Serbia, l’eredità viva dei Karakačani
Non solo la pecora ‘karakačanska ovca’, ma anche la mucca “busa”, il maiale “mangulica”, il cavallo “brdski konj”. Varietà animali dai nomi suggestivi e quasi dimenticati, un tesoro di biodiversità che un progetto Slow Food tenta faticosamente di preservare
“In Serbia della ‘karakačanska ovca’, varietà ovina selezionata nei secoli dall’etnia nomade dei karakačani, si erano perse le tracce da decenni: si riteneva del tutto scomparsa dalla Seconda guerra mondiale. Alcuni anni fa, durante una visita nella zona del monte Čemernik, in Serbia meridionale, alcuni abitanti del posto mi parlarono di due sorelle, isolate e un po’ matte, che testardamente continuavano ad allevare ‘strane pecore’ dal vello scuro…”
Così Sergej Ivanov, veterinario di professione, paziente difensore di razze in pericolo e biodiversità per passione, racconta la riscoperta di una delle molte varietà animali che oggi tenta faticosamente di salvaguardare.“Quello della ‘karakačanska’ non è un caso isolato. Spesso a salvare le razze in pericolo sono state persone marginali, testarde, attaccate e piene di rispetto per i propri animali, non di rado considerate senza qualche rotella dalla propria comunità”.
Oggi Ivanov è impegnato in prima persona nella reintroduzione della “karakačanska”, col suo allevamento di circa 260 capi. Ma il suo sforzo non si limita a questo animale, particolarmente adatto alle condizioni climatiche dei Balcani. Nella municipalità di Dimitrovgrad a due passi dalla Bulgaria, dove è nato e cresciuto, Ivanov si batte per tenere in vita una decina di razze altrimenti destinate all’oblio, grazie all’aiuto di alcuni allevatori del luogo. Varietà dai nomi suggestivi e quasi dimenticati, come la mucca “busa”, il maiale “mangulica”, il cavallo “brdski konj”, l’asino “balkansko magare”, il bufalo “domašen bivol”, le pecore “pirotska” e “bardoka” e “krivovirska”.
L’idea di un’azione a salvaguardia delle razze in pericolo prende forma nel 2002, all’interno di un progetto sostenuto dall’allora Istituto federale jugoslavo per le risorse genetiche. L’Ong “Natura Balkanica”, di cui Ivanov è animatore, riceve i primi venti maiali “mangulica” e quattro esemplari di cavallo “brdski konj”. L’inizio è difficile: oltre agli ostacoli tecnici ed economici, c’è da affrontare non poco scetticismo. “Gli agronomi della vecchia scuola non capivano il nostro sforzo di conservazione di una biodiversità preziosa e fragile”, ricorda Ivanov. “Ci dicevano: siete matti, lavorate per reintrodurre specie poco produttive che abbiamo eliminato col lavoro di anni.”
Scetticismo superato anche grazie all’idea di istituire, nel 2003, una Fiera della diversità biologica, che ora si tiene tutti gli anni a Dimitrovgrad, e attira migliaia di visitatori e molti media. Tanto che, nel 2012, la municipalità di Dimitrovgrad ha votato una mozione che fa del territorio municipale un “parco della biodiversità”.
Con gli anni, è aumentato il numero di fattorie che oggi allevano razze in pericolo. “Abbiamo cominciato con un solo allevatore, oggi siamo arrivati a più di quindici”, racconta Ivanov. Per alcuni anni, il ministero dell’Agricoltura serbo ha contribuito con un fondo ad hoc, interrotto nel 2010. “E’ un peccato che i fondi siano stati interrotti, ma allo stesso tempo è incoraggiante constatare che, nonostante lo stop ai contributi, non è diminuito l’interesse ad allevare queste razze tradizionali”.
Lo sforzo coronato da maggior successo è quello legato ad una varietà bovina autoctona, la “buša”, caratterizzata da corna ridotte, stazza contenuta e grande adattabilità ai pascoli della regione. Quasi totalmente scomparsa un decennio fa, oggi in Serbia conta circa 400 capi, di cui buona parte allevati nei villaggi intorno a Dimitrovgrad. La varietà più a rischio, invece, resta la pecora “pirotska ovca”.
Nonostante il successo invidiabile, anche viste le poche risorse a disposizione, molte sfide restano aperte. “La più difficile riguarda la sostenibilità economica”, confessa Dimitrov. “Gran parte della produzione proveniente dalle razze in pericolo, latte e carne, viene venduta come materia prima e non come prodotto finito. Questo rende gli allevatori estremamente deboli sul mercato.” Il futuro, secondo Ivanov, sta nel combinare allevamento, produzione di cibo ed accoglienza turistica. “Aumentare la resa economica per gli allevatori, veri protagonisti di quest’avventura, è la vera carta vincente. Un’eventuale sconfitta di chi alleva, rappresenterebbe una perdita terribile. Non solo per loro, per tutti”.