Serbia, la sinistra che non c’è
"Una società divisa non equivale ad una società polarizzata. Quella serba di certo non è una società polarizzata, perché se lo fosse, ci sarebbero due centri, se non addirittura due strutture assai distinte. Nulla di tutto ciò esiste in Serbia". Intervista Mladen Lazić sociologo dell’Università di Belgrado
(Originariamente pubblicato sul portale Novosti)
In Serbia le proteste contro Aleksandar Vučić si protraggono ormai da mesi. Da un lato ci sono i manifestanti, dall’altro Vučić, cioè il regime. Cosa ci dicono queste proteste? La società serba è una società polarizzata e divisa, oppure quanto sta accadendo è espressione di quel pluralismo sociale che dovrebbe caratterizzare ogni ordinamento statale considerato, almeno formalmente, liberal-democratico?
Una società divisa non equivale ad una società polarizzata. Quella serba di certo non è una società polarizzata, perché se lo fosse, ci sarebbero due centri, se non addirittura due strutture assai distinte. Nulla di tutto ciò esiste in Serbia, ed è proprio la mancanza di elementi ben strutturati a rappresentare uno dei principali punti deboli della vita politica serba. I partiti politici e i loro programmi, obiettivi, tattiche e strategie, sono vagamente definiti, così com’è vaga anche l’idea stessa di appartenenza politica. Le relazioni sono fluide, quindi non può esserci alcuna polarizzazione. Ci sono solo infinite divergenze che continuano ad acuirsi. Un tempo veniva utilizzata una metafora assai banale descrivendo i partiti politici serbi come amebe: si dividono e si scindono più velocemente di quanto non vengano creati.
Chi non è strutturato? La compagine di governo, l’opposizione o entrambe?
Nessuno è strutturato. Il potere è concentrato nelle mani di un’unica persona, quindi non può essere strutturato. La compagine di governo dipende dalle decisioni ad hoc di un singolo individuo, tanto che nemmeno gli organismi interni al principale partito al potere [il Partito progressista serbo (SNS), guidato da Vučić] sono autorizzati a cambiare le decisioni del leader. Quindi, non si può parlare di un potere strutturato, come emerge chiaramente anche dal fatto che proprio nel momento in cui un suo candidato ha ottenuto il più ampio consenso di sempre alle presidenziali, l’SNS si è trovato costretto a rinunciare alla sua vecchia struttura, rivelatasi appunto provvisoria, apprestandosi ad assumere una forma organizzativa diversa.
Si riferisce alla creazione del nuovo movimento annunciato da Vučić?
Esatto.
Secondo lei, perché Vučić ha deciso di seppellire il suo partito e di fondare un nuovo movimento?
Per non rischiare di inventare l’acqua calda, riporto una spiegazione fornita da un analista che ho sentito di recente e che mi sembra accettabile. L’analista in questione è giunto alla conclusione che alle ultime elezioni Vučić aveva raggiunto il suo apice come leader dell’SNS, avendo conquistato la più alta percentuale di consensi possibile, una percentuale che non potrà mai superare né tanto meno mantenere. Quindi, di fronte a questo chiaro presagio di cedimento Vučić ha deciso di abbandonare quella forma di organizzazione politica incarnata dall’SNS e di fondare una nuova organizzazione che, poggiando su basi diverse da quelle dell’SNS, gli permetta di mobilitare i suoi elettori di lunga data e di intercettarne di nuovi allo scopo di ampliare, o almeno mantenere il suo bacino di sostenitori. Tale decisione pragmatica può essere presa solo in una situazione in cui nulla è strutturato. I partiti di solito vengono creati dall’alto verso il basso, mentre un movimento nasce dal basso verso l’alto. Avendo ormai da tempo concluso la costruzione del suo partito dall’alto, Vučić si è trovato costretto a voltare pagina.
Più di dieci anni fa lei scriveva che in Serbia il capitalismo stava ancora nascendo, ossia che non era ancora pienamente sviluppato poiché la borghesia industriale e commerciale stava appena emergendo e lo stato aveva in parte assunto le sue funzioni. Ritiene che nel frattempo in Serbia il capitalismo si sia pienamente affermato?
Il punto sta nella definizione di capitalismo. Tra le varie definizioni esistenti condivido maggiormente quella che nel capitalismo vede un sistema dominato dall’economia di mercato e dal lavoro salariato . Queste sono le principali caratteristiche di un sistema capitalista, non la proprietà privata, che peraltro cominciò ad imporsi solo all’inizio del Novecento. Quindi, ciò che conta è l’esistenza di aziende indipendenti l’una dall’altra che competono sullo stesso mercato per conseguire profitti.
Da noi invece queste strutture basilari del capitalismo non si sono ancora pienamente sviluppate. In Serbia le aziende realmente indipendenti sono di solito quelle straniere, ma anch’esse sono indipendenti solo perché sono protette da accordi e leggi internazionali, oppure da una potenza mondiale che vi si cela dietro. Le aziende serbe invece, anche quando sono di proprietà privata, dipendono dal potere centrale. Come abbiamo potuto vedere recentemente a proposito della proprietà dei media, un leader politico può chiedere al proprietario di un canale televisivo privato di togliere dal palinsesto il suo programma di punta.
Poi quel proprietario dei media toglie dal palinsesto il reality show in questione, vantandosi di aver contribuito così al progresso della Serbia…
Esatto. Si vanta di aver contribuito a rendere la Serbia più civilizzata. Quindi, dal punto di vista dell’economia di mercato, in Serbia il capitalismo non si è ancora affermato. Dall’altra parte, la forza lavoro c’è ed è presente sul mercato, ma solo nella forma dettata dal capitalismo contemporaneo in cui la posizione della forza lavoro è cambiata in maniera rilevante a causa di una nuova organizzazione del lavoro, del diffondersi del lavoro precario, ma anche di una certa nonchalance nel licenziare e nel licenziarsi. Quindi, il lavoro c’è, probabilmente non ce ne è mai stato così tanto come oggi, e di conseguenza c’è anche una forte tendenza, soprattutto in determinati ambienti, a rifiutare certi lavori.
Questa situazione, in ultima analisi, dovrebbe portare ad un aumento del costo del lavoro, o sbaglio?
Il costo del lavoro non può aumentare. Ormai da decenni nei paesi capitalistici più avanzati si registra un costante abbassamento del costo del lavoro legato al processo di globalizzazione, ossia di esternalizzazione di tutta una serie di attività produttive nelle aree dove il costo del lavoro è molto basso. In questo momento non vedo alcun elemento che possa portare ad un aumento del costo del lavoro. Un eventuale aumento può essere conquistato soltanto a livello individuale, non a livello aziendale. Chi vale abbastanza potrebbe eventualmente pretendere di essere pagato meglio.
A questo punto viene da chiedersi se in Serbia il sistema capitalista sia improntato al liberalismo economico oppure si tratti di un capitalismo di stato, che viene utilizzato come mezzo che permette a chi governa di rimanere al potere?
A dire il vero, in nessuna parte del mondo esiste un capitalismo liberale. Questa è un’illusione a cui i neoliberisti ci hanno tenuto ancorati, anche se non tutti si sono lasciati ingannare. L’illusione di un capitalismo liberale parte da Margaret Thatcher, per poi svilupparsi seguendo un’idea che ha assunto grande rilevanza, quella del disimpegno dello stato sul piano interno e, ancora più importante, su quello esterno. Lo stato, come portatore di sovranità, aveva certe prerogative riguardanti il controllo delle aziende straniere. Il capitalismo neoliberista invece pretende di spogliare lo stato di tutte le sue prerogative. È chiaro però che questo tipo di capitalismo non è che un’illusione.
Ha menzionato la tendenza del neoliberismo a ridurre al minimo l’impegno dello stato. In situazioni di crisi però tutti chiedono aiuto allo stato, come emerso chiaramente durante la pandemia da Covid 19 quando in molti paesi ci si aspettava un intervento dello stato in vari ambiti…
Tutti invocano lo stato quando si trovano a dover affrontare certe difficoltà. Negli anni Trenta si chiedeva allo stato di portare la società fuori dalla crisi economica, dopo la Seconda guerra mondiale veniva invocato lo stato sociale per prevenire conflitti sociali che rischiavano di sorgere sulla scia del diffondersi del socialismo e dei cambiamenti nell’est Europa. Lo stato veniva invocato anche dai lavoratori che spesso chiedevano di essere tutelati di fronte al dominio del capitale, così come veniva invocato nel 2007-2008 quando, con il neoliberismo giunto al suo apice, il sistema finanziario statunitense rischiava di crollare. Anche oggi si continua a invocare lo stato, per questo ritengo che l’idea di un capitalismo neoliberista sia un’illusione, illusione che però ha scopi ben concreti.
Un ossimoro che si vende bene…
Non solo si vende bene, ma porta anche benefici. Sul piano interno il neoliberismo permette di destinare migliaia di miliardi di soldi pubblici alla reindustrializzazione. Mi riferisco ad una decisione ufficiale del governo statunitense. Invece sul piano internazionale, le dinamiche neoliberiste emergono con maggiore chiarezza nella guerra russo-ucraina voluta da Putin. Anche qui gli stati sono chiamati a difendere un ordinamento pur di preservare la struttura gerarchica del mondo capitalista che continua a girare intorno agli Stati Uniti.
Torniamo alla Serbia. All’inizio della nostra conversazione lei ha affermato che la Serbia non è un paese strutturato dal punto di vista politico né tanto meno da quello economico, ossia che in Serbia il capitalismo non è un fenomeno strutturato. Quali le conseguenze di questa situazione? Pur trattandosi di uno stato che formalmente gode di legittimazione democratica, si può parlare di un monopolio statale sul piano economico, di una forma di violenza e arbitrio di stato, o addirittura di un sistema antidemocratico?
Tutti i concetti di cui stiamo parlando sono fluidi e negli ultimi anni sono diventati suscettibili di continue ridefinizioni. Mi sembra condivisibile la sua affermazione secondo cui in Serbia formalmente vige un sistema democratico. Nessuna delle tornate elettorali vinte da Vučić e dal suo partito è stata truccata. I risultati hanno sempre rispecchiato abbastanza fedelmente i sentimenti della popolazione ed erano più o meno in linea con le previsioni dei sondaggi d’opinione condotti da agenzie indipendenti. L’esito del voto era espressione della volontà degli elettori, e quindi in questo senso le elezioni erano democratiche.
Tuttavia, un ordinamento è effettivamente democratico solo se esiste una lotta politica strutturata. Devono esserci diversi attori politici ben organizzati che rappresentino interessi sociali ampiamente condivisi, e non interessi di gruppi particolari. In Serbia invece non c’è nessun partito disposto almeno a provare a elaborare una politica rivolta ad un ampio gruppo sociale ben strutturato.
Il potere si comporta come se fosse una buona fata. Quando sorge un problema, una strada allagata, cose del genere, compare il vođa [termine serbo che significa capo, leader, ma anche sovrano; riferimento è al presidente serbo Aleksandar Vučić, criticato da molti per il suo modo di governare autocratico], come un deus ex machina, ci dà un’occhiata, chiede: “Quanti soldi servono?”, poi chiede al ministro delle Finanze: “Ce la faremo?”, il ministro risponde in modo affermativo, e allora il vođa dice: “Avrete una nuova strada tra tre mesi”. Questa non è una politica strutturata, bensì una strategia ad hoc volta a intercettare una fetta dell’elettorato, ed è una strategia sostanzialmente rischiosa. Lo stesso vale per l’opposizione. Le recenti tragedie sono state accolte dall’opposizione come un’occasione propizia per innescare un’azione sociale, e ora che tale azione ha preso forma l’opposizione non sa cosa farsene. Nessun partito di opposizione ne ha la più pallida idea.
Giacché ha menzionato l’opposizione serba e il suo smarrimento, ritiene che le forze di opposizione abbiano qualche idea oltre ai soliti slogan del tipo: “Siamo contro Vučić, Vučić deve andarsene”? L’opposizione saprebbe cosa fare se Vučić un giorno dovesse effettivamente andarsene?
Si verificherebbe lo stesso scenario del 2000: un’opposizione, con una struttura estremamente instabile, che col tempo si è spaccata fino a crollare, perdendo le elezioni [del 2012] da un outsider. Perché Tomislav Nikolić era entrato in quella corsa elettorale come outsider, e l’aveva vinta proprio grazie al collasso interno dell’opposizione che non aveva alcun punto fermo intorno al quale riunirsi. Anche oggi l’opposizione serba non ha alcuna agenda.
Ad esempio, il generale Ponoš [candidato alle presidenziali dello scorso aprile proposto da una coalizione dei partiti di opposizione] non ha un chiaro programma. Sa di essere favorevole alla difesa degli interessi nazionali, ma non sa cosa significhi concretamente tale difesa. Oggi [in Serbia] la difesa degli interessi nazionali si riduce ad una formula molto semplice – “non diamo il Kosovo” – che però è del tutto insensata, non significa nulla. C’è una sola cosa peggiore dell’autocrazia di Vučić ed è il totale tracollo dell’opposizione, che ormai è diventato una condizione permanente. Se fosse una condizione temporanea, non sarebbe tanto grave, ma l’opposizione serba è al collasso praticamente dalla fine dell’Ottocento.
Se per un attimo volgessimo lo sguardo a sinistra…
… ci troveremmo di fronte ad un vuoto.
Molti intellettuali di sinistra parlano della lotta di classe. Secondo lei, ha ancora senso parlarne? Trattandosi di un concetto di vecchia data, la classe può ancora essere considerata una valida categoria analitica?
Non vorrei darle una risposta evasiva. In quasi tutti i miei libri mi occupo delle classi sociali nella nostra regione. E qui torniamo al punto di partenza, ossia alla definizione. A mio avviso, la classe deve essere intesa nel suo duplice significato, come struttura e come azione.
Per poter parlare di classi dal punto di vista strutturale, devono essere soddisfatti tre requisiti: distribuzione del potere e delle risorse politiche, distribuzione del potere e delle risorse economiche e distribuzione del potere e delle risorse formative. Là dove ci sono gruppi suddivisi principalmente secondo questi criteri si può parlare di una società di classe, un fenomeno ancora oggi presente ovunque nel mondo, compresa la Serbia.
Il problema però sorge sul piano delle condizioni d’azione. In assenza di tali condizioni una classe non può definire un’agenda di base per stabilire azioni e obiettivi politici comuni. Sono quei contadini nella Francia del Settecento di cui parla Marx, paragonandoli a sacchi di patate, ognuno per sé. Il modo di produzione [capitalistico] è tale da portare ad un isolamento dell’individuo, impedendogli di instaurare rapporti con altri individui e di comprendere che la sua posizione è simile a quella degli altri e che un’azione comune porterebbe ad un miglioramento delle condizioni di tutti.
Non crede che oggi la classe operaia stia vivendo questa stessa esperienza?
È proprio questo il punto. A differenza dei contadini, [ai tempi di Marx] gli operai erano in grado di compattarsi. C’erano grandi fabbriche, molte persone lavoravano nello stesso luogo, quindi non era difficile creare un’organizzazione sindacale e poi magari anche politica, così come non era difficile dar vita a varie forme di solidarietà e di consapevolezza della condizione altrui, incoraggiando così l’idea di sostegno reciproco e lotta comune. L’imporsi del nuovo modo di produzione neoliberista ha spazzato via queste dinamiche.
Anche oggi alcuni processi produttivi si svolgono nello stesso luogo, all’interno della stessa fabbrica, però è solo una piccola parte della produzione. La maggior parte della produzione si svolge altrove, in un’altra città, un altro paese, o un continente. È molto difficile, se non del tutto impossibile, per un operaio in Malesia o in Est Europa che produce una componente di un prodotto essere solidale con un operaio nelle Filippine che realizza un’altra componente dello stesso prodotto. I legami di solidarietà sono stati completamente distrutti. Poi ci sono nuove forme di lavoro che, per loro natura, implicano la totale solitudine del lavoratore.
Una quindicina di anni fa, lei affermava che in Serbia non c’era alcuna organizzazione che potesse legittimamente autodefinirsi di sinistra. Oggi invece la situazione è cambiata?
Nemmeno oggi ci sono organizzazioni di sinistra. Un tempo ce n’era qualche traccia tra gli studenti. Devo però precisare che per me la sinistra è solo
iò che è anticapitalistico. La socialdemocrazia invece appartiene alla sinistra liberale, non a quella classica. Per me l’unica vera sinistra è quella radicale. Nella nostra regione tale sinistra esiste solo in Croazia, seppur in forma frammentaria. Mi riferisco a Katarina Peović e a quel piccolo gruppo di persone che ha riunito intorno a sé. Lei sa benissimo qual è la portata politica di questo gruppo, che però resta la più autentica espressione della sinistra da queste parti.
In Serbia ci sono solo alcuni individui, come il mio collega Jovo Bakić che ad un certo punto aveva deciso di impegnarsi, affermando di voler creare un vero partito di sinistra. Alla fine però non ha fatto nulla. Poi c’era Borko Stefanović, il quale aveva fondato un partito di sinistra, per poi scendere a patti con i liberali di destra, quelli di Đilas. La sinistra è ormai diventata una sorta di badge per conquistare consensi, ma riesce ad attrarre così pochi elettori che non vale la pena indossarlo.
Come e intorno a quali idee oggi potrebbe essere costruita una politica di sinistra?
Intorno a quella che è sempre stata l’idea guida della sinistra, vale a dire l’idea di protesta e di resistenza a tutti i livelli. Senza una resistenza e un’insistenza radicale nel mettere in luce le insormontabili contraddizioni del capitalismo non avverrà mai alcuna svolta. Credo che oggi il capitalismo sia lacerato da contraddizioni interne talmente radicali da non potere sopravvivere nei modi che conosciamo.
Nonostante la sua fine sia attesa da tempo, il capitalismo continua a sopravvivere. Sembra un fenomeno assai flessibile…
È vero, però le condizioni in cui sopravvive stanno diventando sempre più radicali. Se finora abbiamo parlato di capitalismo riferendosi ai singoli stati, oggi parliamo di un capitalismo globale. Le condizioni di sopravvivenza a livello globale si differenziano in modo drastico da quelle a livello statale. Il capitalismo necessariamente implica una forma di regolamentazione, statale o globale, oppure tutte e due insieme.
Innanzitutto vi è la regolamentazione globale violenta, come quella incarnata dal sistema di dominio degli Stati Uniti, che definiscono la politica monetaria e fiscale, controllano la distribuzione della produzione e dei servizi, decidono quali sistemi politici sono accettabili e dove, pur di avere sempre a disposizione una forza lavoro a basso costo, anziché incoraggiare la democrazia, vengono sostenuti i dittatori che retribuiscono i lavoratori con salari che giovano all’economia statunitense. Tuttavia, questo tipo di regolamentazione è sempre meno sostenibile, considerando l’attuale competizione tra Cina e Stati Uniti, che potrebbe estendersi anche agli altri attori. Un sistema di regolamentazione globale alternativo è quello incentrato sulla regolamentazione internazionale consensuale attraverso le organizzazioni con le Nazioni Unite. Gli Stati Uniti però non permetteranno mai che venga instaurato tale sistema, ossia che un’organizzazione internazionale definisca il tasso di cambio del dollaro.
Prima ha affermato che una nuova politica di sinistra dovrebbe essere imperniata sulla protesta e sulla resistenza. Allora cosa accadrebbe se i fautori di tale politica dovessero salire al potere? Non possono mica protestare contro se stessi…
La protesta e la resistenza sono un mezzo per mobilitare i cittadini intorno ad un programma. Ad esempio, durante una protesta, intesa come espressione del malcontento, possono emergere alcune idee programmatiche, che poi alcuni gruppi coinvolti nel movimento di protesta cercano di plasmare, sistematizzare e collegare in modo da poter poi diffonderle in maniera organizzata all’interno del movimento. Tali dinamiche si sono verificate in alcune epoche storiche e in alcuni paesi. L’esempio più sorprendente è quello del Partito socialista negli Stati Uniti.
Simile scenario si è verificato in Francia con Mélenchon che, pur non appartenendo alla sinistra radicale, ha funto da ponte verso una politica alternativa. Lo abbiamo visto anche in Grecia con Syriza, in Spagna con Podemos, qualcosa di simile sta accadendo in Brasile e in alcuni altri paesi dell’America Latina. Non si può ancora parlare di una protesta anticapitalista, ma piuttosto di azioni che potrebbero preparare il terreno per l’emergere di tale protesta. Temo sia poco probabile che tutte queste azioni vengano unite per dar vita ad un grande movimento. Però non ci resta che sperare.
Mladen Lazić è un noto sociologo. Professore emerito della Facoltà di Filosofia dell’Università di Belgrado. Si è laureato a Belgrado, ha conseguito il dottorato a Zagabria, dove ha lavorato presso l’Istituto per la Ricerca Sociale, e più di 30 anni fa ha lasciato l’Istituto per la Facoltà di Filosofia di Belgrado. È membro dell’Accademia Europea delle Scienze e delle Arti. Ha attirato l’attenzione del pubblico a metà degli anni ’80 quando ha pubblicato i libri "Verso una società chiusa: riproduzione di classe nel socialismo" e "Capitalismo in evoluzione". Dopo la disgregazione della Jugoslavia, ha pubblicato, tra l’altro, "Sistema e crollo: dissoluzione del socialismo e della società jugoslava" e "Aspettando il capitalismo: l’emergere di nuovi rapporti di classe in Serbia". Nella sua carriera scientifica si è occupato di ricerca di classe e cambiamenti sociali e politici in Serbia dopo la disgregazione della Jugoslavia. Lazić appare raramente in pubblico, è un uomo di sinistra ed è molto critico nei confronti della sinistra.