Sguardi adriatici: bi-isola montenegrina
"Ci trovavamo finalmente dentro la più piccola di quella scatola cinese che chiamiamo Mediterraneo. Una scatolina d’acqua che contiene due perle preziosissime, due isole diversissime nell’aspetto e nell’origine, che m’apparvero allora come un unicum insulare". Continua la nostra esplorazione dell’Adriatico, mare che accomuna
Tanti anni fa, in una immobile alba di luglio, ho oltrepassato il Canale delle Catene per entrare nell’ultimo anfratto di quei labirinti d’acque stretti da montagne che sono le Bocche di Cattaro. Una piccola barca, mossa più da una favorevole corrente che da vele morenti, entrava silenziosa in quello che era stato per secoli un avamporto veneziano. Di fronte a noi Perasto la più fedele, almeno leggendo le cronache settecentesche, delle comunità serenissime che per secoli punteggiavano la costa mediterranea orientale. Sulla sartia di destra anche la bandiera di cortesia, il purpureo vessillo con l’aquila bicefala dorata del Crna Gora, cadeva immobile. In quei giorni tutte le bandiere municipali avevano colori fiammeggianti, da pochi mesi infatti avevano sostituito sui pennoni le bandiere tricolori slave. Quella blu, bianca e rossa, della Repubblica di Serbia e Montenegro, che a sua volta era stata issata pochi anni prima al posto di quella stellata della Socijalistička Federativna Republika Jugoslavija, per noi italiani più semplicemente Jugoslavia.
A bordo sul tavolo da carteggio avevamo bandiere vecchie e nuove, ma anche carte vecchie e nuove per orientarci in questo mare interno ridotto alla quarta, se si considera il Mediterraneo come un seno atlantico, l’Adriatico come un seno mediterraneo, le Bocche come un seno adriatico, il Canale di Cattaro come l’ultima parte del Sinus Rhizonicus, secondo la definizione medievale. Insomma ci trovavamo finalmente dentro la più piccola di quella scatola cinese che chiamiamo Mediterraneo. Una scatolina d’acqua che contiene due perle preziosissime, due isole diversissime nell’aspetto e nell’origine, che m’apparvero allora come un unicum insulare, una ossimorica bi-isola: Madonna dello Scalpello e San Giorgio.
Navigare per noi non ha solo un significato geografico. Noi mettiamo la prua verso nuovi orizzonti, ma le rotte sono antiche, perciò indispensabili sono anche i vecchi portolani. Ne apriamo uno asburgico che ci informa di quel “tratto di paese posto entro un piccolo golfo, che contiene tre seni o canali divisi da un triplicato ordine di monti che gradualmente salgono in altezza e formano due quasi penisole, porta il nome di Bocche di Cattaro”. Stavamo entrando nell’ultimo di tre seni che comunicano fra di loro per mezzo di altrettanti stretti; il primo è “Punta d’Ostro, il secondo Kombur, il terso lo stretto delle Catene”, così ce lo descrive Luigi Maeshek, Consigliere Imperiale, nel 1873.
Se le fortificazioni di Punta d’Ostro raccontano ancora gli infiniti contrasti adriatici, delle catene veneziane che chiudevano l’ultimo stretto rimane solo il nome. Lo stesso che leggo sul dettagliato “Disegno topografico del Canale di Cattaro descritto dal Padre Coronelli in Venezia l’anno MDCLXXXVIII”. Perasto è esattamente nella stessa direzione del Canale, per un quarto di rombo tra Greco e Levante, per l’isola di San Giorgio devo invece orzare di qualche grado verso nord, perché finalmente s’è alzata una bava di Tramontana. Così posso veleggiare intorno a questo piccolo scoglio selvoso, “un luogo tranquillo” prendendo a prestito il titolo originale del quadro forse più noto e misterioso di Arnold Böcklin: “L’isola dei morti”. Se inutile è la ricerca della geografia reale di quest’opera, come dell’Odissea e di tanti altri capolavori immaginifici, inevitabili sono oggi ai miei occhi le tante suggestioni simboliste legate al lavoro pittorico di Böcklin. Così l’isola cinta da una doppia sacrale corona di pietra e cipressi, diventa l’inviolabile regno d’Ade. Ancor più potente e intimidatoria è la stretta delle montagne balcaniche che circonda tutto l’orizzonte, da nord a sud.
Quella di San Giorgio è una storia spirituale, inscritta nel suo destino geografico, che si fa pietra con la costruzione nel XII secolo di un monastero, per diventare poi nei secoli successivi cimitero nobiliare della Perasto al culmine delle sue fortune marinaresche, di cui oggi l’imponente campanile, della mai completata basilica, è muto testimone. È ancora l’asciutta narrativa di un portolano a restituirmi in un’unica frase la plurisecolare storia di questa città: “Il suo contorno non si presta alla cultura, e gli abitanti vivono col profitto della navigazione, alla quale sono dediti sino da tempi antichissimi”. Di queste lunghe vicende spesso solo l’epilogo finale del 1797 è ricordato sulle coste italiche, quel “ti con nu, nu con ti”, troppo spesso frainteso a fini nazionalisti.
Noi invece preferiamo portare un fiore, bagnato nelle acque adriatiche, nel più grande, variegato, straordinario ex-voto mediterraneo, in forma di isola, che è Madonna dello Scalpello, che dista solo cento metri da San Giorgio. Perché se è vero che non c’è riva di questo mare che non abbia commoventi testimonianze di questa tradizione marinaresca, di ringraziare gli dei per i pericoli scampati o d’onorare la memoria dei naufraghi con un ex-voto, solo qui è stata costruita non solo una chiesa ma addirittura un’isola in memoria dei marinai. Una nave di pietra, con la coperta a raso sull’acqua, un cassero centrale in forma di chiesa, la prua affilata rivolta a nordovest ornata da un fanale rosso, la poppa tronca con un alto pennone portabandiera.
Una nave varata il 22 luglio 1452, quando secondo la leggenda due marinai trovarono una tavola con un’immagine sacra. “Si vuole, che il quadro della Vergine sia opera di S. Luca” e da allora, tutti gli anni, lo si celebra con una processione acquea, la Fašinada, da Perasto all’isola e ritorno. Entrando, nella penombra antica che profuma d’incenso, fantasie e paure esplodono alla vista dei migliaia di ex-voto che raccontano tempeste, affondamenti, mostri, corsari, siòni, battaglie, turbini, ventere, marosi, approdi e navigazioni felici o nefaste.
Al tramonto eravamo rimasti in pochi sull’isola. C’era una luce bizantina, che faceva vibrare le pietre. Nel controluce una figura femminile mi ricordò improvvisamente un breve racconto di Giuseppe Ungaretti. Era Dunja una fata di Cattaro, colei che ci insegna a indovinare “lo stupore che ci raggiunge dai sogni”.