Serbi uccisi in Libia: mistero fitto

Slađana Stanković e Jovica Stepić, due dipendenti dell’ambasciata serba in Libia, sono stati prima rapiti e poi uccisi. Nell’assenza di risposte ufficiali convincenti sull’accaduto, restano solo ipotesi e dubbi

10/03/2016, Antonela Riha - Belgrado

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Slađana Stanković e Jovica Stepić

L’unica cosa certa è che Slađana Stanković e Jovica Stepić, impiegati all’ambasciata serba in Libia, sono giunti in Serbia in una bara. Fin dal giorno del loro rapimento, l’8 novembre 2015, tutte le informazioni sul loro destino sono oscure, incomplete e contraddittorie.

Quel giorno erano in un convoglio di mezzi a seguito dell’ambasciatore della Serbia in Libia Oliver Potežic che da Tripoli si stava dirigendo verso Tunisi. Nella dichiarazione rilasciata ai media l’ambasciatore ha detto che l’intera vicenda si è svolta “come in un film”. Con la consorte e i due figli di 14 e 8 anni l’ambasciatore si trovava nella prima vettura, mentre nella seconda c’era l’autista Jovica Stepić e Slađana Stanković.

Nell’imboscata sono intervenute almeno due auto, è stato inscenato un incidente, Stepić è uscito dalla vettura per verificare cosa fosse successo, alcuni assalitori incappucciati lo hanno preso e messo nella loro auto e poi, come riportato dall’ambasciatore Potežic all’agenzia Tanjug, “hanno chiesto gentilmente a Slađana Stanković di scendere dalla vettura e di salire sull’altra e sono subito spariti”.

C’è stata anche una sparatoria quando la scorta dell’ambasciatore ha cercato di fermare gli assalitori e un libico, parte della scorta, è rimasto ferito. L’ambasciatore insieme con la famiglia e il resto della scorta si è poi rifugiato, come ha precisato lui stesso, “in una casa di un amico libico, leader di una tribù locale, che ci ha offerto piena protezione e che collabora con noi, dove poi sono arrivati subito il sindaco e il comandante della sicurezza di Sabratah”.

Il giorno seguente l’ambasciatore Potežic ha dichiarato che una persona era stata arrestata, mentre dal ministero degli Esteri si affermava che dai funzionari libici erano state ricevute garanzie che i due funzionari rapiti sarebbero rientrati nell’arco di 48 ore, il che, come precisato, significava che i rapitori erano stati localizzati.

Nel frattempo si è saputo che Slađana Stanković era già stata rapita una volta, nel maggio 2015, ma i rapitori l’avevano rilasciata dopo poche ore. Ufficialmente questa notizia non è mai stata confermata né smentita.

Il tentativo di liberazione

Nei giorni successivi al rapimento le notizie sono state scarse, mentre le speculazioni crescevano. Ai media è stato comunicato che gli agenti dell’intelligence serba (BIA) e del ministero degli Esteri erano arrivati in Libia, che non era stato chiesto alcun riscatto per i rapiti e che Slađana e Jovica erano vivi.

Il ministro degli Esteri Ivica Dačić il 17 febbraio 2016 ha poi dichiarato che il governo serbo non era mai entrato in contatto con i rapiti e nemmeno coi rapitori.

Tre giorni più tardi, il 20 febbraio, i media in Libia hanno riportato la notizia che i due cittadini serbi rapiti erano rimasti uccisi durante un bombardamento dell’aviazione americana a Sabratah. Come confermato dal Pentagono e riportato dai media serbi, l’obiettivo dell’attacco aereo erano i miliziani dell’ISIS. L’intento era quello di eliminare il leader dei t[]isti, un certo Nuredin di origine tunisina, noto come Sabir.

Quando il giorno stesso il premier serbo Vučić ha confermato questa notizia, le spiegazioni che ha fornito sulla vicenda non hanno minimamente chiarito le numerose domande sorte da quando Slađana e Jovica sono stati rapiti.

Il premier ha dichiarato che “il rapimento non è accaduto per caso”. Il motivo però non lo ha precisato ma ha indicato come il maggior responsabile del rapimento un certo Ahmed Dabashi, detto Amon, che collaborerebbe a stretto contatto con l’ISIS e noto come trafficante di persone. “A capo della famiglia Dabashi vi è un uomo molto potente, che era avversario di Gheddafi, da qui il suo atteggiamento nei confronti della Serbia”, ha precisato il premier Vučić. La Serbia infatti, sin dai tempi della Jugoslavia di Tito, aveva sempre mantenuto strette relazioni politiche, militari ed  economiche con il regime di Mu’ammar Gheddafi, fino alla sua caduta e uccisione.

"La Serbia – ha aggiunto il premier – insieme con l’intelligence della Russia, dell’Austria, della Repubblica Ceca, di Malta, così come con la CIA e l’FBI, ha cercato di liberare i due cittadini serbi rapiti. Ci sono stati contatti con entrambi gli schieramenti del potere in Libia e da parte dei seguaci di Gheddafi era stato offerto di attaccare quella che si pensava fosse la sede dei rapitori". Secondo il premier inoltre era stato richiesto un sacco di denaro per la loro liberazione, infine c’era stato anche un incontro con “un uomo molto pericoloso”. Ma – ha poi precisato il premier – il 90% delle informazioni che avevamo ricevuto erano del tutto inutilizzabili.

Senza riposte

Il premier Aleksandar Vučić, però non ha risposto alle domande sul tipo di lavoro che svolgevano i due funzionari dell’ambasciata uccisi. Nelle prime notizie Slađana Stanković era presentata come addetta stampa, poi ufficiale di collegamento, e sempre più spesso definita semplicemente come una funzionaria. I sospetti invece sul fatto che il motivo del rapimento sia legato al traffico d’armi, su cui hanno scritto nel frattempo i media, così come la notizia che sull’auto in cui c’erano i due funzionari vi fosse una grande quantità di denaro, sono stati risolutamente smentiti da Vučić.

Le domande che ancora non trovano risposta sono: perché la Serbia ha comunque mantenuto l’ambasciata a Tripoli dove si trova la sede del governo libico non riconosciuto dalla comunità internazionale e perché allo stesso tempo ha mantenuto contatti anche con il governo di Tobruk, riconosciuto internazionalmente, cosa che avrebbe potuto dare fastidio ai rivali di Tripoli? Il governo ha argomentato che in Libia si trovano circa 250 cittadini serbi che lavorano in varie aree del paese e per questo era necessaria quest’ambivalenza ma la risposta non convince a sufficienza considerando anche che è cosa nota che l’ambasciatore Potežic e gli impiegati dell’ambasciata avevano chiesto alcuni mesi fa che l’ambasciata venisse chiusa.

La loro lettera di richiesta è “filtrata” attraverso i media e ha fatto sospettare che lo stato avesse un particolare interesse a mantenere la rappresentanza diplomatica a Tripoli, nonostante da quella città fossero già stati evacuati i diplomatici dei paesi occidentali.

Senza risposta è rimasta anche la domanda sul perché l’ambasciatore con i funzionari al seguito stava andando a Tunisi. Per quel tragitto, come si è saputo in seguito, e notizia mai smentita, l’ambasciatore non aveva alcun ordine di missione da parte del ministero degli Esteri né tanto meno è stata rispettata la procedura per gli spostamenti in Libia. L’imboscata e il rapimento sono avvenuti in una regione sulla strada costiera che porta a Tunisi, ad una sessantina di chilometri ad ovest di Tripoli, nota come zona in cui operano alcuni gruppi armati locali collegati con il governo dell’“Alba libica” ma anche con l’ISIS, e dove di recente vi sono stati altri rapimenti.

Chi è responsabile?

Il fulcro delle polemiche che sono sorte dopo la pubblicazione della notizia della morte di Slađana Stanković e Jovica Stepić è stato indirizzato ai rapporti tra Serbia e Stati Uniti e sulle speculazioni che siano stati uccisi durante il bombardamento aereo summenzionato. Il premier ha ribadito che “è stato confermato sulla base di alcune fotografie che son stati uccisi durante l’attacco aereo, da bombe americane che attaccavano l’ISIS”.

Sono arrivate però immediate le smentite da Washington. Peter Cook, portavoce del Pentagono, ha precisato: “Le nostre forze hanno osservato quel campo per settimane, prima dell’operazione aerea, e nel momento dell’attacco non c’era alcun indizio che rivelasse la presenza di civili”.

E mentre si aspettano i rapporti ufficiali sulla vicenda preannunciati sia dagli Stati uniti che dal ministero degli Esteri serbo, un’ulteriore precisazione l’ha fornita l’ambasciatore degli USA a Belgrado Kyle Scott: “Il luogo che è stato colpito dall’aviazione non è lo stesso che ci ha fornito l’intelligence serba e dove pensava fossero tenuti in ostaggio i due funzionari”.

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