Serbo, croato o serbo-croato?
Ranko Bugarski, tra i più noti linguisti sulla scena accademica internazionale, intervistato dal settimanale Feral Tribune, risponde in modo puntuale ad alcune delle questioni linguistiche più dibattute nella ex Jugoslavia. Nostra traduzione
Di Bojan Munjin, Feral Tribune, 6 settembre 2007 (tit. orig. Svaki je naški 90 posto vaški)
Traduzione per Osservatorio Balcani: Luka Zanoni
Per quel che riguarda le attuali questioni linguistiche, sembra proprio che non avremmo potuto trovare miglior interlocutore di Ranko Bugarski, la sua biografia professionale, infatti, è veramente impressionante. Con le "Opere scelte" in 12 libri, l’enorme numero di lavori scientifici riguardanti la linguistica generale, la linguistica applicata e la sociolinguistica usciti su pubblicazioni scientifiche europee, Ranko Bugarski è professore ordinario presso la facoltà di Filologia di Belgrado, docente presso almeno una decina di cattedre rinomate in tutto il mondo e membro di una serie di associazioni scientifiche internazionali. I suoi libri "La lingua dalla pace alla guerra", "I nuovi volti della lingua", "La lingua nel contesto" e "Gergo" (Biblioteka XX veka) sono stati ristampati più volte, ma ciò che caratterizza questo professore in modo particolare è che sui dilemmi linguistici parla senza infiammarsi come invece accade in modo caratteristico quando tra gli slavi del sud si discute della lingua.
Ha partecipato all’incontro scientifico dedicato alle questioni attuali della lingua che di recente si è tenuto a Split?
Ho avuto l’onore e il piacere di essere invitato al congresso annuale della Società croata per la linguistica applicata tenutosi a fine maggio a Split, e l’organizzazione era gestita dalla mia collega Jagoda Granic del dipartimento di umanistica della Università di Split. Purtroppo, allora ho visto per l’ultima volta il mio caro collega Dubravko Skiljan, un linguista eccezionale, non solo in ambito croato. Da un punto di vista professionale per me quell’invito è stato molto importante, ma per me – se così posso dire – è stato anche un segno prezioso dell’avanzamento della normalizzazione della collaborazione culturale in questi luoghi. Il tema generale dell’incontro è stato la politica della lingua e la realtà della lingua, ed io ho parlato del tema "La politica europea del linguaggio tra la globalizzazione e la diversità", cercando di rispondere alla domanda su come questa politica compaia nei programmi e nelle attività delle istituzioni europee, e quali sono gli obiettivi e le indicazioni per i membri dell’Unione e della comunità europea.
Quali sono i risultati del suo impegno?
Ho cercato di portare un equilibrio all’interno delle tendenze contraddittorie che si presentano contemporaneamente sulla scena: da un lato si fa avanti la globalizzazione il cui simbolo principale è la lingua inglese, mentre dall’altro lato si segue il corso della diversificazione che comprende anche lo stesso inglese e che è stato scomposto in diverse varianti nazionali. Ho posto l’accento sulla necessità del mantenimento della varietà all’interno dei singoli paesi e sulla necessità della diversità all’interno della comunicazione internazionale. Qui ha un particolare riguardo la questione del multilinguismo, anche se molti dividono le lingue in grandi e piccole, è necessario abituarsi ad un solo modo di pensare che prevede non solo il mantenimento ma anche lo sviluppo di lingue differenti. Le istituzioni europee hanno introdotto l’obiettivo di fare in modo che, in un tempo utile, ogni cittadino dell’Europa usi due lingue oltre alla sua lingua madre, ciò significa che i membri delle minoranze nazionali in futuro conosceranno quattro lingue. Per molti questa è una richiesta enorme, ma rappresenta la via per superare l’etnocentrismo e il linguocentrismo: la chiusura in un etnos, la nazione e la sua lingua. Questo modo di ragionare è particolarmente importante per l’ambiente post jugoslavo dove noi subiamo tutt’oggi le influenze delle recenti guerre: e siamo meno inclini a pensare in questo modo.
Cosa rappresenta per lei il concetto di identità nazionale e linguistica?
Oggi l’identità non è più tradizionale – si segue il sistema ognuno per conto proprio – è fortemente determinata etnicamente e linguisticamente. È un fenomeno dinamico a più livelli che non è determinato una volta per tutte con la nascita.
Anche l’identità linguistica è altrettanto complessa – in misura maggiore di quanto sia capita dai laici – perché ci sono molte persone al mondo che hanno più di una lingua madre. Le persone comuni credono che quando uno è bilingue, allora è di sicuro figlio di un matrimonio misto, ma questa norma monolinguistica non è altro che l’espressione dell’ideologia del romanticismo e del nazionalismo del 19° secolo. Ad esempio, la mia identità linguistica è molto più ampia del mio orientamento nazionale e io credo che vivere con tre lingue e due forme scritte, se non altro, sottolinei la tolleranza. È più facile vivere con più lingue che nella ristrettezza di una lingua sola.
Una volta Miroslav Krleza disse che i croati e i serbi sono due popoli divisi da una lingua e un Dio. Secondo lei esiste la lingua serbo-croata o il serbo e il croato sono due lingue diverse?
Esistono tre livelli di osservazione per questa domanda. Al primo livello, quello linguistico-comunicazionale, non c’è alcun dubbio che il croato, il serbo, il bosniaco e il montenegrino siano una lingua unica. Le differenze linguistiche tra queste lingue sono veramente poche: da un punto di vista percentuale, queste lingue utilizzano il novanta percento della stessa base linguistica, ma per il fatto che il sistema fonetico, la morfologia e la sintassi sono molto simili, possiamo dire che parliamo la stessa lingua. Questo alto grado di somiglianza si rispecchia, per esempio, nel fatto che gli abitanti di questi luoghi, con una educazione media o bassa, che parlano serbo, croato o bosniaco, si capiscono tra di loro e comunicano senza difficoltà.
Al secondo livello, quello politico-simbolico, la lingua serbo-croata è stata sepolta insieme con la Jugoslavia, della quale era l’espressione simbolica e il principale mezzo di coesione. In altre parole, è stata sepolta perché la lingua croata, serba, e più tardi quella bosniaca e montenegrina, sono diventate le lingue degli stati nati dalla ex Jugoslavia e che funzionano come importanti indicatori simbolici delle neonate sovranità.
Al terzo livello, quello sociopsicologico, è importante vedere come l’uomo comune si rapporta alla lingua che parla. La maggior parte della gente oggi vi dirà che parla serbo o croato, ma c’è anche chi dice di parlare il serbo-croato e viceversa, e non pensa con ciò alla politica. Se vi è utile, posso tranquillamente dire che io stesso considero la mia lingua madre il serbo-croato, ma non per una sorta di jugonostalgia o per una provocazione politica, bensì perché sono cresciuto, andato a scuola e mi sono formato a Sarajevo, in un ambiente eccezionalmente multiculturale in cui la lingua da sempre è stata il serbo-croato, e non vedo il motivo per cui la lingua che parlo da sempre adesso dovrei cambiarla solo perché sono cambiate le circostanze (politiche).
Dal punto di vista scientifico, cosa è accaduto a queste lingue negli ultimi quindici anni?
È difficile dire, per esempio, se la lingua serba sia diventata più ricca o più povera, in ogni caso è diventata più serba. Con l’indipendenza degli stati e le loro lingue nazionali è comparsa la necessità di dimostrare che ognuno di loro è diverso dagli altri e con ciò si giustifica sul piano simbolico la particolare denominazione di un’unica nazionalità. L’esempio più significativo è dato dalla lingua croata, che con l’introduzione di arcaismi e di neologismi si è spinta più in là di tutte, ma è interessante anche la lingua bosniaca che ha dovuto mostrarsi differente sia dal serbo che dal croato. L’unico metodo per raggiungere questo intento è stato di appoggiarsi alla tradizione orientale e impiegare i turchismi e gli arabismi, ma questa "islamizzazione" parziale della lingua è del tutto irrilevante da un punto di vista linguistico. I fatti linguistici reali mostrano che la gente nella comunicazione quotidiana parla la stessa lingua e in genere dalla loro parlata non si può stabilire di che nazionalità siano. Se oggi a Sarajevo aveste la possibilità di ascoltare una discussione tra tre ragazzi di cui un croato, un serbo e un bosgnacco, avreste difficoltà a pensare che parlano lingue diverse, ma se doveste chiedere loro che lingua parlano, allora probabilmente direbbero che parlano la "nostra" o per avere un commento più spiritoso direbbero che parlano, croato, serbo, bosniaco. Dall’altra parte, i membri delle élite hanno la necessità di legittimarsi con la lingua secondo un’ottica nazionale, ma non per la differenza delle lingue, bensì per il proprio avanzamento politico. Per avere successo un politico "serbo" in Bosnia Erzegovina deve parlare serbo, un "buon" bosgnacco deve parlare bosniaco, e il croato deve parlare "più croatamente" di quanto non facciano a Zagabria.
È per questo che di recente avete parlato di una "schizofrenia linguistica" in Bosnia Erzegovina?
La conseguenza di tutto ciò è che molta gente ha iniziato a temere la propria lingua, e a sentirsi insicura nella comunicazione pubblica, temendo di usare una parola "sbagliata". E per la lingua questa è una situazione dannosa. Quando per decreto costringete la popolazione che usa originariamente la forma ijekava, come i serbi di Bosnia Erzegovina, ad usare la forma ekava e a scrivere in cirillico, si sviluppa una situazione fatale per la lingua che parlano e ciò è pericoloso per le situazione politica di uno stato del genere. Detto linguisticamente, la mescolanza delle varietà delle lingue nella parlata delle stesse persone destabilizza la lingua come sistema.
Cosa si può dire della proposta di una lingua a parte per il montenegrino?
I sostenitori di una lingua a parte per il montenegrino hanno uno spazio molto esiguo per la "differenza", sicché sono andati indietro nella storia e con una sorta di "folclorizzazione" hanno inserito nella lingua i vecchi dialetti e le caratteristiche regionali. Hanno suggerito che alcune forme morfologiche, i casi e gli arcaismi, facciano parte della lingua standard, e questo concretamente significa che hanno cercato di introdurre nella lingua dei fonemi completamente nuovi, come per esempio il fonema specifico "ž" (žjenica al posto di zjenica pupilla), oppure "šj" (šjekira" al posto di "sjekira" ascia) e "dz" ("jedzero" al posto di "jezero" lago). Questa direzione è linguisticamente errata e non merita attenzione perché si tratta di dialettismi o della pronuncia dialettale di alcune parole. Questo "dz" (per esempio in Vojvodina nella comunicazione colloquiale esiste l’espressione popolare "dzevdzek" – šaljivčina buffone) – potete anche sentirlo ma come lo scrivete? Se il Montenegro desidera una lingua moderna e standard, allora non ha senso che faccia ritorno al passato e al folclore. Per chiudere questa discussione vale la pena precisare che il nome della lingua è una cosa ma la sostanza linguistica è tutt’altra.
Cosa significa che la lingua serba è diventata "più serba" di prima?
Nella lingua serba non c’erano così tante intenzioni di differenziarla dalle altre, almeno non tante quanto ci si potesse aspettare – fatto che va ascritto alla credenza politica del tempo sui serbi come una sorta di centro storico del raggruppamento jugoslavo – tuttavia la differenza è stata posta con la lingua scritta. Mentre nella costituzione del 1990 in Serbia era ancora possibile usare ufficialmente l’alfabeto latino, la nuova costituzione del 2006 all’articolo 10 dice: "Nella Repubblica della Serbia vengono usati ufficialmente la lingua serba e l’alfabeto cirillico. L’uso ufficiale di altre lingue e scritture è regolato secondo la legge…". Per questa legge dovremo aspettare ancora un po’, come se avessimo non so quante "altre lingue e scritture", ma dal momento che io stesso ho visto anche l’altra versione della costituzione che comprende anche il latino come scrittura ufficiale, una tale interpretazione della lingua e della sua forma scritta nella costituzione è il risultato dell’accordo coi partiti politici conservatori che desiderano dichiarare l’esclusività della Serbia come stato indipendente. Ed è qui che inizia lo spazio di manipolazione politica che dice che i serbi "da sempre" hanno scritto in cirillico, mentre il latino per motivi politici è stato introdotto più tardi e da fuori, da quando la Serbia è entrata nella Jugoslavia e nei circoli europei… Sia come sia, oggi a Belgrado potete vedere per strada degli scrittori scarsi con il quaderno sotto il braccio che scrivono i nomi dei negozi in latino e poi urlano in giro che la lingua serba e il cirillico sono minacciati.
Al giorno d’oggi lei considera reale lo sforzo di rendere esclusivo il cirillico?
I difensori dell’esclusività del cirillico dicono che "non esiste al mondo un popolo che scriva in due forme scritte" oppure "guardate i greci, il fraterno popolo ortodosso, che scrivono nel loro alfabeto e non gli manca nulla". Tutti questi dimenticano, però, che scrivere in due alfabeti è una ricchezza e non il declino. Il pericolo in tutto ciò è che oggi in Serbia le persone che scrivono in alfabeto latino vengono considerate come "cattivi serbi" e traditori nazionali, cosa che ci riporta all’inizio degli anni novanta, quando le persone venivano divise in patrioti e traditori. Alla fine, nemmeno l’alfabeto latino è di origine croata, né il cirillico è autenticamente serbo, basta osservare che ai tempi del glagolitico il cirillico era usato sulle isole della Dalmazia o l’alfabeto latino in Serbia, molto prima di tutte le recenti divisioni.
Qual è la vera questione quando oggi si tratta di lingue (nazionali) in questa parte di mondo?
Esistono due fatti catastrofici quando si tratta della lingua, non solo in Serbia, benché nessuna discussione su questo tema inizi senza questi due fatti catastrofici, e sono – per quanto concerne la Serbia – che tra un terzo e la metà la popolazione serba è funzionalmente analfabeta. Un enorme numero di persone adulte è in grado di firmarsi col proprio nome, distinguere le lettere ed è in grado di leggere i più semplici titoli dei giornali, ma ha delle serie difficoltà a comprendere i testi un po’ più lunghi, per non parlare dello sforzo di composizione di un testo qualsiasi. Secondo, è presente un’inammissibile basso livello di cultura linguistica che non solo comprende la lingua orale e scritta, ma anche la capacità di ascoltare gli altri, così come il rapportarsi alle altre varianti linguistiche. L’uomo di cultura non può essere colui che si serve in modo solido della lingua letteraria standard e dispregia il gergo e i dialetti. Dalle posizioni che si hanno sulla lingua e sulle lingue si vede bene cosa si pensa degli altri ed ecco perché questa questione affonda nella questione della tolleranza fra le persone.
Sembra che la scena pubblica in Serbia sia riempita dai discorsi dei politici colmi di luoghi comuni e che la comunicazione fra di loro sia piena di turpiloquio e aggressività?
Purtroppo, ha ragione, ecco perché penso in questo senso che non sia la cosa più importante se qualcuno in pubblico conosce gli accenti o le sillabe finali, mentre è importante il tono generale di questa comunicazione. Il linguaggio aggressivo di noti politici (di alcuni partiti), così come il linguaggio dei media, rappresentano l’espressione linguistica dell’atmosfera politica della società che semplicemente inquina sia la lingua che le relazioni politiche. In questo senso è caratteristico anche il turpiloquio che da sempre è appartenuto al "folclore" dei popoli jugoslavi, ma ciò che è nuovo è che in Serbia è entrato nel vocabolario politico davanti a milioni di telespettatori. Purtroppo, potremo attenderci delle relazioni civili nella comunicazione linguistica solo quando cambieranno le relazioni politiche, anche se verranno imposte dall’esterno, con la richiesta di adempiere agli standard europei di comunicazione.
Il suo ultimo libro è intitolato "Gergo". Nell’odierna comunicazione qual è il rapporto tra la lingua standard e il gergo?
Bisogna prima intendersi sul concetto di gergo, che, ovviamente, non è solo la lingua della strada. Nel libro ho cercato di suddividere il gergo in tre sensi: il primo è il gergo dei giovani, che è grosso modo il secondo nome per lo slang, il secondo senso riguarda il gergo subculturale degli strati poveri o dei gruppi criminali, cui si addice l’espressione francese argo; il terzo è il gergo professionale a cui appartiene la lingua parlata dai meccanici, giuristi, medici, politici, ecc.
Possiamo dire che il gergo professionale danneggia la lingua standard perché non è fantasioso, spesso è ripetitivo e pieno di luoghi comuni, come nel caso dei politici, mentre i primi due gruppi sono vivi, creativi, spiritosi e attuali. Molte forme gergali entrano a far parte della lingua letteraria standard attraverso i termini urbani e subculturali che invece sono di breve durata. Un buon esempio del mescolamento della lingua standard e del gergo è l’espressione "il nero" (crnjak). Se "il nero" è il nome del vino rosso, allora questa espressione come forma colloquiale è entrata nella lingua standard, "il nero" come espressione per l’humor nero rappresenta il gergo, mentre, per esempio, tra i tossicomani l’espressione "il nero" viene usata per la droga e rappresenta lo slang subculturale.
Abbiamo iniziato questo colloquio con la globalizzazione e lo terminiamo con ciò che pensate della parole altrui parole straniere, ndt nella lingua.
Non amo la parola altrui perché contiene in sé una connotazione negativa di qualcosa di qualcun altro, preferisco di più parole come prestito (lessicale) o prestato, come si direbbe nella lingua standard croata. Da che mondo è mondo, i popoli si sono prestati reciprocamente le parole, a parte gli antichi greci i quali non avevano nessuno da cui prendere le parole. Al giorno d’oggi non potete più vivere senza le parole che hanno un’origine straniera ma un uso locale. Insieme a centinaia di parole delle quali un popolo qualsiasi nello spazio jugoslavo non ha idea se siano turchismi o cosa, oggi è presa di mira la lingua inglese dalla quale vengono prese in prestito molte espressioni. L’inglese è di certo la lingua più diffusa al mondo e influenza molte altre lingue, ma detto di passaggio, l’inglese oggi restituisce i debiti dei secoli passati in cui prendeva in prestito le parole da una decina di altre lingue. Dall’inglesizzazione non possiamo scappare, ma non c’è nemmeno la necessità di farlo, ciò di cui invece c’è bisogno è che gli inglesismi vengano usati là dove si possono adeguare alla struttura del lingua che li accoglie. Il non saper usare gli inglesismi è proprio ciò che più di tutto infastidisce. Se oggi per le vie di Zagabria o Belgrado chiedete ad un uomo comune cosa è il gay pride, non saprà dirvi cosa significhi, nonostante la parola inglese che identifica la parata delle persone che hanno un orientamento sessuale differente venga usata quotidianamente dai media, perché i giornalisti odiano andare a vedere cosa significhi una qualche parola inglese. Questo tipo di ignoranza sull’uso degli inglesismi soffoca lo spazio pubblico di comunicazione, ma non il fatto stesso che esistano degli inglesismi in questo spazio. Quindi, usate le parole straniere, ma con cognizione di causa.