Sicilia, la seconda casa
Durante la guerra in Bosnia Erzegovina, l’associazione di Enna „Luciano Lama“ ha accolto bambini bosniaci orfani o in difficoltà per dei periodi di vacanza in Sicilia. Quei legami continuano ancora oggi
Nel 1991 Aleksandra Gavrić non conosceva nessuno in Italia. Al tempo, ignorava il significato della parola politica, e non aveva mai sentito parlare di armi. Ci si potrebbe chiedere se fosse capace di proferire parola, considerato che all’epoca Aleksandra aveva soltanto un anno di vita. Fu subito dopo la sua nascita, che le vicende geopolitiche cominciarono a complicare la sua esistenza. Appena un anno dopo, un brutale conflitto scoppiò nel paese di origine di Aleksandra, la Bosnia Erzegovina. Una della vittime degli scontri fu proprio suo padre, che perse la vita nel 1992 nel corso di combattimenti sul Monte Vlašić, in Bosnia centrale.
Centinaia di migliaia di persone furono costrette a fuggire dalle proprie case. Per quattro lunghi anni, le immagini cruente provenienti dal paese riempirono le prime pagine dei media di tutto il mondo. Da parte loro, i media descrissero il conflitto e la distruzione come uno scontro caotico e senza sbocchi. Di fronte a queste cronache, il pubblico nel resto d’Europa e nel mondo si scontrò con non poche difficoltà nel comprendere la complessità e il dramma del conflitto in corso.
Fu in questo periodo che l’ONG «Luciano Lama», con sede ad Enna, iniziò la propria attività. L’organizzazione, inizialmente impegnata nella distribuzione di aiuti umanitari, cercò di superare la visione stereotipata del conflitto e di instaurare relazioni dirette con le persone colpite dalla guerra. Iniziò quindi ad organizzare dei periodi di vacanza in Sicilia per i bambini bosniaci, cercando sostegno da parte delle famiglie siciliane. Il progetto mirava ad offrire sollievo e svago a bambini in difficoltà, ma nel corso degli anni si è rivelato, per le famiglie ospitanti, un’opportunità di coinvolgimento in azioni di solidarietà transnazionali.
Tre anni dopo la fine del conflitto, Aleksandra sentì parlare di questo progetto per la prima volta nella propria scuola. Decise di fare domanda, e nell’estate del 1998 andò in Sicilia per la prima volta. Lì incontrò la famiglia Roccella – Anna, Giuseppe e i loro tre figli – che aveva conosciuto il progetto tramite un conoscente ed aveva deciso di partecipare. Da allora i Roccella hanno continuato a dare ospitalità ad Aleksandra fino ad oggi, così come tante famiglie siciliane hanno fatto con altri bambini e ragazzi bosniaci.
«Sono cresciuta con loro, – racconta Aleksandra – conosco tutti i loro amici, parenti e vicini. Sono stata a molte loro feste, compleanni, cerimonie, e ho ricevuto moltissimi regali nel corso degli anni». Aleksandra, che oggi vive a Banja Luka, si è diplomata ad una scuola di medicina e sta svolgendo il proprio tirocinio come fisioterapista presso una struttura locale.
Dall’emergenza alle relazioni durature
Dopo la fine della guerra, le visite in Sicilia da parte dei bambini bosniaci sono diventate una tradizione. Ogni anno, 300 bambini – orfani, oppure in situazione di bisogno – trascorrono un soggiorno di circa 30 giorni in Sicilia, senza alcun onere a loro carico. Le famiglie ospitanti si assumono le spese, aiutate in alcuni casi dagli enti locali.
In Sicilia Aleksandra è ospitata a Ragabulto, dove vive la famiglia Roccella.
«È stata un’esperienza positiva fin dall’inizio. Le difficoltà iniziali nel comunicare con Aleksandra sono state superate in fretta, perché si è dimostrata molto motivata nell’imparare l’italiano» racconta Anna Zingalese, la madre che ospita Aleksandra in Italia. «Ci siamo affezionati subito ad Aleksandra, una bambina molto dolce. Lei ci ha reso partecipi della situazione nel suo paese, che altrimenti avremmo solo potuto immaginare». Spiegando come questa esperienza abbia arricchito la famiglia, Anna continua: «La nostra relazione con Aleksandra è stata anche un’occasione per visitare il suo paese due volte e conoscerne la situazione, comprese tutte le difficoltà a livello politico, sociale ed economico».
L’arrivo in Sicilia dei bambini bosniaci ha avuto un impatto anche sulle comunità locali. «L’ospitalità non è mai stata una questione privata della nostra famiglia, perchè ogni volta che arriva un bambino dalla Bosnia, vengono organizzati eventi pubblici che coinvolgono tutta la cittadinanza, con cerimonie di benvenuto per i bambini». Ma il plauso per quest’attività non è stato senza critiche: «Abbiamo avuto spesso delle discussioni con amici, in merito all’opportunità di impegnarsi in qualcosa di così complicato. Spesso ci è stato chiesto perchè ci assumessimo la responsabilità di ospitare un bambino proveniente da un altro paese, quando anche qui in Italia ci sono tante persone che hanno bisogno di aiuto. Noi abbiamo sempre risposto dicendo che la situazione, così come era allora, richiedeva che si prendesse un’iniziativa. Era necessario farlo. Certo, è una grossa responsabilità, ma se nessuno se ne fosse fatto carico, nulla sarebbe cambiato.»
Dalla fine della guerra, migliaia di bambini sono stati ospitati in Sicilia. Alcuni sono rimasti, altri sono stati sostenuti dalle famiglie ospitanti nel proprio percorso educativo e nella ricerca di un lavoro.
Aleksandra dice che alcuni dei ragazzi arrivati in Sicilia assieme a lei si sono abituati a chiamare «mamma e papà» chi li ospita. «Io non riesco a chiamarli così, perché nessuno può sostituire i miei genitori. Ma mi piace stare da loro, e mi fa piacere che vengano in Bosnia. Continuerò a fare loro visita anche in futuro.»
Oltre alle attività di ospitalità, l’ONG siciliana opera in Bosnia anche con altri progetti. A Srebrenica ha organizzato un Centro per giovani disoccupati, dotato di laboratorio per la lavorazione della ceramica. A Zenica ha aperto un centro per le vittime di violenza, mentre ad Ilijaš, vicino a Sarajevo, ha finanziato un centro di accoglienza per vedove.
L’ultimo progetto in ordine di tempo prevede l’apertura, a Mostar, di una casa destinata ad ospitare i giovani che, superati i 18 anni, non posso più rimanere all’interno degli orfanatrofi. La struttura finanziata dovrebbe offrire loro l’opportunità di un transizione verso la maturità e l’autonomia personale.
Uno stato «disinformato»
La maggior parte dei giovani bosniaci vive con la famiglia anche dopo i 30 anni, principalmente a causa della situazione economica e della mancanza di opportunità occupazionali. L’alto tasso di disoccupazione, che è un problema per l’intero paese, colpisce in maniera particolarmente drammatica i più giovani. Secondo dati UNDP, circa metà della popolazione fra i 15 e i 24 anni non ha un lavoro. Anche per questo, sempre più spesso le giovani generazioni prendono in considerazione la possbilità di lasciare il paese.
Secondo alcune fonti , circa 150.000 giovani avrebbero lasciato il paese dalla fine della guerra ad oggi. Facendo riferimento alla situazione nella sola Federazione, una delle due entità che compongono il paese, un’indagine recentemente condotta dall’Istituto KULT di Sarajevo mostra che un numero significativo di giovani sta valutando molto seriamente quest’opzione: il 37% degli intervistati si dice pronto a lasciare il paese se ne avesse occasione, mentre il 9% ha già intrapreso passi concreti in questa direzione.
Questi numeri rappresentano una grave minaccia per un piccolo paese come la Bosnia Erzegovina. Pur trovandosi a fronteggiare una situazione così seria, la politica non ha finora formulato proposte e strategie significative per incentivare i giovani a rimanere.
Non sorprende che l’ospitalità coordinata dall’ONG «Luciano Lama» sia sfuggita all’attenzione dei politici locali. Nessuno di loro pare essere a conoscenza di questa inziativa che ha coinvolto e continua ad interessare migliaia di bambini nel paese. Giudicando dalla scarsa considerazione mostrata verso un gruppo vulnerabile come i bambini orfani o in difficoltà, non stupisce che i giovani vogliano lasciare questo paese.