Sguardi adriatici: una finestra a Torre Pedrera

Da una finestra lo sguardo sull’Adriatico, grazie alla quale sognare ad occhi aperti viaggi reali o fantastici, comunque appassionanti. Continua la nostra esplorazione dell’Adriatico, mare che accomuna

10/04/2020, Fabio Fiori -

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Cartolina

(Questo articolo è uscito oggi in contemporanea su Corriere Romagna )

Ho una finestra sul mare. Una grande finestra sul mare. Sono molto fortunato, lo so. Soprattutto in questi inimmaginabili giorni di quarantena. 21, tre settimane oggi, 28 marzo, almeno per noi romagnoli. Dalla mia finestra non vedo una riva mercantile come a Bari o Ancona, non vedo una banchina antica come a Spalato o Venezia, non vedo un molo ottocentesco come a Trieste o Ragusa. Dalla mia finestra vedo una spiaggia popolare, un palcoscenico balneare dismesso, una fotografia di Luigi Ghirri. La spiaggia, incorniciata tra due file di cabine, arancioni da una parte e verdi dall’altra, uno scivolo inclinato dal vento, una pedana a scacchi bianchi e arancioni che d’inverno accompagna lo sguardo al mare. Adriatico color perla, questa mattina. Un perlaceo crespato, memore della fiera burrasca equinoziale dei giorni scorsi. Bora d’altri tempi, Furièn lo chiamavano i marinai romagnoli, quattro giorni ininterrotti; il latrare di un lupo balcanico che qui mostra anche i denti, a differenza della costa triestina e istriana. Il vento ha portato molta sabbia e poca pioggia lungo le rive; neve marzolina invece dalle colline alle vette appenniniche.

Questa mattina il sole è timido e la luce opaca, mentre il giornale radio si apre anche oggi con l’algida, pericolosamente fuorviante aritmetica della pandemia. Non di tre numeri avremmo bisogno per capire meglio quello che sta accadendo, ma di più complicati e faticosi esercizi statistici. Di esercizio, intellettuale, fisico e spirituale, ha bisogno il nostro tempo. “La descrizione delle prime giornate richiede una certa minuziosità”, dice la voce narrante ne “La peste” di Albert Camus (mai lettura fu più profetica ex-ante!). Una minuziosità che richiederebbe la nostra pestilenza, la nostra condizione di oggi ma più in generale la complessità di questi anni, simile a quella di sempre, ma globale. Perché tutti stiamo sperimentando tragicamente che un problema esploso nel Catai, dopo solo qualche settimana riguarda anche chi vive a Wēinísī, con buona pace dei sovranisti.

Confini e conflitti, paronimi li chiamano i linguisti; sibili notturni fastidiosissimi per me. Quando questi acufeni mi svegliano prima dell’alba vado alla finestra. La apro un po’. Il silenzio, il grande, meraviglioso silenzio di questi giorni, insieme all’odore del mare, piano piano leniscono dolori e ansie. Una finestra è una medicina, per il corpo e lo spirito. Non vedo ciliegi in fiore, ma con la stessa minuziosa attenzione da anni annoto la data della prima rondine, del primo rondone, del primo fraticello. Uccelli migratori che rivelano la primavera, che rinnovano il mio hanami adriatico. Ma in questi giorni la finestra mi fa venire in mente il finisterre spagnolo. La mia, le nostre finestre sono finis terrae. Luoghi da cui partire verso l’incognito, da cui salpare per viaggi reali o fantastici, comunque appassionanti. In queste settimane non posso neanche alzare la vela della mia amata piccola barca, non posso mettere la prua a Levante, facendomi guidare dal faro di Veli Rat, Punte Bianche, sull’Isola Lunga. Perciò sto ancora più spesso alla finestra che si apre da Tramontana a Greco, da 0° a 70°. Sono tornato bambino, sogno a occhi aperti il lampeggio dei fari, da Punta della Maestra a Porer, dalle sabbie del Delta alle bianche scogliere dell’Istria. Dalla mia finestra guardo un orizzonte argonautico: isole Elettridi a nord e Absirtidi a nordest. Lo sguardo si perde tra cielo e mare, mentre mando a memoria i versi di Apollonio Rodio, il bibliotecario d’Alessandria. Laggiù, oltre l’orizzonte, “Assirto, ingannato dalle atroci promesse, s’affrettò ad attraversare il mare per nave, / e nella notte, nel buio, sbarcò sull’isola sacra”. Sulla riva di quell’isola del Quarnero, nascosto dietro a un mirto, osservo inorridito l’atroce delitto, poi mentre Giasone e i suoi sono intenti a nascondere il corpo macellato del fratello di Medea, m’imbarco clandestinamente su Argo. Poco dopo salirono anche gli argivi che “fecero forza sui remi, senza tregua, finché arrivarono all’isola sacra di Elettride”.

Un fischio lontano rompe il remoto silenzio. Un ragazzo che chiama un cane? Due amici che si salutano a distanza? Mai avrei immaginato di provare nostalgia per l’allegro vociare primaverile dei bagnini intenti a riverniciare le cabine o per il rumore di un martello pneumatico in azione sul lungomare, nella Pensione Sorriso, in eterna ristrutturazione pre-stagionale.

Una finestra a Torre Pedrera, seaside locality si legge sulla pagina inglese di Wikipedia. “Un paesetto a nord-ovest di Viserba, adagiato tra la linea ferroviaria Ravenna-Rimini e la spiaggia”, riporta invece con più precisione “Marine d’Italia”, guida del Touring Club, pubblicata nel 1951. Clientela modesta racconta, a differenza della limitrofa Viserba dove è distinta, per la già consolidata tradizione balneare, con tanto di alberghi, reclame, fontane e il Circolo dei Bagnanti, “Il più elegante e ricercato ritrovo della spiaggia”, inaugurato nel 1908. A Torre Pedrera invece c’erano solo casette di pescatori, ville e villini isolati, una borgata che ha però nel nome un’aura saracena. È infatti il più settentrionale dei toponimi adriatici che rimandano alle opere difensive contro le scorribande corsare, con una punta di mistero. Se Torre si riferisce alla costruzione avviata nel 1673, Pedrera è invece stata cancellata da tempo e ha un insolito fascino catalano. Quella della Pedriera era una delle sei torri realizzate nel riminese, per volere di Santità Sua, perché “si facciano tutte le diligenze possibili per custodire e guardare la spiaggia dell’Adriatico dalle incursioni delle fuste barbaresche e liberare i pii sudditi dai pericoli continui di cadere nella schiavitù degli infedeli”, scrive in una lettera il cardinale Altieri. Se di lì a poco il pericolo saraceno scompare, esplodono invece nuove epidemie e pestilenze. Sono impartiti ordini precisi alle guarnigioni di stanza nelle torri, che “Non permetteranno neppure di giorno sbarco alcuno di persone, o di robbe in spiaggia, senza licenza in iscritto dell’Ufficio di sanità”, addì 20 settembre 1785.

Un secolo dopo anche su queste dune sperdute tutto cambia. L’invenzione del mare, prendendo a prestito il fortunato titolo del sociologo francese Alain Corbin, stravolge funzioni e consuetudini della spiaggia, della relazione con il mare.

“Torre Pedrera! Vi arrivo in una ventilata mattina di luglio dopo aver percorso in carrozza gli otto chilometri che la distanziano da S. Arcangelo”, racconta nelle sue “Note quasi autobiografiche”, Giuseppe Nolli, maestro-poeta-soldato, come amava definirsi. La famiglia Nolli, milanese, acquistò il villino nel 1913 che, dopo la morte di Giuseppe nel 1918, divenne soggiorno marino, poi asilo del paese, per essere venduto negli anni Settanta del Novecento a mio nonno. Nolli proprio da questa mia stessa finestra ascoltava i “rombi di cannone tuonanti cupi su tutto l’Adriatico”, nell’estate del 1914. Confini e conflitti, sinistri presagi di un’inimmaginabile primavera. Per scacciare il maleficio ritorno alla finestra, la socchiudo facendo entrare la brezza, accendo notebook e cassa. Ascolto e riascolto, come un mantra, l’ultimo canto celeste di Franco Battiato. “Torneremo ancora / Ancora e ancora / Lo sai / Che il sogno è realtà / Un mondo inviolato / Ci aspetta da sempre”. Magari sentendoci più vicini ai migranti di Ganden, anche in riva all’Adriatico.

Saluti (e salute!) da Torre Pedrera.

 

ps

La notte scorsa ho dormito tranquillo, sognando di andare al largo con il moscone all’alba. Un tuffo, quando il Sole si stacca dall’acqua, e due bracciate. Poi torno a riva e vado a prendere un caffè al Bagno 70. “Benvenuto!”, mi dice sorridendo la ragazza al banco.

Dossier

Sono trascorsi vent’anni da quando il geografo Eugenio Turri ha avviato la monumentale trilogia narrativa e fotografica intitolata “Adriatico Mare d’Europa”. Turri rinnovò una lunga tradizione veneta che ha in Vincenzo Maria Coronelli uno dei suoi figli più illustri. Il primo volume venne pubblicato nel novembre 1999. Venti di guerra spiravano violenti sulle acque adriatiche e sulle terre balcaniche; Google aveva solo due anni ed era semisconosciuto. Dell’Adriatico “così importante, in quanto costituisce uno degli spazi problematici dell’Europa” Turri e decine di intellettuali delle due sponde hanno descritto i tratti caratteristici, a partire proprio dall’idea di “paesaggio come teatro”, riprendendo il titolo di un altro suo libro fondamentale. Oggi, che le guerre sono terminate ma le riappacificazioni sono difficili e che l’Adriatico non è ancora un mare d’Europa ma è un bene comune europeo, riprendiamo e aggiorniamo – grazie alla collaborazione con Fabio Fiori – il racconto dei mille paesaggi che lo compongono, a partire da una banchina, una spiaggia o una falesia. Luoghi in cui ritrovare o rinsaldare la relazione con il nostro mare quotidiano. Vai al dossier

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