Si salva la missione ONU in Bosnia e s’affossa il TPI?
Raggiunto un compromesso con gli Stati uniti sull’immunità delle proprie truppe rispetto al TPI. L’Onu rimarrà quindi in Bosnia sino alla fine del 2002 quando verrà sostituita dall’UE.
Un editoriale di Danilo Zolo.
Alla fine sul TPI un compromesso si è trovato. Gli Stati uniti che non hanno sottoscritto il trattato istitutivo della Tribunale Penale Internazionale hanno rinunciato alla richiesta di "immunità permanente" per le proprie truppe attive in missioni di "peace keeping" all’estero e gli altri membri del Consiglio di Sicurezza hanno invece accettato una "immunità a tempo". Se di fronte al TPI dovesse arrivare un’accusa di atrocità commesse nell’ambito di operazioni di "peace keeping" dalle truppe di un Paese che non ha aderito al TPI, ogni indagine conseguente sarà sospesa per una anno e poi il Consiglio di Sicurezza dell’Onu potrà sospendere il tutto per un’ulteriore anno e così via. Quindi una sorta di "immunità a tempo" sì, ma indeterminato.
La missione ONU in Bosnia – iniziata nel 1995 e che conta attualmente 1536 impiegati della polizia civile e 330 civili, tra i quali circa 40 americani – è "salva". I poliziotti dell’IPTF rimarranno quindi in Bosnia sino alla fine del 2002 quando cioè era già stato previsto che sarebbero stati sostituiti dall’Unione europea.
Se quest’ultima si dichiara soddisfatta del raggiungimento del compromesso, anche perché si prospettava il rischio di iniziare la missione UE prevista per il gennaio 2003 con molto anticipo, con tutti i problemi che ciò avrebbe comportato, molte sono invece le voci critiche. Tra queste ad esempio quella di Vienna Colucci di Amnesty International che ha dichiarato come "l’amministrazione Bush ha mandato un carro armato diplomatico contro il Tribunale Penale Internazionale attraverso una risoluzione del Consiglio di Sicurezza palesemente illegale". L’elemento giuridico che si contesta è il fatto che per decidere la sospensione di un anno si è ricorsi a un articolo del trattato istitutivo del Tribunale che dà, sì, la facoltà di interrompere l’attività del Tribunale medesimo, ma solo in casi delicati da vagliare uno per uno.
Riportiamo qui di seguito un editoriale di Danilo Zolo, ordinario di Filosofia del Diritto, pubblicato da Il Manifesto all’indomani del raggiungimento del compromesso sul TPI all’interno del Consiglio di Sicurezza.
Sopra tutto
Ancora una volta gli Stati uniti sono riusciti ad imporre la loro volontà contro il diritto internazionale. Il loro personale militare, impegnato in operazioni di peace keeping, sarà immune dalla giurisdizione della nuova Corte penale internazionale. Lo sarà per un anno, ma l’esenzione potrà essere rinnovata senza limiti. I reati commessi all’estero da ufficiali e soldati statunitensi resteranno impuniti, salvo che a incriminarli non siano tribunali militari americani. Si potrebbe dire che da oggi il caso Cermis è divenuto, per volontà delle Nazioni unite, una regola universale. A deliberare questo privilegio giurisdizionale – sulla base di un compromesso che Amnesty International ha giudicato «scandaloso» – è stato il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite. Il compromesso dell’ultima ora ha estese il privilegio – inizialmente preteso dagli Stati uniti solo per se stessi – a tutti i paesi attualmente impegnati in attività di peace keeping. Non deve sfuggire che con ciò i poteri della Corte sono stati limitati e indeboliti e in modo del tutto arbitrario. La sua integrità e autorità giurisdizionale è stata gravemente mortificata, prima ancora che i suoi giudici abbiano iniziato a svolgere le loro funzioni.
E’ vero che il rappresentante americano in Consiglio di sicurezza ha modificato le iniziali motivazioni della richiesta di impunità. Inizialmente gli Stati uniti avevano dichiarato che non intendevano lasciare le loro truppe «alla mercé di denunce frivole o fondate su pregiudizi politici». Ora, come riferisce il New York Times, la motivazione è più diplomatica: l’amministrazione Bush sostiene che intende tutelare i diritti costituzionali del personale militare americano, in particolare il diritto di essere processato by a jury of peers, e cioè solo da tribunali militari nazionali.
Questa motivazione è dominante. Gli Stati uniti, è noto, hanno mostrato una grande determinazione quando si è trattato di creare tribunali militari internazionali ad hoc: si pensi al tribunale dell’Aja per l’ex Jugoslavia, destinato a perseguire essenzialmente i reati commessi dalle autorità serbe. Gli Stati uniti si sono mostrati altrettanto irremovibili quando hanno deciso di usare la forza militare della Nato per «ragioni umanitarie», come è stato il caso della guerra in Kosovo. Occorreva, si sostenne, che la repressione dei crimini di guerra e dei crimini contro l’umanità non restasse affidata ai tribunali interni. Era necessario l’intervento di una corte internazionale, veramente neutrale e con il compito di proteggere imparzialmente i diritti fondamentali di tutti gli uomini. E persino la forza delle armi doveva essere usata per questo fine universalistico.
Il registro tematico cambia radicalmente quando l’universalismo dei principi etici e giuridici coinvolge la massima potenza planetaria. Allora la logica del particolarismo riprende brutalmente il sopravvento. Lo riprende a Kyoto come a Guantanamo, in Afghanistan come in Palestina. Riprenderà nella nuova guerra contro l’Iraq. Stupirsi di tutto questo rischia di essere ingenuo, se è vero che la gerarchia del potere internazionale sta assumendo sempre più nettamente una struttura imperiale.
Il potere imperiale è per sua natura impegnato a svolgere funzioni universali di pacificazione, di amministrazione della giustizia e di arbitrato coercitivo. Esso è persino invocato dai suoi sudditi per la sua capacità di risolvere i conflitti da un punto di vista universale e cioè «imparziale e neutrale». E proprio per questo l’imperatore è legibus solutus. L’imperatore giudica, ma non può essere giudicato. Non può sottomettersi ai verdetti di una giurisdizione superiore, senza negarsi.