirati, volti a ricostruire un circuito economico e sociale accessibile anche alle minoranze. E’ proprio su questo punto che si arenano anche le migliori intenzioni e cioè di fronte al riprodursi difficoltoso di schemi economici, che rimangono appannaggio facile di circuiti politici locali e malavitosi spesso comunicanti.
…e rientri
Garantire un diritto formale e dare gli strumenti perché questo diritto possa venire goduto non sono due cose strettamente conseguenti. Sono passati sei anni dalla fine del conflitto e questo passo deve ancora compiersi. Le difficoltà più grosse si verificano nei confronti delle persone che rientrano alle loro case, spesso in territori dove la loro nazionalità è ormai in minoranza. I rientri sono un fenomeno importante, tanto quanto l’esodo, anche se ancora poco analizzato. Tuttavia ha già una sua rappresentazione politica ben definita a cui si è finito con il credere. Al di sopra delle politiche locali, infatti, aleggia l’idea che sia possibile ricostruire ciò che la violenza ha distrutto e che, in qualche modo, occorra ritornare a prima, cioè intrecciare nuovamente le diverse culture. Questo soprattutto di fronte agli effetti destabilizzanti che gli esodi di massa seguiti alla violenza (e obiettivo della stessa) hanno avuto e continuano ad avere sugli equilibri politici degli stati confinanti. L’emergenza profughi è diventata così un punto fondamentale dell’agenda politica internazionale. Con gli accordi di Dayton si metteva nero su bianco il diritto delle persone a rientrare senza pericolo, il diritto a riacquistare la proprietà persa oppure ottenere un giusto compenso, il diritto di tutte le persone a muoversi sul territorio della vecchia Jugoslavia senza pericolo di maltrattamenti e discriminazioni. E’ la parte civile degli accordi e contiene già le basi di quello che sarà l’indirizzo politico tenuto negli anni successivi. Nonostante i rientri avvengano in numero ridotto rispetto alle aspettative, con il recente Patto di Stabilità la comunità internazionale ha investito cospicue somme di denaro perché s’incrementassero i flussi di rientro. Una ingente somma è andata proprio al governo croato, poiché la Croazia è considerata il paese più sicuro dal quale far partire flussi di rientro a catena: l’obiettivo è innescare un’escalation simile a quella generata dalla violenza.
I numeri
I dati forniti dall’UNHCR e dal corrispettivo governativo, l’ODPR, parlano chiaro. Ad oggi i rientri avvenuti sono in numero notevolmente inferiore a quello pianificato e la maggior parte avvengono nella Krajina croata. Poco più di 120.000 rientri in tutta la Croazia, meno dalla metà delle persone che nell’agosto 1995 hanno lasciato la loro casa in Krajina. Il 1998, definito dalla comunità internazionale "l’anno del rientro" ha visto un incremento modesto del flusso che ha raggiunto le 12.000 persone, contro le 6.000 dell’anno precedente, e le 3.000 del 1996. In tempi recenti 14-15.000 serbi sono rientrati dalla Jugoslavia e dalla Repubblica Srpska ed altri 3.000 nel luglio scorso dal Kosovo. Un numero ancora insufficiente se paragonato alle dimensioni dell’esodo e scomposto in casistiche differenti per comprendere appieno la dimensione del fenomeno. Molte di queste persone non tornano per restare, ma semplicemente per vendere le loro proprietà, oppure per vedere com’è la situazione nel proprio villaggio di origine, per tastare con mano quella sicurezza (s)venduta al miglior offerente occidentale. La burocrazia, spesso non solo lentissima ma oscura, ha praticamente paralizzato per cinque anni le pratiche legate alla reintegrazione delle proprietà e, prima ancora, quelle legate ai documenti necessari per il rientro. A questo occorre aggiungere le lentezze governative nella ricostruzione, spesso affidata agli investimenti economici di ong e organizzazioni internazionali.
Sicuri di appartenere…
E’ proprio analizzando le situazioni singole e dei nuclei familiari che si scopre la distanza tra una concezione politica della sicurezza e la percezione che i singoli hanno della stessa. Accanto alle dichiarazioni formali ed ufficiali dei poteri locali, esiste una dimensione individuale legata alla percezione dei luoghi, delle situazioni e della propria sicurezza. Le persone si muovono spesso sulla base dell’idea che hanno su ciò che possono trovare nel luogo di origine, idea che cresce intorno ai racconti di chi ha tentato il viaggio prima di loro, o che si nutre di più sottili costruzioni di propaganda. Questo è un elemento importante, poiché proprio l’idea e la percezione della sicurezza hanno deciso gli spostamenti di famiglie intere. Quello che segue (o precede…) la violenza avviene sempre verso la "patria", o verso luoghi dove la propria nazionalità è in maggioranza. I serbi di Krajina in fuga nell’agosto 1995 si dirigono principalmente verso Belgrado o comunque verso la Serbia. Lo stesso avviene per i croati di Bosnia che dal 1996 cominciano ad occupare le case e le terre della Krajina croata, seguendo lo stesso richiamo, quello della "patria", l’unica in grado, in una situazione di conflitto, di garantire sicurezza. La maggior parte delle volte questa percezione si è rivelata errata: una volta arrivati in "patria" i serbi scoprivano di essere trattati come stranieri da altri serbi e i croati da altri croati. La sensazione di rottura, la sensazione che l’esodo abbia diviso in due la propria esistenza, ha reso la sicurezza un fattore legato ancora di più alla percezione. Per molte persone rientrare significa tornare in luoghi dove si troverebbero ad essere nuovamente una minoranza e dove non ci sono le condizioni sociali, ma soprattutto economiche, per ricostruirsi una vita. Ecco che molte di loro rientrano per vendere le proprietà, per trovare chi è restato, ma non per restare perché in qualche modo l’unica cosa di cui si sentono sicuri è di appartenere ad una nazionalità ben precisa e per questa appartenenza hanno dovuto abbandonare tutto. I villaggi di origine, quando non sono distrutti, spesso sono popolati da "gente nuova", a loro volta profughi di qualche altro fronte di guerra. La sensazione di estraneità nei luoghi dove si è nati e cresciuti è un fattore che ricorre spesso, così come la tendenza ad aggregarsi in base alla propria appartenenza. Questa forte frammentazione sociale è meno visibile rispetto all’omogeneità politica sbandierata più volte e perseguita proprio attraverso al violenza, ma non per questo meno reale. Una società frammentata e con risorse (prima fra tutte il lavoro) difficilmente accessibili e spesso ancora legate a lobby nazionaliste ed esclusiviste, non è certo un luogo sicuro in cui tornare.
Contraddizioni e politiche internazionali
Basta affiancare gli accordi politici e quelli civili, firmati a Dayton nel 1995, per rendersi conto della forte contraddizione che aleggia attorno al discorso sicurezza? Prima si riconosce il diritto delle persone a rientrare e poche pagine dopo si istituzionalizza la divisione della Bosnia in entità a se stanti, che si definiscono proprio sulla base dell’omogeneità "etnica" perseguita attraverso la violenza. Quale sicurezza dovrebbe rappresentare per un profugo uno stato che si definisce patria di una nazionalità che non è la sua? E ammesso che questo possa avvenire, cosa ne sarebbe allora della soluzione politica voluta per la Bosnia? A questo dobbiamo aggiungere un elemento poco considerato ma fondamentale: il tempo. Più tempo passa dall’esodo al rientro, più sarà improbabile che i profughi possano ricostruire almeno una parvenza di quel prima offeso dalla violenza. Dunque, sarà improbabile il loro stesso rimpatrio, che tra l’altro, dopo sei lunghi anni, significherebbe anche abbandonare, in qualche modo, nuovi equilibri ed una nuova esistenza.
Eppure ai tavoli della pace si discute di sicurezza in termini politici e uno degli obiettivi è quello di arginare l’emergenza profughi, politica che trova espressione proprio nell’appoggio dei flussi di rientro e dei governi che li promuovono. Il ritorno delle persone nel proprio paese d’origine, in modo particolare delle minoranze, è considerato un fattore essenziale per la ricostruzione di una esistenza integrata fra le diverse nazionalità. A ben guardare però, il trend dei ritorni che si è disegnato in questi anni non viene incontro alle aspettative, segno che l’idea di sicurezza che hanno le persone è indotta ed ancora legata all’appartenenza "etnica". Le terre più "sicure" dalle quali dovrebbe partire questa escalation di rientri non sembrano garantire molto a singoli e famiglie che si spostano. Fa ben sperare il fatto che tre partiti serbi abbiano partecipato alle ultime elezioni in Croazia, chiedendo all’unisono il rispetto dei diritti della minoranza serba e distanziandosi al contempo dai crimini di guerra connessi alla classe politica belgradese. Nei fatti però, molto, forse troppo, rimane ancora responsabilità della presenza internazionale, soprattutto sul piano economico.
La presenza internazionale
La ricostruzione materiale, ma anche relazionale tra gruppi diversi appartiene ancora ai progetti delle associazioni che operano in quei territori. Non sempre questo impegno umanitario ha gli effetti sperati, ma ad oggi è ancora il tramite principale di dialogo di comunità frammentate e complesse. Spesso la loro azione non si traduce in sviluppo, anche perché poco appoggiata da parte dei poteri locali e l’enorme quantità di denaro e di energie che si investono a questo proposito si perdono, quando addirittura non creano pericolosi rapporti di dipendenza con la popolazione locale. Analizzare e comprendere il ruolo di questa presenza è importante, poiché concorre a determinare la percezione della sicurezza di cui si diceva. Se da un lato la presenza internazionale nei territori delle Krajine (non soltanto quella croata) funziona anche un po’ da deterrente e da controllo verso il rispetto dei diritti delle minoranze, è vero anche che non sempre questa si traduce in fiducia da parte delle persone nei meccanismi del rientro, nei tentativi di ricostruire microeconomie finalizzate alla sussistenza di piccoli gruppi e comunità, in mancanza di un intervento più strutturale. Un discorso complesso, che però ci mette ancora un volta di fronte alla distanza tra una sicurezza pensata e voluta a tavolino e quella invece individuale, personale che anche se basata su percezioni estremamente soggettive, muove gli spostamenti di gruppi e famiglie.
La sicurezza a questo punto appare come un concetto difficile da comprendere. Sembra ancora una volta di essere di fronte ad un fenomeno duale, che si produce dall’alto e dal basso con linguaggi diversi e significati contradditori. La stessa difficoltà che si genera quando ci si avvicina al conflitto cosiddetto "etnico" e si comincia a scongelare il concetto di "etnia" con il rischio di non uscirne più. Forse è opportuno riflettere su questa spaccatura, poiché se il conflitto ha avuto una sua costruzione politica, anche la pace si sta scrivendo allo stesso modo.