Serbia: i nodi al pettine

"Il razzismo di oggi contro i richiedenti asilo è solo una continuazione del nostro vecchio razzismo contro bosniaci, albanesi e croati". Il duro commento del giovane intellettuale Miloš Ćirić sulle recenti dimostrazioni contro i migranti in Serbia

17/12/2013, Miloš Ćirić -

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Questo articolo è stato originariamente pubblicato il 29 novembre 2013 dal portale Peščanik.net

Il razzismo dei nostri cittadini, che prima hanno bloccato la strada ad un autobus pieno di richiedenti asilo e poi bruciato le case in cui avrebbero dovuto essere ospitati, non è una novità. Sonja Biserko è nuovamente sottoposta alla gogna mediatica, questa volta perché ha annunciato che testimonierà alla Corte Internazionale di Giustizia nel processo per genocidio contro la Serbia. I rom che vivono in un ghetto di Zemun Polje, t[]izzati dai loro vicini, non fanno più notizia. Quanto alla notizia che in Serbia sono state assassinate 41 donne nei primi dieci mesi del 2013, ci annoia e basta. Tomašica, la più grande fossa comune in Europa [recentemente scoperta in Bosnia Erzegovina, ndt], che nasconde un numero inimmaginabile di civili assassinati e sepolti in nome della Serbia, non ha meritato nemmeno un titolo di prima pagina.

Il Primo Ministro Ivica Dačić ha promesso alla famiglia Bitići che farà tutto il possibile per indagare sull’omicidio dei tre fratelli. La stessa persona, commentando i recenti gravi incidenti con i richiedenti asilo, ha dichiarato che la Serbia "non è un paese razzista". Il vice Primo Ministro Aleksandar Vučić, da parte sua, è un uomo molto occupato. Nessun episodio di razzismo può scalfire la sua positività, nonostante del razzismo sia stato portavoce per anni. Ora vede tutto con gli occhiali rosa.

Personaggi semi-mitologici come il Commissario per la tutela della parità Nevena Petrušić e l’Ombudsman nazionale Saša Janković concedono stanche e sporadiche apparizioni, ma non hanno alcuna influenza su niente e nessuno, e soprattutto non vorrebbero mai disturbare nessuno. I partiti politici d’opposizione, sempre che esistano, sono principalmente impegnati a praticare l’arte della sopravvivenza tramite il mimetismo e l’acclamazione di Vučić. La società civile, qualunque cosa essa sia, è confinata in Internet, ad inviare sempre più rari comunicati stampa, alibi per la mancanza di azione.

L’eredità degli anni ’90

Il caso dei richiedenti asilo è solo l’ultima di una lunga serie di conseguenze della politica bellica degli anni Novanta, fatta di pulizie etniche e genocidi. Non abbiamo mai guardato negli occhi questo male iniziale, che abbiamo lasciato crescere e generare tanti altri mali più piccoli o più grandi. Ecco perché non c’è spazio per la sorpresa se stiamo diventando sempre peggio, se bruciamo case progettate per ospitare persone più vulnerabili di noi, persone a cui non consentiamo neppure di procurarsi il cibo.

Molti di noi si chiedono, quando esattamente siamo diventati così? Quando abbiamo smarrito le tracce della civiltà a cui dovremmo appartenere? Quando ci siamo arresi?

Ci sono molte date che possono essere individuate come "quel momento", ma citeremo solo le più ovvie, a partire dal 9 e 23 dicembre 1990.

Slobodan Milošević è eletto presidente della Serbia il 9 dicembre. L’affluenza è del 72%, il 65% dei cittadini (circa 3,3 milioni) vota per lui. Il 23 dicembre, il suo Partito Socialista Serbo vince il 77,6% dei seggi in parlamento.

Poi ci sono il 18 novembre 1991, quando i serbi conquistano Vukovar in Croazia. Il 5 aprile, inizio dell’assedio di Sarajevo. L’11 luglio 1995, culmine del genocidio di Srebrenica. L’ottobre 1998, inizio della pulizia etnica degli albanesi del Kosovo. Il 12 marzo 2003, giorno dell’assassinio del Primo Ministro Zoran Đinđić.

Razzismo

Il razzismo di oggi contro i richiedenti asilo è solo una continuazione del nostro vecchio razzismo contro bosniaci, albanesi e croati.

Il modo in cui trattiamo ogni minoranza più debole di noi è solo segno della nostra profonda insoddisfazione per le sconfitte militari sofferte negli anni novanta. Il nostro orgoglio malato si basa su quello che siamo riusciti a nascondere: le vittime che ancora non sono state contate, sparse in fosse comuni sia nella regione che in Serbia. Siamo convinti che il mondo ci odia, che siamo vittime di processi iniqui all’Aja, eternamente vittime degli altri.

Allo stesso tempo, non osiamo esaminare le nostre mani, le mani con cui abbiamo votato e ucciso, e ci chiediamo perché il mondo esterno potrebbe disprezzarci.

La nostra frustrazione, esacerbata dalla desolazione in cui viviamo, non trova spazio per sfogarsi. Così, in assenza delle vecchie vittime, ne troviamo di nuove: rom, persone LGBT, richiedenti asilo, donne e bambini.

La guerra è tornata, la stessa guerra per una Grande Serbia etnicamente pura che era stata condotta per nostro conto da parte delle stesse persone al potere oggi. Non ci rivoltiamo contro questo odio, ora riversato sui richiedenti asilo, perché non ricordiamo, o riconosciamo, il male che abbiamo già fatto. Poiché non abbiamo ancora affrontato i vecchi crimini, ne accumuliamo costantemente di nuovi.

I diritti delle vittime

Combattere per i diritti delle vittime e stare al loro fianco, non importa quanto disdicevole possa sembrare, è l’unico modo per combattere questo male. Ma, vergognosamente, pochi personaggi pubblici stanno dalla parte delle vittime. La nostra vera sconfitta è il fatto che il numero di queste persone è, infatti, trascurabile. Affrontare il male che abbiamo compiuto, e che è ancora a piede libero nella nostra vita quotidiana, è il primo passo verso il cambiamento che la nostra società dovrebbe fare.

Purtroppo, chi potrebbe avere un’influenza decisiva nel favorire questi cambiamenti, l’élite politica, sta dalla parte opposta. In parlamento ci sono i legittimi rappresentanti del peggio che è in noi.

Sui social media in questi giorni abbiamo condiviso la famosa poesia del pastore luterano tedesco Martin Niemöller, che ammoniva che i nazisti sarebbero tornati a prendere chi era rimasto a guardare in silenzio mentre gli altri venivano perseguitati. Ma la nostra interpretazione di questa poesia è troppo blanda: ci mette ancora una volta nella posizione delle vittime, come noi immaginiamo di essere.

Quello che non cogliamo è il terribile colpo di scena: i nazisti, quelli che vengono a prendere gli innocenti, siamo noi.

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