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Sguardi adriatici: Laguna

Vogare in silenzio, risalendo il flusso mareale in uscita verso l’isola di Sant’Erasmo, la grande isola degli orti, all’interno della Laguna di Venezia. Continua la nostra esplorazione dell’Adriatico, mare che accomuna

15/03/2019, Fabio Fiori -

Sguardi-adriatici-Laguna

La Laguna di Venezia (© Mario Hagen/Shutterstock)

Acqua e cielo hanno lo stesso color perla, in questo tiepido mattino di marzo. La prua del sàndolo, su cui sto andando verso l’isola di Sant’Erasmo, è una lama che taglia l’incantata immobilità lagunare, doppiamente apprezzata dopo aver lasciato a poppa l’eterna maretta del Canale di San Nicolò, la via d’acqua per la bocca del Porto di Lido, la più settentrionale della Laguna di Venezia.

“È un bel problema quest’eterno moto ondoso in Laguna. Come o forse più dell’acqua alta?”, chiedo a Gigi, gran conoscitore di genti e storie, di pesci e pescatori, di barche e vele, che oggi è anche il mio Virgilio, di geografia e di remo. Domanda urgente, visto che da quando sono salito a bordo ho rischiato di cadere in acqua diverse volte, per il continuo rollio e beccheggio, soprattutto quando il remo mi esce dalla forcola, vista la mia imperizia, quella di chi si cimenta per la prima volta nella voga veneta, per di più a cinquant’anni, anche se con migliaia di miglia fatte a vela.

“Ti sbagli, non è un problema! Perché qui a Venezia ciò di cui non si parla, non è un problema. E da più di vent’anni, da quando tutti i veneziani, anche i gondolieri, hanno un motoscafo con motore da almeno 40 cavalli, che il moto ondoso non è più un problema”. Invece sì che lo è. Uno dei tanti che affliggono quella che un tempo era la Serenissima e che oggi è l’Affollatissima, soprattutto in questo ultimo sabato di carnevale, soprattutto in alcuni luoghi: Piazza San Marco in primis e nelle direttrici di flusso da Tronchetto, Piazzale Roma, stazioni ferroviaria e marittima, insomma i nodi nevralgici della benedetta e maledetta relazione turistica della città con il mondo.

Al contrario qui, il Canale di Sant’Erasmo è semideserto, come l’infinito labirinto lagunare, di isole, barene, scanni, ghebi, chiari, velme, motte, valli, sacche, code, paludi, rami, batterie, lazzaretti e ottagoni. Un paradosso geografico stridente, probabilmente unico: a fronte di 550 chilometri quadrati di spazi silenziosi, non più di 2 sono quelli caotici all’inverosimile, soprattutto nelle ore centrali, soprattutto in qualche decina di giorni all’anno. Turisti, i nuovi barbari, tanti, troppi, un flagello biblico, come l’acqua alta, i moloc, in forma di grandi navi, o i famelici satrapi immobiliari e finanziari. Turisti, i nuovi pellegrini, devoti alle confessioni del consumismo. Turisti da tartassare e da tassare, a partire dal primo maggio di quest’anno, anche solo per mettere piede in città, in maniera indistinta, assieme a tutti gli stranieri, italiani e non, che vengono a trovare un amico o un’amante, a vedere una mostra o una chiesa, a mangiare e bere in un bàcaro, a remare o a camminare, a leggere o a dipingere.

Ma il mio Virgilio saggiamente mi invita al silenzio e alla voga, “lunga e lenta”. Sono un novizio troppo chiacchierone, che non si concentra sulla difficile relazione tra il remo e la forcola, a cui spesso salta il ginocchio dal morso. Io sto a prua, gamba destra avanti in appoggio sulla banda destra, tengo a due mani il remo sinistro. Gigi sta a poppa sulla murata di sinistra, voga e timona con il remo destro, insegnandomi pazientemente un’arte antica. Dobbiamo risalire il flusso mareale in uscita, contrario, per raggiungere il lato sudoccidentale di Sant’Erasmo, storica, grande isola degli orti, e imboccare la prima canaletta, dopo la Torre Massimiliana.

Appena superato il ponticello stradale, a destra e a sinistra si aprono mondi orticoli, ancora oggi un paesaggio di viva, caotica operosità. Se il carciofo violetto è diventato l’icona gastronomica, la castraura che verrà raccolta tra qualche settimana, altrettanto saporite sono tutte le verdure coltivate su queste fertili sabbie. Il carciofo è prodotto orticolo mediterraneo per eccellenza, coltivato su queste isole già dal XVI secolo. Da Sant’Erasmo, Mazzorbo e Le Vignole veniva, e in parte viene ancora, la cambusa “di herbaggi e frutti, in molta abondanza e perfetti”, si legge in “Venetia. Città nobilissima et singolare”.

Accostiamo a un bateo da trasporto, per andare ad acquistare radicchi, spinaci e insalate all’azienda dei fratelli Finotello, che mantengono viva non solo la tradizione orticola insulare, ma anche la fornitura in barca su diverse fondamenta della città. In alto nel cielo la nostra attenzione è rapita dallo spettacolare volo di uno stormo di gru. Da sudovest a nordest, dalle coste africane alle pianure magiare. Rimaniamo incantati come bambini a guardare questa favola migratoria che a ogni cambio di stagione si rinnova.

Ma è tempo di ritornare a bordo, mollare gli ormeggi e rimettersi ai remi. Abbiamo due miglia e mezzo da fare, un po’ più di un’ora. Tempo che si dilata per una piacevole sosta per un’ombra a bordo di Eolo, un vecchio e ben conservato bragozzo motovelico, costruito a Chioggia nel dopoguerra, ormeggiato sul canale che divide in due l’isola delle Vignole. Ci accoglie il parón Mauro che ci fa scendere dal bragozzo per mostrarci con soddisfazione, il suo piccolo brolo, dove alleva con cura certosina qualche fortunato coniglio e una gallina principesca. Riprendiamo la via d’acqua verso casa, costeggiando il lato occidentale dell’isola della Certosa. Tra le tante barche ormeggiate, inconfondibile è l’eleganza della poppa a cuore di una disegnata da Carlo Sciarrelli e l’abbandono della gloriosa nave scuola Marinaretto, costruita negli anni Cinquanta del Novecento.

Dopo aver superato le burrascose acque del Canale delle Navi, che separa l’isola della Certosa da Sant’Elena, entrando in darsena ritroviamo antiche immobilità lagunari e la nostra prua ritorna ad essere insieme pennello, scalpello e lama sull’acqua, dando forma al nostro ultimo, effimero “concetto spaziale”. Noi apriamo l’acqua e di lì passa l’infinito, parafrasando Lucio Fontana, che è stato per me il secondo, invisibile, mentore di questo sguardo adriatico lagunare. Con Luigi Divari invece naviga da anni anche la mia fantasia, tra le pagine dei suoi bellissimi libri di parole e acquarelli, dedicati al bel pésse e a barchéte, batéle, peòte, caorlìne, sàndoli, mascaréte e al còfano su cui ho fatto la mia prima lezione di voga alla veneta, il modo migliore per scoprire questa città-arcipelago glaucopide.

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