Sguardi adriatici: Brindisi

Brindisi è stata crocevia di collegamento tra la Città di Augusto e quella di Costantino, tra le due Roma, tra occidente e oriente antico. Nell’Ottocento arrivò anche la ferrovia, il primo tratto della Indian Mails, che collegava Londra e Bombay. Continua la nostra esplorazione del mare che accomuna

24/07/2020, Fabio Fiori -

Sguardi-adriatici-Brindisi

Tramonto sul porto di Brindisi (foto ©Kirk Fisher/Shutterstock)

Rondoni nei cieli di luglio. Gran teatro en plein air, con artisti circensi in livrea scura, impeccabili. Come le cabrate e le picchiate, evoluzioni aeree d’insuperabile precisione e d’ancestrale struggimento. Per una perfezione acrobatica mirabolante, per una libertà animale selvaggia. A ciò si aggiunge la malinconia dell’ultimo spettacolo, perché già tra qualche giorno i rondoni si rimetteranno in viaggio, direzione sud. Nei cieli italiani rimarranno ancora rondini e balestrucci, ma loro, le star dell’aria, i dervisci del volo, li rivedremo solo nel maggio prossimo.

Rondone ©Dilomski/Shutterstock

Rondone ©Dilomski/Shutterstock

Sono oggi spettatore attento e solitario sulla Scalinata Virgilio, in un teatro adriatico d’eccezione: il porto interno di Brindisi, lì dove si divide nei due seni, di Levante e di Ponente. Alle mie spalle le Colonne Romane. Che teatro! Che incredibile crocicchio terracqueo. Perché qui idealmente finiva la via Appia o per meglio dire si prolungava sull’acqua, collegandosi dall’altra parte del mare con l’Egnazia. Brindisi quindi era crocevia di collegamento tra la Città di Augusto e quella di Costantino, tra le due Roma, tra occidente e oriente antico. Qui nell’Ottocento arrivò anche la ferrovia, il primo tratto della Indian Mails, o Valigia delle Indie, che collegava Londra e Bombay, rinnovando la centralità del porto, snodo fondamentale tra occidente e oriente moderno.

Oggi la scalinata è deserta, due bambini si rincorrono con il monopattino sulla banchina, una lancia va verso il Canale Pigonati, che collega il porto interno a quello medio. È un sonnacchioso, tardo, pomeriggio di un’estate turistica sottotono, di un tempo libero non ancora liberato dalle necessarie limitazioni antipandemiche. Sui giornali locali è in gran risalto il taglio degli arrivi delle navi da crociera anche per luglio e agosto. Una situazione di crisi che rende ancora più incerti i lavori di adeguamento del porto e, più in generale, il suo futuro.

Una storia che ciclicamente si ripete, perché come scrisse nell’Ottocento Annibale de Leo, se questo è il più celebre degli approdi “che immaginar si possa in tutta l’antichità, e che racchiudendo in se stesso più porti, oltremodo si rendette rinomato ne’ tempi della Romana repubblica”, non mancarono lunghissimi periodi in cui “venne a decadere dalla sua grandezza e splendore”. Ma la geografia ha una forza resiliente, e quella brindisina è un unicum adriatico; una geografia portuale predestinata che ha segnato le vicende passate e presenti, da cui dipenderanno quelle future.

Per mollare gli ormeggi spaziali e temporali, per rendere omaggio a Virgilio, che qui morì appena sbarcato da una nave che lo riportava dalla Grecia, riapro l’Eneide e leggo qualche verso ad alta voce. “Frattanto Enea con le navi teneva deciso la rotta, / e tagliava i flutti , torbidi per il vento d’aquilone”. Oggi invece c’è Scirocco, luce opaca, levantina, riflessa da un’acqua madreperlacea che abbraccia il centro storico. Il mare è lontano, invisibile da qui. A levante la città industriale con i mercantili in ormeggio, silos, capannoni, e ciminiere fumanti; a ponente un abitato scomposto, su cui giganteggiano monumenti di grande fascino: il Castello Federiciano, precluso purtroppo, e il Monumento al Marinaio d’Italia “il grande timone”. Un iconema adriatico al pari del Faro delle Vittorie di Trieste, del campanile di San Marco a Venezia, di San Ciriaco ad Ancona, del Palazzo di Diocleziano a Spalato. Gli iconemi sono unità fondamentali di percezione visiva, “possono diventare stereotipi, luoghi comuni, senza perdere con ciò la loro necessità”, mi ha insegnato Eugenio Turri, passeggiando lungo le rive di questo nostro amato “mare d’Europa”.

Il ponente brindisino si prolunga poi nella diga portuale, una di quelle bellissime piazze acquatiche italiane; rabberciata, ma libera, profumata di salmastro, silenziosa. L’unicità di Brindisi è legata non solo all’insinuarsi del mare tra le terre, ma anche ai due micro-arcipelaghi portuali: le Pedagne che proteggono naturalmente la bocca di porto a mare e l’isola di Sant’Andrea e Forte a Mare che separano invece il porto esterno da quello medio. Se Strabone ricollega il nome della città alla testa di un cervo, dal messapico brunta o brunda, l’allegoria si completa immaginandola impreziosita da grandi perle in forma d’isole.

Ma prima di prendere il largo, di mettere la prua verso l’oriente adriatico, in attesa che le ombre si allunghino e che l’aria si stemperi, gironzolo pigramente nei viottoli del centro storico e nei più lineari e ampi viali che l’attraversano. Ritornando sulla banchina, in Viale Regina Margherita pedonalizzata e rinnovata qualche anno fa mi fermo a leggere la grande, sobria lapide esposta sulla facciata del palazzo che fa fronte unico con la Capitaneria di Porto e l’Ufficio delle Dogane.

Ricorda e celebra l’impegno dell’esercito italiano nel trarre in salvo quello serbo nell’inverno del 1915, costretto alla ritirata da quello imperiale, oltre ai “centoquindicimila su centottantacinquemila che dalla opposta sponda tendevano la mano”. Mi fermo su una panchina a leggere qualche pagina online sulla vicenda. Un altro tassello, complicato e contraddittorio, delle alterne vicende novecentesche adriatiche, delle infinite storie di guerra e di pace, di odio e di amicizia che hanno attraversato questo mare dionisiaco.

Da qui, con passo spedito, parto alla volta del Monumento. Un percorso pedonale a ostacoli, tra incanto e sfacelo urbano, una piccola grande ascesi, necessaria per stabilire una relazione con la città, qui come ovunque. Solo camminando, camminando a lungo si può ascoltare il cuore di una città, parafrasando Savinio. Eccomi dunque ai piedi del “grande timone”, nell’ora più bella che accende i colori caldi del carparo, una pietra che stempera l’ardire razionalista, che rimanda ai colori dei legni mediterranei. Prima di avventurarmi nelle segrete di questo ciclopico timone, per salire fino in testa, leggo alcune pagine di un bel fascicolo degli anni Trenta trovato inaspettatamente in rete, dedicato al concorso, vinto dall’architetto Luigi Brunati con lo scultore Amerigo Bartoli. “Sta come torre” s’intitolava in origine il progetto. Il cemento armato e la pietra enfatizzano la gloria (e la tragedia!) marinaresca, mentre pini e oleandri disposti radialmente avrebbero dovuto disegnare “una scia immaginaria lasciata dal timone”. La scia è svanita, rimangono onde verdi, profumatissime in questi giorni di luglio, mosse oggi dallo Scirocco; un murmure vegetale.

Una doppia scala monumentale ai lati della torre sacra a Palinuro è la prima piacevole fatica, preludio della seconda interna. Un’inebriante salita fino al piccolo balcone panoramico sommitale. Non so quanti sono gli scalini necessari per salire i 40 metri dalla base, ma so qual è lo stordimento che provoca la coclea che porta alla vetta. Una spirale ellissoidale che termina in un occhio di luce, un’ascesa che permette di sperimentare le ebbrezze architettoniche di Escher e quelle letterarie di Borges. Varcata la piccola, ultima porta esplode la luce e il nostro occhio rivive ancestrali esperienze volanti. Emozioni di gabbiani che volteggiano sulla città, di sterne che in volo statico cacciano nelle acque portuali, di berte che attendono la burrasca per attraversare il mare.

Commenta e condividi

La newsletter di OBCT

Ogni venerdì nella tua casella di posta