Serbia: il miraggio della democrazia post-rivoluzione

Osservando il 5 ottobre 2000 come uno spartiacque, è possibile tracciare analogie e differenze tra il regime di Milošević e quello di Vučić tenendo conto delle sfide di una democrazia post-rivoluzionaria? Un’intervista con Nebojša Vladisavljević, professore alla Facoltà di Scienze Politiche di Belgrado

20/10/2025, Stefan Slavković -
Studenti protestano a Belgrado, Serbia © Dejan82/Shutterstock

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Studenti protestano a Belgrado, Serbia © Dejan82/Shutterstock

(Originariamente pubblicato da Radar, il 5 ottobre 2025)

Nel suo libro “Uspon i pad demokratije posle Petog oktobra” [Ascesa e declino della democrazia dopo il 5 ottobre], lei ha definito la democrazia in Serbia come “una parentesi tra due autoritarismi”. Oggi è ricorrente l’idea che il regime del Partito progressista serbo (SNS) ci abbia riportati indietro al periodo precedente alla svolta del 5 ottobre. Ritiene valida quest’ipotesi? Non sarebbe forse più corretto affermare che stiamo rivivendo il settembre del 2000?

Il 5 ottobre ha segnato uno spartiacque nella storia politica della Serbia, permettendo la costruzione di una società democratica, l’avvio di riforme economiche e l’apertura del paese al mondo. Negli anni immediatamente successivi, gli scontri politici sono sempre stati risolti attraverso le elezioni e all’interno delle istituzioni politiche, nonostante il peso dell’eredità del regime di Milošević e il persistere di una politica identitaria pericolosa.

In quel periodo la Serbia era una giovane democrazia funzionale, simile a quelle dell’Unione europea. Oggi la situazione è sostanzialmente diversa, l’SNS ci ha riportati all’autoritarismo.

Le somiglianze tra il regime di Milošević e quello di Vučić sono evidenti. Stiamo parlando di un autoritarismo moderno, che implica un sistema multipartitico, senza però elezioni eque e libere. Un sistema caratterizzato da una sistematica violazione della libertà dei media e dalla tendenza ad abusare delle risorse pubbliche a vantaggio della leadership al potere, danneggiando così l’opposizione.

Si tratta di regimi basati sul potere, lontani da qualsiasi ideologia, dove le decisioni di peso dipendono dai capricci di un solo uomo e il sistema di governo, anziché sul rispetto della Costituzione e delle leggi, poggia su una logica di corruzione e clientelismo pervasivi.

Ad accomunare il regime di Milošević e quello di Vučić è anche il grado di repressione contro gli oppositori politici. Non ci resta che sperare che non si ripetano gli omicidi politici che hanno caratterizzato gli ultimi due anni del regime di Milošević.

Il sociologo Danilo Mandić sostiene che nel corso della storia non si sia mai riusciti a rovesciare un regime autoritario senza il coinvolgimento dei voltagabbana. D’altra parte, l’attuale fronte democratico chiede il rispetto dello stato di diritto, che però implica una certa forma di lustrazione. Ragionando sul periodo successivo al 5 ottobre, c’è chi afferma che oggi stiamo assistendo ad una recrudescenza dell’autoritarismo proprio perché dopo la svolta del 2000 in Serbia non è mai stato avviato un vero processo di lustrazione a livello politico, ma anche giudiziario. Ritiene che sia possibile costruire una democrazia senza i cosiddetti voltagabbana ed evitando di cadere nella trappola del revanscismo?

Fughe più massicce dei funzionari di un regime non democratico verso la fazione opposta – come anche i dissidi all’interno della leadership al potere tali da portare alla vittoria dell’opposizione – solitamente si verificano nei regimi burocratici e in quelli controllati da partiti forti in termini organizzativi e di risorse umane.

È irrealistico aspettarsi che questo accada in un regime personalistico dove da anni ormai si assiste ad una distruzione sistematica delle istituzioni dello stato e di un repulisti tra i funzionari che mostrano un minimo di autonomia, e quindi rappresentano un ostacolo al potere illimitato di un uomo e della sua famiglia.

Negli ultimi mesi abbiamo visto diminuire la capacità gestionale dell’attuale regime. Questo declino legato proprio ad un sistema di potere personale che, anziché sulla competenza e l’esperienza professionale, si fonda sulla lealtà e su un sistema di governo arbitrario.

Le proteste di massa non hanno fatto altro che accelerare un processo già in atto. A portare alla caduta dei regimi personalistici sono grandi movimenti sociali e ampie alleanze di forze sociali e politiche. Poi la repressione radicale solitamente provoca divisioni all’interno del settore della sicurezza, rendendo più veloce un cambio di potere.

Il revanscismo dopo la caduta di un governo non democratico non è una soluzione. È sufficiente che il nuovo potere garantisca tutte le condizioni necessarie affinché la procura e i tribunali possano indagare e perseguire senza ostacoli gli abusi di potere e la corruzione estrema. Nel frattempo, occorre rimuovere dalle istituzioni statali chi in passato ha sistematicamente violato i diritti umani.

Nel suo libro, tra le grandi questioni su cui si è divisa la società serba negli anni Duemila, lei cita l’omicidio di Zoran Đinđić, l’estradizione di Slobodan Milošević all’Aja, la dichiarazione d’indipendenza del Kosovo. Fino a qualche tempo fa, l’SNS ha cercato di appropriarsi dell’eredità di Đinđić, Milošević ancora viene presentato come un leader anticoloniale, mentre nel territorio del Kosovo, la Serbia ha ormai perso tutte le prerogative di uno stato. Come commenta questa situazione?

L’SNS si è appropriato del programma dei partiti democratici nel tentativo di conquistare consensi al di fuori del nocciolo duro – e maggiormente sciovinista – del proprio elettorato. Una volta salito al potere, il partito di Vučić ha adottato una politica nazionale conciliante pur di ottenere il sostegno internazionale. Poi si sono concentrati sul controllo di tutte le istituzioni e le aziende pubbliche, sfruttando in modo sistematico le risorse statali per soddisfare le esigenze personali e quelle del partito. A queste dinamiche si è aggiunta poi anche una cooptazione clientelare dei partiti delle minoranze nazionali.

I tabloid di regime continuano ad instillare idee scioviniste nel nucleo radicale dei sostenitori di governo, al contempo attaccando gli oppositori. Nel frattempo, la leadership di Belgrado sta smantellando quel sistema di autonomia informale nel nord del Kosovo che i serbi hanno ostinatamente difeso per anni.

Prima hanno sostituito tutti i leader locali indipendenti con criminali e lealisti, per poi cedere il controllo del nord alle autorità di Pristina e alle forze speciali albanesi. Oggi, il governo guidato dall’SNS funziona come una banda criminale, totalmente estranea a qualsiasi ideologia, patriottismo e perseguimento di interesse pubblici.

Nell’ottica della leadership al potere, lo stato non è che uno strumento di controllo e arricchimento personale a spese dei cittadini onesti. E chi osa denunciare gli abusi di potere diventa vittima di minacce e ritorsioni.

Ritiene valida l’ipotesi secondo cui siamo ostaggi del mito del 5 ottobre, come se si fosse trattato di un episodio isolato? Gli sviluppi degli ultimi anni forse sono riusciti a spingerci ad osservare la caduta del regime di Milošević come un evento arrivato dopo un decennio di mobilitazioni?

Il 5 ottobre è solo il culmine delle grandi ondate di proteste che, sin dai primi anni Novanta, hanno ripetutamente causato gravi crisi di regime, indebolito il sostegno alle autorità, rafforzato i partiti di opposizione e la società civile, alla fine portando alla caduta del regime antidemocratico.

Oggi assistiamo ad una tendenza analoga. Dal novembre del 2024 proseguono le proteste di una portata e di un’intensità senza precedenti in Europa negli ultimi decenni. Proteste che non sarebbero stare possibili senza le basi gettate dalle precedenti ondate di mobilitazione: dalle manifestazioni organizzate con lo slogan “Uno dei cinque milioni”, proseguite anche durante la pandemia, alle proteste scoppiate dopo le stragi avvenute nella scuola “Ribnikar” e nel villaggio di Dubona, passando per la mobilitazione contro l’estrazione del litio.

Le proteste di quest’anno hanno portato ad un drastico calo di sostegno al partito di governo, aumentando la popolarità dei suoi oppositori, in particolare del movimento studentesco. Oltre ai sondaggi d’opinione, lo confermano anche la portata, la durata e il quadro variegato delle proteste. Di conseguenza, la leadership al potere non è più capace di governare il paese senza ricorrere a metodi repressivi e gravi violazioni della legge.

Un quarto di secolo fa, c’era un orizzonte di aspettative: la caduta del regime di Milošević ci avrebbe permesso di entrare nell’UE e di risolvere tutte le questioni aperte. Anche oggi è diffusa una narrazione analoga, però Vučić continua a collaborare con l’Occidente. E, cosa ancora più importante, l’Occidente continua a scendere a compromessi con Vučić. Qual è l’attuale orizzonte di speranza in Serbia?

Il contesto internazionale è cambiato in modo significativo. Ai tempi di Milošević, le grandi potenze occidentali hanno incoraggiato la democratizzazione, mentre oggi scendono volentieri a patti con autocrati di vario tipo.

Da anni ormai Vučić compra il silenzio dei paesi occidentali con progetti per lo sfruttamento del litio, acquisizione di aerei da combattimento costosissimi di cui non abbiamo bisogno e il passaggio del Kosovo settentrionale sotto la competenza delle autorità di Pristina. Allo stesso tempo, lascia mano libera alle aziende cinesi e russe per fare quello che vogliono.

Dobbiamo combattere per la democrazia da soli, mi auguro attraverso le elezioni. La tradizione di resistenza all’autoritarismo e un’ampia opposizione civica contro il regime sono i presupposti imprescindibili per una futura conquista democratica. Poi dobbiamo rapidamente recuperare il passo, impegnandoci al massimo per integrarci politicamente ed economicamente nell’UE.

Da un recente sondaggio è emerso che, nonostante un calo di sostegno all’adesione del paese all’UE (33% a favore, 44% contro), tra i cittadini serbi cresce il sostegno alla democratizzazione della società e dello stato. Come commenta questi risultati? La democratizzazione è possibile senza valori europei dichiarati? Il calo del sostegno all’adesione è dovuto principalmente alla propaganda di regime, oppure dipende anche da altri fattori?

Anni di intensa propaganda da parte degli esponenti di spicco dell’élite al potere e dei tabloid di regime contro l’UE e a favore di Russia e Cina hanno certamente contribuito alla mancanza di interesse dell’opinione pubblica serba per l’integrazione europea. A peggiorare il quadro, l’instabilità politica ed economica dell’UE, ma anche diverse polemiche tra i paesi occidentali, oltre ovviamente all’ascesa economica e politica della Cina.

Una mobilitazione di massa, capace di coinvolgere gli strati più ampi della società, contro la corruzione dilagante e il sostegno al ripristino dei principi democratici sono di fondamentale importanza per un processo di avvicinamento duraturo all’UE. Sventolare bandiere dell’UE durante le proteste non sarà di grande aiuto. Similmente a quanto accaduto dopo il 5 ottobre, la costruzione della democrazia dovrebbe andare di pari passo con un cambio di politica estera che sia in linea con gli interessi del paese, ossia con un avvicinamento accelerato verso l’UE.

Uno degli indicatori dell’erosione della democrazia è la sfiducia degli studenti nella democrazia rappresentativa, che però nel periodo 20002012 era riuscita a prendere piede con maggiore forza rispetto al periodo precedente, per poi subire un declino dopo l’ascesa di Vučić al potere. Cosa avremmo dovuto fare in quei dodici anni per creare una democrazia più resiliente?

Gli studenti considerano la democrazia diretta e deliberativa attraverso assemblee e plenum come un mezzo aggiuntivo di partecipazione politica, non come un sostituto della democrazia rappresentativa. Lo conferma anche la principale richiesta avanzata dagli studenti, quella di convocare elezioni anticipate. Nell’opporsi all’autoritarismo dell’SNS nessuna forme di partecipazione va sottovalutata.

Quanto al periodo successivo al 5 ottobre, non dobbiamo dimenticare che i partiti democratici hanno creato e rafforzato le istituzioni democratiche nonostante il peso dell’eredità del regime di Milošević: istituzioni politiche e pubbliche crollate, una situazione economica difficile, confini fluidi e la questione irrisolta del Kosovo.

Poi c’è il declino globale della democrazia. Persino nei paesi, come l’Ungheria, che godono di una posizione molto più vantaggiosa rispetto alla Serbia, si assiste al crollo della democrazia e ad una nuova ascesa dell’autoritarismo.

In Serbia il fallimento principale dei partiti democratici è legato alla tendenza dell’élite politica, emersa verso la fine del primo decennio del nuovo millennio, di concentrarsi non tanto sulla democrazia quanto sui disaccordi interni sull’integrazione europea e sulla questione del Kosovo.

Col tempo, il potere esecutivo ha iniziato anche ad immischiarsi nell’operato di altri rami di potere, diffondendo clientelismo e influenzando i media. Queste dinamiche, pur non essendo comparabili a quelle attuali, hanno facilitato il ritorno al potere dei partiti del regime precedente, che in pochi anni hanno distrutto le istituzioni democratiche, restaurando un governo autoritario.

Dal segretario generale del Partito radicale serbo (SRS), ripetutamente sconfitto alle elezioni per il sindaco di Belgrado, noto per le sue dichiarazioni controverse e atteggiamenti famigerati all’epoca in cui era ministro dell’Informazione, Vučić è diventato un leader che detiene tutte le leve del potere in Serbia. Come ci è riuscito?

Mentre Tomislav Nikolić guidava l’SNS verso la vittoria alle elezioni presidenziali e politiche, Vučić è stato sconfitto alle amministrative a Belgrado con uno scarto del 10%. Ciononostante, evidentemente desideroso di godere dei vantaggi del potere, Nikolić ha deciso di lasciare a Vučić la guida del partito e il compito di occuparsi delle questioni politiche più pressanti.

Vučić ha subito approfittato della situazione per emarginare l’ex leader dell’SNS, impiegando tutte le risorse pubbliche per migliorare la propria reputazione e per mettere a tacere l’opposizione e i media indipendenti. Con la scusa della lotta alla corruzione, si è impadronito di tutte le istituzioni, utilizzando i beni pubblici per soddisfare i propri interessi e quelli del partito.

Una delle caratteristiche salienti degli anni Novanta è stata una collaborazione duratura, seppur turbolenta, tra le varie forze di opposizione. Oggi, invece, le forze anti-regime sono sostanzialmente divise in due schieramenti che al momento sembrano inconciliabili: da un lato gli studenti, dall’altro i partiti di opposizione. Si può arrivare ad un cambio di potere senza una qualche forma di collaborazione tra studenti e opposizione? Forse la mancanza di alleanze analoghe può essere un vantaggio nella battaglia per la democrazia?

Mesi di proteste hanno portato ad un drastico cambiamento negli equilibri di potere sulla scena politica, tra governo e opposizione, ma anche all’interno dell’opposizione stessa. I partiti di opposizione, che hanno guidato la resistenza negli anni Novanta, ora hanno lasciato agli studenti il compito di guidare il movimento democratico.

D’altra parte, l’assenza di una leadership all’interno del movimento studentesco e il carattere anonimo dei plenum hanno contribuito a rafforzare l’opposizione al governo antidemocratico. E quest’ultimo nei primi mesi delle proteste ha fatto ricorso ad una repressione selettiva.

Ora però stiamo entrando in una nuova fase di crisi politica in cui è necessaria la cooperazione di tutti. Non si tratta solo di preparare le elezioni anticipate, ma anche di resistere a una repressione sempre più radicale. Da mesi ormai tutti gli attori del movimento democratico collaborano con successo, organizzando manifestazioni di proteste in tutto il paese e partecipando insieme alle elezioni comunali. Manca solo una collaborazione tra i vertici del movimento studentesco e i leader dell’opposizione.

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