Sguardi adriatici: il brodetto, un’icona gastronomica adriatica
Il brodetto è per Fabio Fiori un rito autunnale, quello dei mesi più pescosi dell’Adriatico, quando le giornate s’accorciano e le nostalgie s’acuiscono. Ed è uno dei simboli dell’unità adriatica
Se, come sosteneva il padre di tutti i gourmet italiani Pellegrino Artusi, le parole cacciucco e brodetto erano esemplificative alla fine dell’Ottocento della disunità linguistica italiana, allora possiamo dire che le parole brodetto, brodet, brudet, italiana, slovena e croata, possono per una volta lasciare immaginare un’unità adriatica. Un mare ancora più grande dell’attuale, che bagna Corfù dove troviamo il broudeto, che arriva a lambire Patrasso dove si mangia il bourgeto. Un Grande Adriatico, che sostituisce lo Ionio, quello che troviamo sulle carte disegnate nel XV secolo da Benedetto Bordone, cartografo e geografo, autore di un atlante “nel qual si ragiona de tutte le isole del mondo”; un mondo appena scoperto nel 1528, quando viene pubblicato.
Ma rimaniamo all’oggi e per una volta la nostra rotta letteraria e gastronomica andrà a ritroso a partire da quello che scrive la pizia del XXI secolo. Si legge infatti su Wikipedia.en: “Brudet, brodet or brodeto is a fish stew made in Croatian regions of Dalmatia, Kvarner and Istria, as well as along the coast of Montenegro”. Solo dopo viene il riferimento alla fish stew cucinata lungo le coste italiane e ai tanti nomi dialettali: broeto, brudèt, brudettu, vrëdètte, e chissà quanti altri, forse di più dei pesci necessari a cucinarlo, ma molti meno delle ricette che variano di porto in porto, se non di barca in barca. Comunque credo sia innegabile l’originario portato veneziano o chioggiotto visto che si parla di pesce, si è fatto tradizione, confermando l’antico aforisma di Oscar Wild: “La tradizione è un innovazione ben riuscita”. Ricordando inoltre che la cucina è “il luogo per eccellenza dello scambio e della contaminazione”, come ci hanno insegnato Alberto Capatti e Massimo Montanari.
L’originalità adriatica della parola e delle tante variazioni locali s’inserisce nella più grande famiglia delle zuppe di pesce mediterranee: cacciucchi toscani, bouillabaise marsigliesi, burride sarde, chiupinn liguri, quatare salentine, ghiotte siciliane. Tutte accomunate dall’uso di pesce povero e variegato, necessariamente freschissimo, perciò saporito.
Il brodetto è per me un rito autunnale, quello dei mesi più pescosi dell’Adriatico, quando le giornate s’accorciano e le nostalgie s’acuiscono. Un rito che ha un necessario preambolo in quelle chiese laiche che sono le pescherie. Chiese nel senso originario greco di assemblee, di riunioni, di luoghi d’incontro. Lì ho imparato a riconoscere creature iridescenti, a cucinare piatti marinareschi. Lì ho ascoltato racconti salgariani, avventure piscatorie. Crescendo ho capito che la pescheria è anche un luogo privilegiato per controllare la biodiversità marina, per verificare le capacità culinarie di un paese. E se in molti giustamente lamentano la diminuzione della prima, in pochi si accorgono di quanto la cucina di pesce sia un’arte quasi dimenticata in casa, delegata a ristoratori non sempre all’altezza, che servono salmone, branzini e orate d’allevamento, decongelati calamari dell’Atlantico e gamberi del Pacifico. Per non parlare poi dei banchi del pesce, congelato, spinato, omologato dei supermercati. No! io vado in pescheria, se non direttamente sul porto dai pescatori, per acquistare pesce di stagione, quello più buono e abbondante, anche se minuto e magari un po’ più brigoso da pulire, come sono i pesci da brodetto. Quali? spendendo poco e mangiando bene direi: triglie, tracine, bòca in chèv cioè pesce lucerna, mazòla o gallinella, canocchie, granchi, seppioline, una manciata di poveracce e magari qualche lumachina. Le specie possono variare, ma la tradizione ne vuole almeno sette, in giusto equilibrio tra pesci, crostacei e molluschi. Da evitare secondo i più il pesce azzurro, anche se personalmente uno sgombro a tranci a me piace.
A Rimini la vecchia pescheria, edificio monumentale, costruito alla fine del Settecento ha chiuso mezzo secolo fa e sui bellissimi banchi in pietra d’Istria non luccicano più le meraviglie adriatiche. Ma in città non manca la gioia dell’incontro tra pescivendoli e pescivori, la festosa offerta ittica, concentrata nelle pescherie del Mercato Coperto, che non ha niente da invidiare ai rinomati mercats di Barcellona o alla scenografica Pescheria delle Tende Rosse di Chioggia. Il pesce, dal martedì al sabato, è abbondante, fresco e variegato, sia quello dei commercianti che quello dei pescatori che gestiscono direttamente alcuni banchi. Li ho trovati tutti l’altra mattina i pesci giusti per un buon brodetto e ho speso dieci euro, per circa un chilo. Io lo cucino solo con profumato scalogno di Romagna, aceto bianco di trebbiano, un ottimo olio extravergine di oliva delle colline romagnole, sale di Cervia, passata di pomodoro casalinga. Il soffritto è velocissimo, sfumata d’aceto, pesce messo con cura in relazione alla dimensione, grandi al centro e piccoli ai lati, infine pomodoro. Fuoco allegro e tempi brevi.
Non è il brodetto scuro come la pece che cucinavano i pescatori e non è neanche il brodetto bianco “del Levoli”, pittore settecentesco che ha dipinto nature morte dedicate proprio agli ingredienti di questo piatto, in alcuni quadri esposti al Museo della Città di Rimini. Il pomodoro era ancora semisconosciuto a tavola, come è assente, ancora oggi, dal boreto alla graisana, mentre Artusi nel 1891 già suggeriva di usarlo a pezzi o in conserva. Qualche decennio dopo il Touring Club Italia nella sua prima guida gastronomica dà il primato del brodetto alle Marche, che “hanno dato origine ad una delle specialità classiche della cucina italiana”. Ma anche quello che genericamente si chiama “bordetto marchigiano” ha almeno due grosse variabili. A sud del Conero si usava infarinare il pesce e s’adoperava lo zafferano selvatico, mentre a nord non s’infarinava e si insaporiva con l’aceto. “A Porto Recanati il brodetto si prepara anche per essere esportato e lo si spedisce in iscatole di latta”, si legge nella guida del 1931. A Bellaria, borgata peschereccia cresciuta alla foce dell’Uso, si cucinava un brodetto dei poveri, con pochissimo olio, di sole granzèle, purazi e schéli, granchi, vongole e gamberetti, raccolti sulla spiaggia. Poverissimo, ma comunque di maggior sostanza di quel brodo di pietre di cui ci ha parlato Predrag Matvejvić, un brodo “antico come la miseria sul Mediterraneo”, un brodo che faccio almeno una volta all’anno, quando mi perdo a vela nel labirinto istro-dalmata.
Per oggi mi fermo qui, perché il mio brodetto è pronto per essere servito. Aggiungo solo un ciuffetto di prezzemolo e pepe nero abbondate, alla maniera di bordo. Lo accompagno con qualche fetta di piada e con una bottiglia di Sangiovese. Vino rosso! com’era d’uso tra i pescatori romagnoli.