Serbia: la tutela dei whistleblower tra teoria e prassi

Un dipendente di un’azienda pubblica o privata che rileva delle malversazioni o frodi e le denuncia diventa un whistleblower. Dal 2015 anche la Serbia ha una legge che tutela i whistleblower, ma funziona?

06/03/2017, Milica Stojanović, Dino Jahić - Belgrado

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Illustrazione di Đorđe Matić

(Originariamente pubblicato da CINS il 23 gennaio 2017, titolo originale: Tri sudska procesa za zaštitu jednog uzbunjivača )

Nello stesso giorno in cui in Serbia entrava in vigore la legge sulla tutela dei whistleblower, Marija Beretka, impiegata dell’Ufficio Ispettivo del Comune di Novi Sad, ha sporto una denuncia alla polizia nei confronti dei suoi superiori, sospettati di occultare informazioni sui veicoli parcheggiati in violazione del codice della strada. Da quel 5 giugno del 2015 per lei è iniziato un periodo contrassegnato, oltre che da numerosi problemi sul posto di lavoro, da una lunga, e ancora inconclusa, lotta legale.

È infatti tuttora in corso l’indagine sulle presunte irregolarità denunciate dalla Beretka che, nel frattempo, ha dovuto rivendicare i suoi diritti in ben tre procedimenti penali separati. L’ultima delle pronunce, divergenti tra loro, emesse sul suo caso risale al luglio 2016, quando la Corte d’appello di Novi Sad ha annullato la sentenza con la quale l’Alta corte aveva riconosciuto alla Beretka il diritto a essere riammessa nel posto di lavoro che ricopriva al momento della segnalazione.

Già all’inizio del 2015 Marija aveva iniziato a mettere in guardia i dirigenti dell’Ufficio Ispettivo sulle lacune nell’operato di questa struttura, dopodiché si era vista trasferire, per ben due volte, ad altro incarico. Ciò nonostante, nelle motivazioni delle sentenze emesse dagli organi giudiziari di Novi Sad si afferma che non è possibile determinare il momento esatto a partire dal quale Beretka avrebbe dovuto godere della protezione riservata ai whistleblower, né tanto meno stabilire un nesso causale tra la denuncia da lei presentata alla polizia e il trattamento poi riservatole dai suoi superiori.

Nelle sentenze si legge inoltre che la denunciante ha mancato di dimostrare di aver compiuto un atto di segnalazione interna, mentre l’Alta corte ha persino sostenuto che gli organi di polizia non sono competenti ad accogliere segnalazioni di illeciti da parte dei whistleblower (in questo caso, dipendenti pubblici).

Questo caso dimostra l’esistenza di varie lacune nell’applicazione della legge sulla tutela dei whistleblower, alcune delle quali riscontrate anche nell’operato dell’Alta corte di Belgrado. Tuttavia, gli interlocutori del Centro per il giornalismo investigativo della Serbia (CINS) sostengono che la legge è buona, ma che bisogna aspettare ancora prima che i suoi effetti comincino a farsi vedere.

Snežana Andrejević, giudice della Corte Suprema di Cassazione nonché membro del gruppo di lavoro responsabile della redazione della summenzionata legge, dice che la tutela giurisdizionale dei whistleblower offre la massima garanzia dei loro diritti, ed è per questo che si è deciso di incorporarla nella legislazione pertinente.

Vladimir Radomirović, anch’egli membro del sopracitato gruppo di lavoro e redattore del portale Pištaljka, dice che la legge fornisce un’ottima base affinché le istituzioni inizino a reagire nell’interesse dei cittadini e del bene comune, invece di agire, per motivi legati alla politica o al business, a vantaggio di certi gruppi ristretti.”

Il trasferimento illegittimo

Marija Beretka faceva parte dell’organico dell’Ufficio Ispettivo del Comune di Novi Sad da oltre vent’anni, senza aver mai aver avuto problemi prima del 2015. All’inizio di quell’anno ha richiamato l’attenzione dei suoi superiori su irregolarità riscontrate durante lo svolgimento del suo lavoro di supervisore, che consisteva nell’inviare ai proprietari dei veicoli impropriamente parcheggiati avvisi di convocazione all’ispettorato o solleciti di pagamento di multe.

Come affermato dalla stessa Beretka, i suoi superiori, tra le altre cose, redigevano in modo non conforme alla legge notifiche di sospensione di procedure sanzionatorie, ma le sue ripetute sollecitazioni affinché cessasse tale prassi non sortivano alcun effetto se non quello di generare atteggiamenti sprezzanti nei suoi confronti – i colleghi la chiamavano con nomi offensivi, come infiltrata, alcuni persino interrompendo ogni comunicazione con lei.

“In presenza di queste persone, usavo spesso dire che mi conviene di più insegnare ai miei figli a rubare, piuttosto che ad essere onesti, perché così se la caveranno meglio nella vita. A queste parole mi rivolgevano uno sguardo sprezzante, per poi girare la testa”, ha raccontato Beretka.

Nell’aprile del 2015 è stata trasferita per la prima volta ad un altro posto di lavoro. Non molto tempo dopo, all’inizio del mese di giugno, ha deciso di denunciare tutto alla polizia, dopodiché è stata trasferita di nuovo, questa volta nella Direzione per gli Affari generali. Entrambi i trasferimenti sono stati giustificati con “l’aumentata quantità di lavoro” relativo ai nuovi incarichi assegnatile. Beretka ha manifestato il suo disappunto su tali decisioni, ma la Direzione è rimasta irremovibile.

Il 14 luglio 2015 Beretka ha presentato un ricorso dinanzi al Tribunale di primo grado di Novi Sad, volto all’accertamento dell’illegittimità del suo trasferimento. Sul finire del mese di settembre, il Tribunale si è espresso in suo favore, ordinando la sua reintegrazione nell’originario posto di lavoro. Una decisione confermata anche dalla Corte d’appello.

Vladimir Balaban, direttore provvisorio dell’Ufficio Ispettivo, non ha voluto rispondere alle domande inviategli dai giornalisti di CINS via email né tanto meno alle loro telefonate.

Stesso giudice, sentenze divergenti

Contemporaneamente al ricorso di cui sopra, Beretka ha presentato altre due denunce presso L’Alta corte di Novi Sad. La prima di queste istanze era volta ad ottenere l’emanazione di una misura provvisoria che avrebbe obbligato l’Ufficio Ispettivo a reintegrarla nel suo precedente posto di lavoro finché non sarà concluso il procedimento avente ad oggetto la tutela dei suoi diritti. La Corte ha rigettato l’istanza, ritenendo che non fosse stato dimostrato che l’azione controversa, ovvero la rimozione della denunciante dal suo posto di lavoro, era conseguenza del suo essere whistleblower.

Nello spiegare la sentenza emessa, la giudice Jadranka Mali ha precisato che “segnalare la violazione di una norma alla persona che ne è responsabile non è da ritenersi un primo atto di whistleblowing”, e che la polizia non è “’l’organo competente ad agire sulla base di informazioni contenute nelle segnalazioni di presunti illeciti”. Il 16 settembre 2015 la Corte d’appello ha confermato questa sentenza.

“Si è arrivati alla situazione in cui un giudice sostiene che la polizia non è competente a indagare su presunti reati. Una situazione davvero assurda”, ha detto il caporedattore del portale Pištaljka Vladimir Radomirović, aggiungendo che “è impossibile che un giudice non sappia che in tali casi l’organo competente è la polizia”.

Nonostante sia l’Alta corte che la Corte d’appello avessero ritenuto che la segnalazione interna fatta da Marija Beretka non potesse considerarsi un’azione di whistleblowing, nella legge pertinente non sta scritto da nessuna parte che tale segnalazione debba precedere quella esterna, che consiste nel denunciare presunte irregolarità agli organi competenti.

Nel secondo procedimento avviato presso l’Alta corte su denuncia di Marija Beretka, la giudice Jadranka Mali ha assunto una posizione totalmente divergente, emettendo una sentenza a favore della parte denunciante basata sul ragionamento che, essendosi rivolta alla polizia, Beretka aveva, dopotutto, dato avvio alla procedura di whistleblowing esterno, sicché il trasferimento impostole dai suoi superiori costituisce un atto dannoso. Stando, infatti, a questa sentenza risalente all’aprile 2016, Marija Beretka ha diritto a essere riammessa nel suo originario posto di lavoro, nonché a ricevere un risarcimento pari a 100mila dinari (circa 800 euro).

Tuttavia, il 14 luglio 2016 la Corte d’appello ha cancellato questa sentenza, precisando che la denuncia di illeciti presentata dalla Beretka alle forze di polizia e il suo trasferimento ad altro ufficio non sono collegati tra loro. Con questa decisione il caso è stato nuovamente rinviato all’Alta corte.

Nel frattempo, anche il padrino di Marija Beretka, Zoran Pandurov, ha chiesto di poter avvalersi della tutela giurisdizionale, sostenendo che, avendo appoggiato i suoi sforzi, sia diventato anch’egli vittima di rappresaglia.

254 querele nel primo anno di applicazione della legge

La legge sulla tutela dei whistleblower è stata approvata il 25 novembre 2014, entrando in vigore nel giugno dell’anno successivo. Alla redazione di questo atto normativo ha partecipato un gruppo di lavoro composto da giuristi, rappresentanti del settore non governativo, funzionari statali, nonché dagli stessi whistleblower.

Questo termine si riferisce agli individui che rivelano informazioni su violazioni delle leggi e segnalano fatti illeciti avvenuti all’interno del proprio ambiente di lavoro. Stando alla normativa vigente, i whistleblower hanno diritto alla tutela giurisdizionale nel caso venissero esposti ad azioni discriminatorie, come licenziamenti e atti ritorsivi.

Uno dei rimedi giurisdizionali di cui può avvalersi un whistleblower è quello di far iniziare, mentre è in attesa dell’esito del procedimento volto a tutelare i suoi diritti, un processo penale separato che porti all’emanazione di una misura temporanea volta a porre fine alle azioni discriminatorie nei suoi confronti.

Nel primo anno di applicazione della legge, presso i tribunali serbi sono stati avviati 254 procedimenti giudiziari aventi ad oggetto la tutela dei whistleblower, di cui 163 sono stati conclusi nello stesso periodo di tempo.

Nonostante i giudici scelti per occuparsi di questi casi abbiano ricevuto una formazione speciale, la prassi decisionale è piuttosto disomogenea. Alcuni giudici, tra l’altro, si sono rifiutati, di provvedere all’attuazione di misure di protezione temporanea, affermando, ad esempio, che mancava una correlazione tra la segnalazione di presunti illeciti e il licenziamento di chi l’ha fatta. Anche quando si arriva al ricorso, è raro che i giudici d’appello modifichino giudizi di primo grado.

Irena Garčević, giudice dell’Alta corte di Belgrado, ha detto che dall’entrata in vigore della legge, fino al 31 ottobre 2016, presso questo organo giurisdizionale sono state depositate 20 richieste di misure provvisorie, di cui cinque risultano accolte.

La Garčević ha inoltre precisato che otto richieste di misure provvisorie sono state rifiutate, ma la Corte d’appello ha annullato tre di queste decisioni, in due casi modificando la sentenza di primo grado stando alla quale un whistleblower non può fruire della tutela accordatagli dall’ordinamento se il comportamento discriminatorio nei suoi confronti sia avvenuto prima dell’entrata in vigore della legge.

“La Corte d’appello ha ritenuto che non si trattasse di un’applicazione retroattiva della legge (…) poiché si ha a che fare con azioni discriminatorie i cui effetti si protraggono nel tempo”, ha spiegato la giudice.

Vladimir Radomirović cita, come un esempio negativo, il caso di un whistleblower che si è visto negare la tutela perché la corte ha insistito sul fatto che, nella lettera di licenziamento, il datore di lavoro avrebbe dovuto precisare che il motivo di tale decisione era da ricondurre a whistleblowing.

“Nessun datore di lavoro lo avrebbe mai fatto”, ha affermato Radomirović.

Zlatko Minić, dall’organizzazione Transparentnost Srbije, è del parere che la legge non è fine a se stessa bensì uno strumento utile nella lotta alla corruzione, aggiungendo che è un fatto positivo che esista una normativa a tutela dei whistleblower, ma che occorre prestare maggiore attenzione alla sorte delle denunce avanzate, sulle quali al momento non si dispone di sufficienti informazioni.

Questa pubblicazione è stata prodotta nell’ambito del progetto European Centre for Press and Media Freedom, cofinanziato dalla Commissione europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l’opinione dell’Unione Europea. Vai alla pagina del progetto

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