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Sguardi adriatici: Vieste
Il nuoto come il cammino hanno oggi un valore di resistenza civile, un modo per rivendicare il libero accesso ad acque e rive, per chiedere il loro risanamento ambientale. Continua la nostra esplorazione dell’Adriatico, mare che accomuna
Nella mitologia greca, il giovane Leandro affogò in una notte di tempesta per raggiungere a nuoto l’amata Ero, dall’altra parte dell’Ellesponto. Lord Byron, grande amante del nuoto, si favoleggia abbia attraversato il Golfo dei Poeti, da Porto Venere a Lerici. Anche Byron attraversò l’Ellesponto a nuoto; impresa di cui andava fiero più che di qualsiasi altra opera politica, poetica o retorica. In anni più recenti lo scrittore Roger Deakin ha viaggiato a nuoto in Gran Bretagna, per fiumi e canali, per laghi e mari. Noi ci accontentiamo di nuotare nelle acque del nostro mare quotidiano, a partire da quello che bagna città o paesi. Anche perché il nuoto come il cammino hanno oggi un valore di resistenza civile, un modo per rivendicare il libero accesso ad acque e rive, per chiedere il loro risanamento ambientale.
Così ho fatto in un crepuscolo di settembre a Vieste, tuffandomi dalle scogliere di Capo San Francesco. Sono uscito dalla camera d’albergo, in quella che i francesi chiamano heure bleue, Cammino nel bianco: lucidissimo del selciato, opaco dei muri. Esco da Via Ripe, di fronte a me la facciata austera della Chiesa di San Francesco, a destra e sinistra due pozzi di luce indaco. Se a sud lo sguardo corre libero tra la costa e il mare, a nord è interrotto nella sua vastità dal profilo sottile dell’isola di Santa Eufemia. Un piccolo vascello di pietra che porta il grande faro ottocentesco. Ben più antica la frequentazione di questo caposaldo adriatico, come testimoniano le iscrizioni ritrovate in una grotta, risalenti all’epoca greco-romana, con dedica anche a Venere Sosandra, la dea del mare protettrice dei naviganti. Il ciclope lampeggia fiero, in questo tempo sospeso tra la notte e il giorno. Un balcone diruto, una croce arrugginita, un invito a fermarsi per una preghiera religiosa o laica, comunque ineludibile.
Poi volto le spalle al faro e riprendo la passeggiata, torno verso Via Ripe dove questa si fa sentiero tra la mura sud della chiesa e il mare. Gorgoglii d’acque tra gli scogli e i pali del rudere del trabucco di San Lorenzo. Nel controluce dell’alba ancor più seducente è questa creatura arcaica, ferita, muta. Oltre il sentiero si dirama in piccoli camminamenti. Scelgo quello che va a sinistra e sale con gradini scavati nella roccia. In alto l’orizzonte si apre su un Adriatico immobile che stringe questo scoglio garganico proteso a est. C’è un silenzio equoreo, ancor più irreale se confrontato con il delirio paesano di ieri sera, in un profluvio sonoro esagerato. Perciò l’ora blu, qui e altrove lungo le rive mediterranee estive, regala anche un breve ma intenso piacere acustico quello insostituibile del silenzio. Un silenzio costiero musicato dalle onde e dal vento, impreziosito qualche volta dai canti degli uccelli. Oggi sono gli stridii dei rondoni ad arricchire la musica marina. Canti e danze ipnotiche, quelle di rondoni che sono dervisci volanti. Rondoni pallidi e maggiori graffiano i cieli dauni fino ad ottobre, a differenza dei rondoni comuni che lasciano la Penisola già a fine luglio, anticipando nostalgie autunnali. Apodidae, letteralmente uccelli senza piedi, insieme una disgrazia e una fortuna, quella di non saper camminare o nuotare e perciò essere costretti a un volare per l’eternità, o quasi. Uccelli d’aura mitica, che con la loro danza aerea rappresentano il mistero, la magia, il destino. Albeggia, e in cielo l’oro fa indietreggiare il blu. Da qui, girando le spalle al mare, la chiesa e il monastero adiacente stretti dalle alte mura difensive a doppia punta, restituiscono immagini guerresche passate, attacchi navali, pericoli saraceni.
Il sole ha preso la scena da qualche minuto, quando improvvisamente nelle acque calme della baia di Marina piccola s’accende un fuoco! S’allarga, si stringe, s’allarga ancora. Un piccolo Olandese volante in fiamme che evoca immagini di cruente battaglie navali. Una brezza spegne l’incendio e scrive sull’acqua. “L’eleganza è naturalmente legata alle circostanze”, insegnano i maestri orientali. Circostanze di geografie e stagioni, di luoghi e meteore. Rivelazioni quotidiane che rinnovano necessità viandanti. L’aria s’addolcisce e invita al tuffo. L’abbraccio adriatico è tiepido, porterà memoria ancora per qualche settimana delle canicole agostane. Vado verso la spada dorata del sole a stile libero, bracciate lunghe, a ritmo lento. Esco abbastanza per tenere con un unico sguardo tutta Vieste, dalla falesia del paese vecchio all’isola di Sant’Eufemia. M’interrompo per girarmi a guardare raso acqua la penisola di San Francesco che è adesso solo la prua di un vascello più grande, con il Castello Svevo che s’alza a poppa. Qualche minuto d’immobilità per riempire gli occhi e il cuore di questa Vieste antica e silenziosa, che sembra essersi lasciata a poppa tutto il costruito del secondo Novecento. Di qui i rapporti tra geografia e urbanistica si riordinano. La piccolezza e la fragilità della mia condizione acquatica dà ancora più forza all’antichissima sacralità garganica. Riprendo il nuoto, questa volta a rana; un andare ancor più lento, una respirazione più misurata, un pensiero più pelagico. Un’andata e ritorno all’isola di Sant’Eufemia, mezz’ora di nuoto tra il turchese dell’Adriatico e il lucore di Vieste, un piccolo grande viaggio tra passato e presente, bracciata dopo bracciata, senza fretta, con sempre viva gioia d’acqua salata.