Sette giorni d’estate*

In occasione della ricorrenza del decennale della strage di Srebrenica, pubblichiamo stralci del testo che ricostruisce i giorni successivi alla caduta dell’enclave attraverso i racconti dei sopravvissuti e i processi svoltisi all’Aja. Questo testo fa parte del libro "Srebrenica, fine secolo. Nazionalismi, intervento internazionale, società civile", disponibile scrivendo alla nostra segreteria

08/07/2005, Andrea Oskari Rossini -

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Manifestazione per gli scomparsi di Srebrenica (foto Gughi Fassino)

* La data di morte di tutti gli scomparsi di Srebrenica finora identificati è compresa tra l’11 e il 17 luglio 1995, secondo i dati dell’ICMP (Istituto Internazionale per le Persone Scomparse)

Abbiamo occupato l’Unprofor. Vedevamo che i Cetnici stavano arrivando… Gli abbiamo detto: "Difendeteci. Voi ci avete preso le armi. Questa è una enclave protetta. Difendeteci voi adesso". Loro piangevano, ci guardavano e dicevano: "Non possiamo darvi nessun aiuto. Da tre giorni chiediamo che si bombardi intorno a Srebrenica, che Srebrenica sia difesa, ma nessuno vuole farlo. Non possiamo aiutarvi, vogliamo aiutarvi ma ci è impossibile aiutare. Non possiamo aiutare né noi né voi". Noi gridavamo, la gente era disperata, svenivano, morivano. (Hanija M., in "Europa, Srebrenica", di Andrea Rossini, documentario, Ita 2000).

Radovan Karadzic e Ratko Mladic, rispettivamente responsabile politico e militare dei Serbi di Bosnia durante la guerra, considerati i principali responsabili della strage di Srebrenica, sono ancora in libertà. Nei primi mesi del 2005, tuttavia, un’ondata di arresti e trasferimenti "volontari" ha portato all’Aja gran parte dei loro più stretti collaboratori. Insieme alle persone già arrestate – e processate – per i fatti di Srebrenica, secondo gli osservatori, con questi ultimi arresti tutte le tessere del mosaico del più grave crimine di guerra commesso nelle guerre degli anni ’90, e l’unico caso di genocidio stabilito in Europa dalla seconda guerra mondiale, troveranno una loro collocazione.

All’inizio di marzo è arrivato all’Aja il generale Momcilo Perisic, capo di stato maggiore dell’esercito jugoslavo (VJ) tra il 1993 e il 1998. In ragione del sostegno, in uomini, mezzi e materiali, prestato dalla VJ (già JNA) alll’esercito della Republika Srpska (VRS), e in particolare per il fatto che numerosi ufficiali dello stato maggiore della VRS erano membri dell’Esercito jugoslavo, posti sotto il comando dell’Esercito della Republika Srpska, a Perisic sono stati contestati numerosi fatti relativi alla guerra in Bosnia Erzegovina. E’ accusato di crimini contro l’umanità e violazione delle leggi e delle usanze di guerra. Per quanto riguarda Srebrenica, Perisic è accusato di persecuzione, omicidio, sterminio e atti inumani (v. l’atto d’accusa emesso nei confronti di Momcilo Perisic, IT-04-81, a http://www.un.org/icty/indictment/english/per-ii050222e.htm, 55-62).

Prima di lui, lo scorso ottobre, era stato trasferito nella speciale unità di detenzione delle Nazioni Unite a Scheveningen il capo della sicurezza della VRS, Ljubisa Beara, considerato il braccio destro di Mladic. Dopo due anni di latitanza, Beara si sarebbe consegnato spontaneamente al Tribunale Internazionale (ma sulla consegna ‘spontanea’ di Beara al Tribunale dell’Aja, v. "La giustizia internazionale nei conflitti balcanici: intervista a Carla Del Ponte", Osservatorio sui Balcani, 2 novembre 2004). Le accuse nei suoi confronti sono genocidio, cospirazione per commettere genocidio, crimini contro l’umanità, violazione delle leggi e delle usanze di guerra (v. l’atto di accusa emesso nei confronti di Beara, emendato al 30 marzo 2005, IT-02-58, a http://www.un.org/icty/indictment/english/bea-ai050330e.htm). Il 16 aprile di quest’anno, comparendo di fronte ai giudici, Beara si è dichiarato "non colpevole".

Anche Milan Gvero, generale serbo bosniaco in pensione, si è consegnato spontaneamente (era a Belgrado) il 21 febbraio scorso. Il 23 è arrivato all’Aja. Ex portavoce dell’Esercito Popolare Jugoslavo (JNA), poi portavoce non ufficiale di Ratko Mladic prima e dopo gli attacchi a Srebrenica e Zepa, oltre ad essere aiutante di Mladic era responsabile del settore dedicato alla morale delle truppe, alle informazioni e questioni legali. (v. "Profile: Milan Gvero", di Daniel Sunter, in Resoconti del Tribunale, IWPR, 26 febbraio 2005)

Insieme a Zdravko Tolimir – vice capo alla sicurezza e intelligence dello Stato Maggiore della VRS, ancora latitante – e a Radivoje Miletic, capo di Stato Maggiore dell’esercito della RS, consegnatosi alla fine di febbraio, Gvero è accusato di crimini contro l’umanità (omicidio, persecuzione, atti inumani e deportazione) e violazione delle leggi e delle usanze di guerra (v. l’atto di accusa nei loro confronti, IT-04-80, Tolimir et alia, a http://www.un.org/icty/indictment/english/tol-ii050210e.htm). Sia Miletic che Gvero si sono dichiarati non colpevoli.

Il generale Vinko Pandurevic, a capo della brigata Zvornik dell’esercito della RS, è stato invece trasferito all’Aja il 23 marzo scorso, dopo aver negoziato la resa con il ministro della giustizia serbo, Zoran Stojkovic. E’ accusato di genocidio, complicità in genocidio e crimini contro l’umanità (sterminio, omicidio, persecuzione e trasferimenti forzati di popolazione) e violazione delle leggi e delle usanze di guerra, per il ruolo svolto nel massacro di Srebrenica. Condivide l’atto d’accusa con Milorad Trbic, capitano della brigata Zvornik. Quest’ultimo però è accusato solo di crimini contro l’umanità (omicidio), (v. l’atto di accusa contro Pandurevic e Trbic, IT-05-86, a http://www.un.org/icty/indictment/english/pan-1ai050303.htm).

Anche il capo della sicurezza della stessa brigata, e responsabile della polizia militare, l’ufficiale Drago Nikolic, è ora all’Aja. Subito dichiaratosi non colpevole, è accusato di genocidio e complicità in genocidio, crimini contro l’umanità, violazione delle leggi e delle usanze di guerra sempre per il coinvolgimento nel massacro di Srebrenica (v. l’atto IT-02-63, a http://www.un.org/icty/indictment/english/nik-ii020906e.htm).

Ljubomir Borovcanin, vice comandante della polizia speciale del Ministero degli Interni della RS, si è consegnato il 29 marzo scorso ed è stato trasferito nell’unità di detenzione delle Nazioni Unite all’Aja il primo aprile. E’ accusato di complicità in genocidio, crimini contro l’umanità (sterminio, omicidio, persecuzione, trasferimento forzato di popolazione e atti inumani) e violazione delle leggi e delle usanze di guerra (v. IT-02-64, a http://www.un.org/icty/indictment/english/bor-ii020906e.htm).

Secondo l’accusa Borovcanin avrebbe fatto parte della "associazione criminale" volta a deportare le donne e i bambini bosniaco musulmani di Srebrenica verso Kladanj, il 12 e 13 luglio ’95, e a catturare, detenere ed uccidere tramite plotone di esecuzione, seppellire e occultare i cadaveri di migliaia di uomini e ragazzi tra il 12 e il 19 luglio ’95.

Infine, Vujadin Popovic, vice comandante della sicurezza del Corpo della Drina, arrivato all’Aja in aprile, è accusato di genocidio, complicità in genocidio, crimini contro l’umanità e violazione delle leggi e delle usanze di guerra. Come tutti gli altri sopra menzionati, la maggior parte delle accuse sono relative alla strage di Srebrenica del luglio ’95.

All’inizio di maggio la Procura del Tribunale ha annunciato che intende presentare richiesta per unire in un unico troncone le incriminazioni contro i nove militari e ufficiali di polizia serbo bosniaci accusati per crimini relativi alla strage di Srebrenica. Se la richiesta venissa accolta, questo diventerebbe il più grande processo nella storia del Tribunale dell’Aja.

Il prossimo avvio dei processi nei confronti di questi militari potrebbe risultare di importanza fondamentale nel fornire ulteriore documentazione sui fatti di Srebrenica. Quei fatti, tuttavia, sono già stati ampiamente ricostruiti in Tribunale. All’Aja si sono infatti ormai conclusi sei procedimenti, alcuni anche in seconda istanza. Questi sei processi hanno fatto conoscere al mondo nei minimi dettagli la dinamica dell’estate di morte del 1995.

Drazen Erdemovic

Succedeva di tutto… Ci sparavano addosso, eravamo circondate. Quello era il più grande lager della Bosnia Erzegovina, Srebrenica. Siamo state tre anni e mezzo circondate in quel lager (Hanija M., in "Europa, Srebrenica", op.cit.)

La prima persona ad essere processata per i fatti di Srebrenica è stato un soldato semplice, Drazen Erdemovic. Di nazionalità croata, sfollato nel territorio controllato dai serbo bosniaci, era stato arruolato in una unità speciale dell’esercito della Republika Srpksa, il Decimo Distaccamento Sabotatori. Questa unità era stata inviata a Srebrenica nel luglio ’95 e alcuni soldati – compreso Erdemovic – erano stati incaricati di fucilare i Bosniaco Musulmani che si erano arresi dopo la caduta della città.

Erdemovic è stato trasferito dalle autorità dell’allora Repubblica Federale di Jugoslavia al Tribunale dell’Aja il 30 marzo 1996. Si è dichiarato colpevole di fronte ai giudici, ammettendo di aver fatto parte di uno dei plotoni di esecuzione, ed ha cominciato a collaborare.

Il suo racconto ha permesso ai giudici di poter avere un primo sguardo dall’interno su quanto accaduto a Srebrenica e dintorni nei giorni successivi alla caduta del’enclave. Come si può leggere nel dispositivo della sentenza d’appello (v. IT-96-22, a http://www.un.org/icty/erdemovic/trialc/judgement/erd-tsj980305e.htm), la Corte ha infatti considerato la collaborazione di Erdemovic "eccellente".

Erdemovic si è dichiarato colpevole di crimini contro l’umanità nella sua prima apparizione di fronte al Tribunale, il 31 maggio del ’96. L’imputato ha dichiarato di aver ucciso, insieme a altri della sua unità, centinaia di Bosniaco Musulmani disarmati in una fattoria collettiva, la "Branjevo" di Pilica, presso Zvornik. Ha raccontato con ordine la storia di quei giorni.

La mattina del 10 luglio, il comandante del suo plotone, Franc Kos, aveva ordinato ai soldati di andare a Srebrenica. Erdemovic racconta ai giudici le razzie e le prime atrocità avvenute dopo la caduta dell’enclave. I fatti che lo coinvolgono direttamente, tuttavia, avvengono nei giorni successivi.

Il 16 luglio, a Vlasenica, uno dei comandanti della sua unità, Brano Gojkovic, gli spiegò che dovevano entrare in azione. Otto soldati, compreso Erdemovic, vengono inviati a Zvornik: "Brano Gojkovic ci spiegò cosa sarebbe successo: disse che sarebbero arrivati gli autobus con i prigionieri di Srebrenica".

"Cosa dovevate fare con loro?", ha chiesto il procuratore, Geoffrey Nice.

"Dovevamo fucilarli".

Tra le dieci del mattino e le due del pomeriggio, gli otto soldati uccisero tra le 1.000 e le 1.200 persone. Il plotone d’esecuzione utilizzava una mitragliatrice, che si rivelò inefficiente, mutilando i prigionieri invece che ucciderli immediatamente, così che molti dovettero essere giustiziati con colpi singoli. Ne vennero uccisi così tanti che i soldati restarono senza materiale per legarli e bendarli: "I primi gruppi di persone erano bendati e con le mani legate, ma i gruppi successivi no", ha dichiarato in aula Erdemovic.

Quando la sua unità era ormai esausta, fu rimpiazzata da soldati serbi che provenivano da Bratunac. Un prigioniero si era avvicinato a Erdemovic chiedendogli di essere risparmiato, perché aveva aiutato dei Serbi a scappare da Srebrenica. L’uomo mostrò dei nomi e numeri di telefono come prova. Erdemovic andò da Gojkovic, chiedendo di salvare la vita dell’uomo, ma senza successo: "Brano disse che non voleva testimoni".

Quando le esecuzioni terminarono, un luogotenente colonnello – che era comparso al mattino – tornò per chiedere all’unità di uccidere altri 700 Bosniaco Musulmani che erano rinchiusi in un cinema. Erdemovic e altri però si rifiutarono, così che furono i soldati di Bratunac a continuare le esecuzioni.

C’era un bar di fronte al cinema, e Erdemovic andò lì ad aspettare mentre il massacro veniva portato avanti dall’altra parte della strada. Secondo il racconto dell’imputato, la gente del posto continuava con le proprie faccende, mentre avvenivano le esecuzioni: "C’era gente per strada, di fronte all’edificio. Non c’era niente fuori dall’ordinario, tranne le persone che venivano uccise". (v. "Death squad man recalls Srebrenica", di Emir Suljagic, in Resoconti del Tribunale, IWPR, 6 settembre 2003)

La trascrizione di parti del dibattimento, pubblicate dal Tribunale, permette di ricostruire anche l’atmosfera nella quale Erdemovic partecipò alle esecuzioni:

"… Non avevo scelta. Il luogotenente colonnello ci portò ad una fattoria. Non conoscevo il nome di quella fattoria. … Sapevo che lì c’era il villaggio di Pilica, ma è solo quando sono arrivato lì che ho capito cosa stava accadendo. Ci hanno detto che sarebbe arrivato un autobus pieno di civili da Srebrenica. Ho detto subito che non volevo prendere parte alla cosa, ho detto: "Siete normali? Sapete cosa state facendo?" Nessuno mi ascoltava, poi mi hanno detto: "Se non vuoi, se… puoi metterti in fila con loro. Puoi consegnarci il tuo fucile".

Domanda: Cosa è successo a quei civili?

Erdemovic: Ci avevano ordinato di sparargli, cioè di fare le esecuzioni

Domanda: Lei ha eseguito gli ordini?

Erdemovic: Sì. All’inizio ho cercato di oppormi e Brano Gojkovic mi ha detto che se mi dispiaceva per quella gente dovevo mettermi in fila con loro; sapevo che non era solo una minaccia, ma che poteva accadere, perché nella nostra unità la situazione era diventata tale che il comandante aveva il diritto di fucilare sul posto chiunque minacciasse la sicurezza del gruppo o si opponesse in qualsiasi modo al comandante del gruppo, designato dal comandante Milorad Pelemis". (testimonianza resa di fronte alla Corte, 5 luglio e 19 novembre 1996, v. la sentenza di appello Erdemovic, IT-96-22, a http://www.un.org/icty/erdemovic/trialc/judgement/erd-tsj980305e.htm)

Dopo un iniziale rinvio per motivi di salute – secondo una commissione medica l’accusato "soffriva di disordine post traumatico di tale intensità da non poter affrontare il processo", (ibidem) – Erdemovic fu infine condannato a dieci anni di reclusione, il 29 novembre del 1996.

La sentenza di appello, 5 marzo 1998, ha ridotto la pena della metà. I giudici hanno riconosciuto, oltre alla piena collaborazione, altre circostanze mitigatrici della pena, quali la circostanza, riferita dall’imputato, di aver agito sotto minaccia di morte.

La Corte ha stabilito che il plotone d’esecuzione cui prese parte l’imputato assassinò centinaia di civili bosniaco musulmani tra i 17 e i 60 anni. Secondo le rilevazioni della Procura, il solo imputato, che ha dichiarato di aver sparato colpi singoli utilizzando un fucile automatico Kalashnikov, avrebbe ucciso fino a 100 persone. Questa stima si accorda all’incirca con quella fatta da Erdemovic stesso, di 70 persone. Nonostante l’iniziale riluttanza, infatti, l’imputato continuò a uccidere per gran parte della giornata. (v. la sentenza d’appello, capo 15, a: http://www.un.org/icty/erdemovic/trialc/judgement/erd-tsj980305e.htm)

Il teste P-111

Sono andata avanti, mi sono avvicinata al pullman. Dietro di me c’era un ragazzo, avrà avuto 15 anni. Mladic l’ha preso per un braccio dicendo: "Tu fermati. Partirai dopo." E l’ha spinto da parte. Lì ho capito che prendeva gli uomini (Hanija M., in "Europa, Srebrenica", op. cit.)

Poche persone si salvarono dalle fucilazioni di massa. Una di loro è il cosiddetto teste P-111, che ha raccontato al Tribunale dell’Aja una storia analoga a quella di Erdemovic, ma vista dall’altra parte.

Quando Srebrenica cadde, P-111 aveva solamente 17 anni. 8 anni più tardi, nel 2003, si è presentato all’Aja per testimoniare nel processo contro Vidoje Blagojevic e Dragan Jokic (v. infra). La sua testimonianza è durata due giorni.

P-111 aveva cercato di scappare attraverso i boschi con il padre. Dopo poco si era ritrovato solo. Il giorno seguente, il suo gruppo era stato accerchiato dalla truppe serbe. Dopo alcune ore avevano deciso di arrendersi: "I Serbi dissero che saremmo stati trattati secondo la Convenzione di Ginevra". Mentre si consegnavano, una colonna di autobus che proveniva da Potocari, con le donne e i bambini, gli passò vicino. "Molti di noi riconoscevano la gente sugli autobus, io ho visto una compagna di scuola che passava su un camion scoperto". Furono condotti in un prato, dove un soldato serbo, vestito con la mimetica e una bandana, tenne loro un discorso. "Disse che ci avrebbero portati a Bratunac, ma che non ci avrebbero dato la cena. L’ha detto come per schernirci. Sapeva che non ne avremmo avuto bisogno". Fecero salire su un autobus che passava accanto al campo tre dei prigionieri, ragazzi, tutti sotto i 15 anni. Anche un altro, sui 13 anni, chiese se poteva andare, ma i soldati gli dissero di stare seduto. Lo zio – con cui nel frattempo si era riunito – disse a P-111 di provare anche lui a salire sull’autobus, pensando che i ragazzi sarebbero stati salvati, ma il ragazzo non se la sentì: "Avevo troppa paura".

Dopo poco, arrivò un nuovo gruppo di soldati serbi, che obbligarono i prigionieri a sdraiarsi per terra e gridare "Viva il re!", "Viva la Serbia" per molte ore, fino a quando non fu buio. Poi li fecero salire su di un convoglio di camion: "Dissero che ci avrebbero portato al campo per prigionieri di guerra di Bijeljina, dove ci avrebbero scambiati con altri prigionieri. Ci portarono a Bratunac, dove ci fecero passare la notte nei camion. Al mattino, la vita sembrava trascorrere normalmente intorno a noi. La gente passava vicino ai camion, i bambini in bicicletta. Dopo essere ripartiti, ci rendemmo conto che non ci portavano a Bijeljina, ma a Zvornik".

I prigionieri furono fatti scendere e a bastonate accompagnati in un edificio scolastico. P-111 fu fatto entrare in una classe piena di gente: "Eravamo assetati e io ero coperto di urina". Un prigioniero cercò di aprire una finestra, ma una guardia da fuori aprì il fuoco: "I vetri ci caddero addosso e cinque o sei uomini si ferirono".

La sera, i soldati cominciarono a prendere uomini a gruppi di cinque dalle classi. Fuori si sentiva il rumore costante del fuoco delle armi automatiche: "Poi, qualcuno aprì la porta e disse che era il nostro turno".

Era chiaro che gli uomini venivano assassinati fuori dalla scuola, ma nessuno all’interno sembrava in grado di prendere una decisione: "Qualcuno suggerì di correre fuori tutti insieme, dicendo che avremmo potuto sopraffare le guardie, ma nessuno voleva starci".

P-111 fu portato in un’altra classe, spogliato e ammanettato. Poi i soldati gli ordinarono di scendere le scale e salire su di un camion parcheggiato fuori. Dieci minuti dopo, i soldati gli ordinarono di scendere. Nessuno voleva uscire: "Ci nascondevamo uno dietro l’altro, solo per vivere qualche secondo in più".

Dopo essere stati messi in fila, i soldati aprirono il fuoco. Quasi tutti morirono subito. P-111 fu colpito ad un piede, ad un braccio e al petto, ma nonostante il dolore insopportabile rimase muto. Anche l’uomo sdraiato accanto a lui era sopravvissuto alla prima raffica, ma quando aveva iniziato a lamentarsi i soldati gli spararono di nuovo: "Ho visto uno stivale militare di fronte alla mia faccia. Il soldato ha ucciso quello accanto a me e poi ha proseguito".

La sparatoria andò avanti per tutta la notte. Quando i soldati se ne andarono, P-111 sentì una voce che chiamava dall’altra parte del campo. Era un altro sopravvissuto. I due riuscirono a slegarsi. Al mattino, mentre i soldati caricavano i corpi, riuscirono a raggiungere i boschi. Dopo 4 giorni di cammino arrivarono nel territorio controllato dal governo bosniaco, presso Tuzla: "Io volevo mollare, ma l’altro sopravvissuto continuava a tornare indietro e a supplicarmi di continuare. Mi ha salvato la vita" (v. "Execution survivor recounts ordeal", di Emir Suljagic, in Resoconti del tribunale, IWPR, 24 luglio 2003 e la sentenza Obrenovic, IT-02-60/2, "Srebrenica", a: http://www.un.org/icty/obrenovic/trialc/judgement/index.htm). …

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