Sì all’arbitrato

Dura ormai da anni. E’ il contenzioso di confine tra la Slovenia e la Croazia. Ora i cittadini sloveni hanno detto sì, in un referendum, all’accordo di arbitrato internazionale. Una vittoria per il premier Pahor, seppur risicata e segnata da un forte astensionismo

07/06/2010, Stefano Lusa - Capodistria

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dennis.tang/flickr

Con un risultato risicato la Slovenia ha detto sì all’Accordo di arbitrato sulla soluzione delle dispute di confine con la Croazia. Al referendum, che era stato voluto da tutte le forze politiche dell’arco costituzionale, il 51,48% dei votanti si è espresso a favore dell’accordo, mentre i contrari sono stati il 48,52%. Un risultato risicato che ha diviso il paese in due fronti contrapposti.

La consultazione era stata presentata come fosse di vitale importanza per la Slovenia. Si era cercato di metterla sullo stesso piano dei referendum sull’indipendenza, sull’adesione alla Nato ed all’Unione europea. Alla fine però la gente non si è lasciata coinvolgere più di tanto, infatti, solo poco più del 40% degli aventi diritto ha deciso di andare a votare.

La materia del resto era di difficile comprensione. Si trattava di interpretare cosa volessero dire gli articoli dell’accordo, argomento questo sul quale nemmeno gli esperti di diritto internazionale sono stati in grado di fornire interpretazioni univoche.

L’intesa prevede che al momento della firma dell’Accordo di adesione della Croazia all’Unione europea si proceda alla nomina di un tribunale d’arbitrato, che sarà chiamato a risolvere l’annoso contenzioso confinario tra i due paesi. Si tratta di definire alcune decine di chilometri di frontiera sul mare ed alcuni chilometri sulla terra ferma. I giudici dovrebbero impiegarci due o tre anni, ma c’è chi dice che il tutto potrebbe durare molto più a lungo.

Il leader dell’opposizione Janez Janša ha subito chiarito che il suo partito non voterà la ratifica dell’Accordo d’adesione della Croazia all’Unione europea se prima non sarà stata definita la frontiera. Attualmente in parlamento senza il sostegno dei democratici o di tutte le altre forze politiche d’opposizione, non vi è la necessaria maggioranza di due terzi per approvare il documento. Probabilmente se ne riparlerà nella prossima legislatura, dove stando agli attuali sondaggi d’opinione proprio Janša avrebbe buone possibilità di tornare ad occupare la poltrona di primo ministro.

Il referendum comunque per Janša è stata una vera e propria sconfitta, visto che da molti era percepito come un suo testa a testa con l’attuale premier Borut Pahor. Quindi, ieri sera, a gongolare è stato soprattutto Pahor. I consensi per il suo governo paiono essere in caduta libera e per i partiti della coalizione di centrosinistra va anche peggio. Adesso Pahor potrà tirare un sospiro di sollievo. Se avesse perso, probabilmente, il suo esecutivo si sarebbe dissolto tra le polemiche.

Con il voto Pahor non si giocava solo la sua poltrona, ma anche quello che gli era rimasto della sua credibilità all’estero. La comunità internazionale aveva, infatti, mal digerito il blocco che la Slovenia aveva imposto alla Croazia. Sia l’Unione europea sia gli Stati Uniti avevano investito tempo ed energie per far trovare ai due paesi un’intesa. Alla fine era stato elaborato questo accordo d’arbitrato, che è stato subito ratificato dal parlamento croato, mentre in Slovenia prima è stato mandato alla Corte costituzionale, poi è stato ratificato in parlamento con i soli voti del centrosinistra ed infine è stato messo al vaglio dei cittadini. Se l’intesa fosse stata bocciata sarebbe stato difficile spiegarlo a Bruxelles e Washington.

L’idea del referendum, del resto, non ha mancato di destare qualche perplessità tra i cittadini sloveni. Per alcuni, infatti, non sarebbe stato altro che un modo con cui la classe politica si è elegantemente lavata le mani, scaricando sugli elettori la responsabilità di dover accettare o respingere un processo dall’esito incerto. Pahor ed il suo governo hanno giurato e spergiurato che le acque slovene confineranno – a seguito dell’arbitrato – con quelle internazionali. Per l’opposizione non è invece così.

Ad ogni modo le forze di governo hanno puntato tutta la loro campagna elettorale sulla “ragione” e sulla necessità di chiudere una volta per tutte il contenzioso territoriale con la Croazia. L’opposizione di centrodestra, spalleggiata da organizzazioni “patriottiche” e nazionaliste, invece ha puntato tutto sul “cuore”. Non si è mancato così di riflettere sulle “tristi” sorti del popolo sloveno e sulle grandi perdite territoriali che il paese avrebbe subito in passato. L’arbitrato è stato quindi presentato come l’ennesima rinuncia che metterebbe persino a rischio l’esistenza stessa della Slovenia.

Non sono mancati toni alquanto irredentisti quando è stata tirata in ballo la presunta appartenenza della penisola di Salvore al comune di Pirano e quindi alla Slovenia. Janša ha persino ricordato quella che sarebbe stata una “occasione perduta”. Quando, nell’ottobre del 1991, i militari jugoslavi si ritirarono dalla Slovenia, lasciarono una stazione radar a Salvore. Janša, in qualità di ministro della Difesa, propose di mandare lì i suoi uomini. Inutile, comunque, speculare oggi su quanto ciò avrebbe aiutato la causa del riconoscimento internazionale della Slovenia e su quale sarebbe stata la reazione di Zagabria, che era nel bel mezzo del conflitto con i serbi. Janša fu fermato dall’allora presidenza della Repubblica.

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