Sguardi adriatici: in ferrovia da Rimini ad Ancona

La ferrovia Adriatica permette di navigare da un porto all’altro, sognando a occhi aperti rapiti dall’incanto del mare. Continua la nostra esplorazione dell’Adriatico, mare comune, questa volta in treno. La prima di cinque puntate

24/12/2020, Fabio Fiori -

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Stazione di Rimini (pio3/Shutterstock)

"Avvicinandoci a Rimini scopriamo il mare, il bel mare Adriatico, or quieto, azzurro, splendente, ed or grigio, spumante, tempestoso, colla sua spiaggia piana e sottile, solcato da numerose barche pescherecce colle lor vele latine color d’arancio, ed in lontananza da più grossi legni dalle bianche e gonfie vele illuminate dal sole". È una sguardo ottocentesco quello che ci offre Michele Carcani nella sua guida "Le rive adriatiche. Impressioni militari di viaggio da Bologna a Otranto in ferrovia". Le mie rive adriatiche, percorse in ferrovia, sono un po’ più brevi. Parto da Rimini per andare a Brindisi, in un giorno burrascoso di dicembre. Libertà ferroviaria da poco ritrovata, almeno entro i confini nazionali. In queste mie impressioni non c’è niente di militare, al contrario c’è una tensione comunitaria, un’orizzonte adriatico europeo. M’accomuna però con Carcani la passione per le strade ferrate, con una predilezione particolare per quelle che costeggiano il mare, in cui poter comodamente navigare da un porto a un altro, magari leggendo un libro o un giornale, ascoltando un podcast o una canzone, sognando a occhi aperti rapiti dall’incanto del mare, visto dal finestrino.

Nell’Ottocento erano necessari due giorni per fare il viaggio, oggi con una Freccia bastano meno di sei ore. Poche fermate: Pesaro, Ancona, Pescara, Termoli, Foggia, Barletta, Bari. Lunghi tratti a qualche metro dal mare, qualche volta con i finestrini bagnati di sale.

Come oggi, con gran mareggiata di Scirocco, che da Otranto spinge nuvole e onde fino a Venezia. Sono giorni burrascosi, e ieri Venezia è andata ancora una volta sott’acqua, malgrado il MOSE. Non è entrato in funzione, non ha reagito all’imprevisto scherzo della Bora, compartecipe assieme allo Scirocco, delle acque grandi. "Il meteo sbagliato beffa il Mose e Venezia torna sott’acqua" titola La Repubblica. Erano preannunciati 125 cm, quindi al di sotto del limite attualmente previsto per alzare le tre dighe, fissato a 130 cm. "… previsione rialzata a 145 cm alle 16:40. A causa del rinforzo anomalo della bora". Correzione tardiva, perché al momento il gigante ha bisogno di 48 ore di anticipo. Ma i figli di Eolo sono bizzarri, specialmente quando stretti tra alte montagne come in Adriatico. Refoli dispettosi che costringono a chiudere l’ombrello alla ragazza solitaria che, nella foto del giornale, va nell’acqua dai portici di Palazzo Ducale a quelli della Libreria, con alti stivaloni e mascherina nera. A lutto, amara metafora di un luttuoso carnevale che quest’anno non è ancora finito. Venti impertinenti che increspano le acque che uniscono il campanile di San Marco a quello di San Giorgio. Tetra carnevalata di un clima che cambia.

Faccio appena in tempo a leggere questa pagina che il treno lascia la città costiera romagnola, dove la vista del mare è solo fugace e frammentaria, per immergersi nella prima piega appenninica, verde e gialla in questo ventoso giorno dicembrino. La ferrovia corre ai piedi del versante occidentale delle colline del San Bartolo, che dall’altra parte, a oriente, sono falesie erose dal mare. A destra il paesaggio è dominato dal Castello di Gradara. S’attraversa anche la prima galleria adriatica. "È lunga metri 1034,78: il suo imbocco dalla parte di Cattolica trovasi a m. 46,87 sul livello del mare; il punto culminante, all’uscita, a m. 52,89, ed in quasi tutta la sua lunghezza ascende con una pendenza del 6 per mille", c’informa con precisione millimetrica Carcani. Pochi minuti e il treno ritrova la città, quella di Rossini. Breve tappa, accelerazione ed ecco, dopo la curva a sinistra, finalmente l’Adriatico. Il viaggio ferroviario improvvisamente acquista parvenza marittima, d’orizzonte e colori, d’onde che si frangono contro le scogliere e di navi che si stagliano lontane. Purtroppo su questi treni si perde l’altra meravigliosa atmosfera, quella olfattiva, quell’aria salmastra che oggi è data solo ai regionali.

"I monti che separano la valle del Foglia da quella dell’Arzilla s’inoltrano colle loro estremità nel mare, tanto che fu necessario tagliarli a punta di scalpello, per aprire un passaggio all’antica via consolare, per quasi dieci chilometri. La linea ferroviaria, raggiunta con ampie curve la spiaggia, corre in quest’angusto passo, tra il mare a sinistra e i monti tagliati a picco a destra, mentre la moderna via Flaminia valica i monti". Oggi la spiaggia è deserta, barche rimessate, chioschi serrati, bandiere sfilacciate. Anche sulla nuova ciclabile, modernità benvenuta, che corre parallela alla ferrovia non c’è nessuno. Attraversiamo velocemente la Fanum Fortunae, intravedendo il suo portocanale e le sue mura, aperte a occidente nella bianca, monumentale porta Augustea. Di lì la Flaminia lascia l’Adriatico per attraversare l’Appennino. Il treno attraversa il ponte sul Metauro, le spiagge perdono l’uniformità sabbiosa e dorata per farsi a tratti ciottolose e candide. Anche l’onda che frange in riva cambia, ha già qualcosa di ionico.

Il treno attraversa adesso un disordinato urbanesimo balneare cresciuto nel dopoguerra, testimone di un’irresistibile voglia di vacanze, di seconde case vista mare, di tinelli sulla spiaggia. Brulicanti di vita fanciullesca nelle estati degli anni Settanta, deserti di silenzi senili negli inverni di questi Venti.

Ma riecco il torbido Adriatico. Una vecchia lancia alata sulla riva alla foce del Cesano, le onde che frangono, due gabbiani che roteano. Un mondo antico in bianco e nero, sfumature di grigio adriatiche. Un quadro senza tempo, degno di uno scatto di Mario Giacomelli. Come per incanto sulla battigia m’appaiono due suore. Si tengono per la mano, le nere vesti al vento, due piccoli velieri sferzati dallo Scirocco. Indimenticabile omaggio al grande fotografo di Senigallia, appunto sul taccuino. Del paesaggio industriale della città costruita alla foce della Misa, delle altissime ciminiere e degli edifici dell’enorme cementificio sorto come pionieristico “Adria-Portland” non rimane più traccia visibile dal finestrino del treno. Una perduta storia del cemento adriatico ancora tutta da scrivere, legata anche alla famiglia Bettiza e a quella Spalato "città portuale quanto mai promiscua, infiltrata dal mare e dal retroterra bosniaco da ogni genere di vagabondi strani e straniti". Una descrizione che, sostituendo appenninico con bosniaco, credo si addica perfettamente alla Senigallia dei secoli passati, almeno stando alle cronache passate. Di certo porto e fiera internazionale, luogo d’incontro, piazza mercantile dove s’è strutturata una koiné adriatica, "dalla mescolanza di eredità illirica, bizantina, turchesca, veneziana, ragusea, spalatina, anconitana, ebraica, apulo-aprutina, austro-ungherese", riprendendo le illuminanti parole di un suo figlio e per me indimenticabile maestro: Sergio Anselmi.

Corre veloce la Freccia, stiamo già attraversando il groviglio di cisterne, tubi, scambiatori, camini, caldaie, di un altro paesaggio industriale, questo ancora visibile e attivo. Il novecentesco intrigo del petrolchimico di Falconara. “Con API si vola”, recitava lo slogan degli anni del Boom, quando petrolio, benzina e gasolio erano sinonimi di benessere. Poi lo sviluppo ha mostrato anche molti difetti, ambientali innanzitutto. Da decenni al centro di mille polemiche, rimane comunque un polo industriale strategico, un’economia portante del territorio, con tutte le difficoltà del caso. Fermata tecnica, probabilmente un incrocio, alla Stazione di Falconara, un vero e proprio balcone ferroviario sul mare. Oggi il pontile d’attracco della raffineria è libero, un paio di petroliere stanno alla fonda, forse in attesa che lo Scirocco si plachi.

"Ma già da qualche tempo abbiamo scoperto il monte che s’inoltra nel mare, formando un promontorio alle cui falde apparisce il porto e la città di Ancona, disposta in curva a guisa d‘anfiteatro e rivolta a ponente". Questa l’originale geografia descritta da Carcani. E, malgrado le travolgenti trasformazioni urbane del Novecento, il profilo del Monte Guasco, con la Cattedrale di San Ciriaco in testa, rimane un grandioso iconema adriatico, luminoso emblema di una delle città più fascinose di questo seno mediterraneo. Ancona, l’ankon il gomito scelto dagli antichi Dori come base strategica sulla via dell’ambra. Porto romano di prima importanza, testimoniato dal superbo Arco di Traiano. Approdo pontificio strategico, monumentalizzato da un arco clementino, una porta trionfale e una mole vanvitelliana. Porta d’oriente di ieri e di oggi.

Adesso l’orizzonte è plumbeo e le luci delle navi alla fonda danno a questo viaggio ferroviario un’aura ancor più marinaresca. Il treno frena bruscamente. Corrono all’uscita spintonandosi e scherzando due giovani marinai. Hanno enormi sacche a tracolla, divise sobrie di panno blu del secolo scorso, la pelle scura e i capelli corvini, tagliati e gellati alla maniera d’oggi. Immagino sogni, paure ed entusiasmi d’altomare, di sempre.

ps

Quale miglior occasione di queste feste pandemiche, con orizzonti geografici limitati, potremmo immaginare per riscoprire il fascino dell’antico viaggiare attraverso il variegato e prezioso catalogo offerto gratuitamente dal Centro Interuniversitario Internazionale di Studi sul Viaggio Adriatico? Da oltre dieci anni, presieduto da Alfio Barbieri, diretto da Patrizia Guida con il coordinamento scientifico di Giovanna Scianatico, raccoglie i contributi di scrittori, giornalisti e ricercatori delle più importanti università delle due sponde adriatiche. Nella sua biblioteca digitale si trovano centinaia di libri, lettere, cronache, diari dedicati all’Adriatico e alle terre che lo circondano. Viaggi nello spazio e nel tempo, accomunati dalla imperitura presenza del mare.

http://www.viaggioadriatico.it/

Dossier

Sono trascorsi vent’anni da quando il geografo Eugenio Turri ha avviato la monumentale trilogia narrativa e fotografica intitolata “Adriatico Mare d’Europa”. Turri rinnovò una lunga tradizione veneta che ha in Vincenzo Maria Coronelli uno dei suoi figli più illustri. Il primo volume venne pubblicato nel novembre 1999. Venti di guerra spiravano violenti sulle acque adriatiche e sulle terre balcaniche; Google aveva solo due anni ed era semisconosciuto. Dell’Adriatico “così importante, in quanto costituisce uno degli spazi problematici dell’Europa” Turri e decine di intellettuali delle due sponde hanno descritto i tratti caratteristici, a partire proprio dall’idea di “paesaggio come teatro”, riprendendo il titolo di un altro suo libro fondamentale. Oggi, che le guerre sono terminate ma le riappacificazioni sono difficili e che l’Adriatico non è ancora un mare d’Europa ma è un bene comune europeo, riprendiamo e aggiorniamo – grazie alla collaborazione con Fabio Fiori – il racconto dei mille paesaggi che lo compongono, a partire da una banchina, una spiaggia o una falesia. Luoghi in cui ritrovare o rinsaldare la relazione con il nostro mare quotidiano. Vai al dossier

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