Serbia: gli ultimi pescatori del Danubio

Lungo il Danubio vi sono ancora pescatori che vivono vendendo poi il pescato nei mercati ed ai ristoranti. Ma inquinamento, dighe e deregolamentazione incombono sul futuro del settore

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Srdjan - Laurent Geslin/CdB

(Pubblicato originariamente da Le Courrier des Balkans il 4 settembre 2017)

Srđan non ha mai immaginato avrebbe condotto questa vita. E’ rientrato a Golubac, sua città natale presso le Porte di ferro, dopo che è fallita l’azienda in cui lavorava, a Belgrado. Il rituale è lo stesso ogni sera: mettere un po’ di benzina nel motore della barca, osservare le correnti del Danubio e calare le reti augurandosi che le temperature estive scendano un poco in modo che lucci, carpe e siluri abbandonino il fondale del fiume. “Occorre uscire tutto l’anno, due volte al giorno, per guadagnarsi quanto serve a sopravvivere. E’ un lavoro pesante, ma non mi vedevo fare altro… il Danubio fa parte della mia vita”.

Sulla riva nord, la Romania. Ad est le sagome dei battelli s’adagiano sulle mura merlate della fortezza di Golubac, piazzaforte ambita da tutti gli invasori che si sono succeduti nella regione, lì nel punto in cui il fiume si fa più stretto e più profondo. Anche sull’acqua esistono frontiere ed i serbi devono stare attenti a non navigare sul versante rumeno, ormai sotto il controllo dell’Unione europea. Rischiano il sequestro della barca e dei materiali di lavoro.

Laurent Geslin/CdB

Sino a quindici anni fa i pescatori professionisti in Serbia erano più di 2000. Ma una riserva ittica sempre più impoverita, la deregolamentazione del mercato e l’innalzamento delle tasse hanno avuto presto ragione di questo mestiere tanto antico quanto l’arrivo di comunità nei pressi del Danubio. Ormai non si contano che 320 professionisti in tutta la Serbia e nessun giovane vuole seguire l’esempio dei padri. “Nessuno controlla il numero di pesci pescati nella parte serba del Danubio, né il quantitativo del venduto”, sottolinea Dragoljub Ristić, presidente dell’Unione pescatori professionisti del Danubio. “Chiunque può gettare una rete o lanciare un amo, senza però pagare le tasse che devono sopportare i professionisti. Ci siamo rivolti in più occasioni alle autorità ma nessuno ci da ascolto”. La voce di uno dei rari professionisti del settore che tentano di resistere pesa ben poco rispetto a quella dei 70.000 titolari di un permesso di pesca, una lobby che tutti i partiti politici cercano di accaparrarsi nelle tornate elettorali.

D’altronde questi “amatori” non lo sono davvero. In una paese dove al disoccupazione è ufficialmente attorno al 20% della popolazione attiva e dove i bassi salari non permettono di sopravvivere, la vendita illegale di pescato è un buon modo per arrotondare. Questa “uberizzazione” della pesca mette in pericolo anche la sopravvivenza di alcun specie, già messe i forte difficoltà dalla diga delle Porte di ferro, nel 1972. “In passato gli storioni del Mar Nero risalivano fin quassù ma ormai sono bloccati dalla centrale idroelettrica”, racconta desolato Srđan. “E anche il pescato di altre specie è in continua diminuzione”. Come gli altri 27 pescatori di Golubac vende la maggior parte dei pesci ai ristoranti ma, per aumentare i propri margini e rispondere alla forte domanda, molti ristoratori ripiegano sul pangasio d’allevamento, importato dal Vietnam, facendolo passare per pesce del Danubio. E i pescatori si ritrovano contro quindi un’altra potente lobby, quella degli importatori.

Di fronte alla deregolamentazione del mercato i pescatori serbi chiedono al governo di aumentare i controlli e che venga accordato ai pescatori professionisti uno statuto fiscale privilegiato, come quello di cui godono altri mestieri artigiani. “Vorremmo organizzare una grande corsa a piedi dalla sorgente al delta del Danubio, per sensibilizzare le comunità rivierasche al rispetto dell’ambiente”, sogna Dragoljub Ristić. “Il Danubio non è solo ciò che ci fa vivere ma è la spina dorsale del continente europeo, è un fiume lungo il quale si sono sviluppate grandi civiltà. Non possiamo permettere di farlo morire”.

Laurent Geslin/CdB

Dalla dissoluzione jugoslava e la caduta dei regimi comunisti in Europa dell’est la maggior parte delle grandi fabbriche lungo il Danubio hanno chiuso e questo ha permesso una diminuzione sensibile dell’inquinamento delle sue acque. Ormai però lo sviluppo incontrollato del turismo e delle attività nautiche rappresentano un pericolo equivalente.

All’alba Srđan è risalito sulla sua barca per raccogliere le reti gettate la sera prima. Dalla primavera all’autunno i pescatori serbi del Danubio hanno diritto solo a lavorare dalle 4 del pomeriggio alle 8 del mattino. Le prime luci del mattino illuminano le pale degli immensi impianti eolici costruiti sulle colline che contornano la riva rumena. “Basta che le acque del fiume gelino o che le temperature siano troppo elevate per renderci impossibile pescare. Occorre quindi affidarsi al poco tempo che ci rimane”. In media i pescatori professionisti serbi lavorano 130 giorni all’anno. “Fatta eccezione per la motorizzazione, il nostro lavoro non è molto cambiato da centinaia d’anni ma non so quanto a lungo saremo in grado di trasmettere i metodi tradizionali della pesca”, racconta Srđan accendendosi una sigaretta con la mano libera, mentre l’altra batte a ritmo sulla superficie dell’acqua con l’aiuto di un pezzo di legno intagliato. Il suono che si diffonde nell’acqua infastidisce i siluri e li fa risalire verso la superficie. “Una delle tecniche molto antiche, che vengono dalla Russia”, sottolinea lui.

Quella sera rientra a mani vuote: vi sono giorni in cui i pescatori sono meno abili delle loro prede. Sono giorni in cui l’acqua che scorre non porta serenità. Il futuro è fosco per gli ultimi pescatori della Serbia.

In viaggio

L’associazione Viaggiare i Balcani promuove da anni viaggi alla scoperta del Danubio. Il più recente è stato dedicato alla zona del Delta. Un diario di viaggio

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