Serbi e russi, prigionieri tra le Alpi

Migliaia di prigionieri serbi e russi furono condotti a lavorare sul fronte alpino durante il primo conflitto mondiale. Le relazioni con la popolazione locale interrogano più ampiamente sulla guerra novecentesca e sulla solidarietà dal basso

17/12/2021, Marco Abram -

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La strada dei serbi - foto OBC Transeuropa

E’ una delle tante storie poco note che si muovono tra l’Italia, il sud-est Europa e le regioni più orientali del continente, quella delle migliaia di prigionieri trasferiti per centinaia di chilometri fino alle Alpi e distribuiti dal Passo del Tonale alla Marmolada durante la Grande guerra. Impiegati dalle autorità austro-ungariche come lavoratori coatti, furono sfruttati per plasmare il territorio e sostenere lo sforzo bellico dove il fronte con l’Italia si sviluppava in alta quota. Erano soprattutto soldati dell’esercito serbo e di quello russo (quest’ultimo, in particolare, rispecchiava la composizione multinazionale dell’impero zarista). In seguito si unirono ad essi squadre di rumeni e, con ogni probabilità solo per l’ultimo anno di guerra, di italiani; questi erano generalmente trasferiti lontano da queste linee, non di rado a lavorare proprio in Serbia, Romania o Montenegro.

Le tracce di questa presenza fugace ma pervasiva non mancano nelle memorie individuali e collettive della popolazione locale, nella toponomastica e nella morfologia del paesaggio: molte sono oggi raccolte in una mappa interattiva che, per quanto incompleta, offre un inedito sguardo di insieme. Solo negli ultimi anni, grazie ai primi lavori di alcuni storici e storiche, i contorni della vicenda sono divenuti più chiari. Si tratta di una storia emblematica: tutte le grandi potenze in guerra – non solo l’Austria-Ungheria – utilizzarono i prigionieri in lavori legati alle operazioni belliche, infrangendo i divieti imposti delle convenzioni internazionali firmate solo pochi anni prima (all’Aia nel 1899 e 1907). Il destino di questa moltitudine di uomini distribuiti su tutto il continente porta a interrogarsi sui percorsi attraverso i quali la Grande guerra aderì rapidamente e, a seconda delle valutazioni, più o meno integralmente al modello di “guerra totale”. Invita a riflettere su quanto nell’esperienza delle compagnie di lavoro – inviate dai governi negli angoli più remoti, sfruttate e alla mercé delle guardie in un contesto di crescente deregolamentazione – si possa già ritrovare compiutamente la guerra novecentesca: onnivora e spesso incurante delle distinzioni tra militare combattente, civile o “nemico” inerme. Dalle montagne del Trentino, dove i prigionieri morivano al lavoro, per gli stenti, il freddo, la fatica e l’esposizione ai combattimenti, la risposta sembra essere in tal senso.

Sul fronte alpino, i prigionieri erano impiegati a servizio delle postazioni, dediti soprattutto al trasporto di munizioni, armi, materiali e rifornimenti verso le prime linee in alta quota. Inoltre, lavoravano massicciamente alla costruzione e alla manutenzione di strade, ferrovie e teleferiche. Una parte di essi venne adibita anche ad attività non direttamente legate allo sforzo bellico, soprattutto nella gestione e nella coltivazione delle campagne, orfane degli uomini inviati al fronte. Quest’ultima evoluzione fu graduale, in quanto favoriva una contaminazione tra sfera civile e militare considerata problematica dalle autorità, ma diverse fonti riportano casi in cui i prigionieri finirono a vivere nelle stesse case dei contadini locali.

Tale prossimità si rivelò effettivamente un’esperienza inedita rispetto alle guerre precedenti, come raccontano le testimonianze locali che è possibile oggi rintracciare. Ogni tipo di contatto non strettamente necessario era condannato dalle autorità e i richiami alla popolazione furono costanti durante tutta la guerra, evidenziando oltre all’ossessione per il controllo interno, anche la persistenza delle relazioni. Ciò pone alcune questioni non prive di rilievo: l’atteggiamento dei civili verso i prigionieri rafforzò o intaccò l’ordine morale e militare imposto dalle autorità? Condizionò i risultati dello sforzo di “costruzione del nemico”? Limitò oppure assecondò il processo di deterioramento della condizione dei prigionieri e l’evoluzione totalizzante del conflitto? Domande sul ruolo dei civili in guerra che sarebbero risuonate più volte nel corso del Ventesimo scolo.

Prigionieri di guerra russi impiegati nei lavori sulla Rosengartenstraßen, sotto le cime dolomitiche, nel 1916 – Public domain (https://www.europeana.eu/de/item/9200291/bildarchivaustria_at_Preview_4811095)

Sentimenti di diffidenza e ostilità verso i prigionieri serbi e russi erano certamente presenti tra la popolazione civile rimasta in Trentino durante la guerra (decine di migliaia di civili furono allontanati dalle loro case). Prima di tutto vi erano ragioni di sopravvivenza, dettate dalla drammatica concorrenza per le risorse che contraddistingueva un territorio attraversato dal fronte, dove la stessa popolazione soffriva privazioni particolarmente severe. Riportano le note di una donna dell’epoca:

[…]le patate sono molto belle, ma ci sono molti aventori che le raccolgono ormai, sono i soldati e i prigionieri russi che vano per campagna a cavarle e sono appena generate  e viene da piangere a vedere tanto strapazzo e tutti sene lamentano” (Fanni Dallepiatte)

I furti di cibo, che potevano avvenire in casa o, più spesso, direttamente negli orti e nei campi, rappresentavano un problema ricorrente e particolarmente sentito. Tali tensioni si innestavano, inoltre, sugli immaginari negativi relativi ai paesi di provenienza dei prigionieri diffusi tra la popolazione, prodotti o rafforzati dalla propaganda di guerra. E’ interessante notare che se i prigionieri russi venivano in diversi casi descritti con parole compassionevoli, per quanto riguarda i prigionieri serbi risultano testimonianze che impiegano aggettivi come “cattivi” o “di aspetto feroce e sfrenato”. Scriveva Don Donato Perli nel suo diario nel novembre del 1915: 

Oggi arrivano qui per Campiglio 500 prigionieri serbi. Portano una divisa simile a quella dei russi. Se i russi hanno un aspetto bonario, i serbi invece di furberia e selvatichezza”

E’ possibile si tratti degli effetti di una propaganda che imputava alla Serbia la responsabilità per lo scoppio della guerra, mentre altre testimonianze suggeriscono di non considerare tali tipizzazioni statiche e univoche, ma in evoluzione a seconda dei contesti e dell’esperienza diretta. Ciò che è certo è che in tutta Europa, come hanno dimostrato alcuni studi, il conflitto stava producendo un’estremizzazione dell’immaginario della prigionia, che vedeva i civili consapevoli delle sofferenze subite dai propri cari in divisa caduti in mano nemica, e che determinò in diversi casi una maggiore accettazione dell’erosione degli standard di trattamento dei prigionieri da parte delle opinioni pubbliche dei paesi europei.

D’altra parte, le testimonianze nei diari e nelle memorie riportano anche le numerose espressioni di solidarietà e gli atti di sostegno concreto, esemplificati soprattutto dalla cessione di cibo o indumenti:

[Nel cantiere] lavoravano anche i prigionieri serbi. Quando noi figlie andavamo a Bondo a trovare papà ci veniva spontaneo dare qualche pezzo di pane ai serbi, li vedevamo così affamati, ma le guardie austriache ci sgridavano (Mariarosa Rizzonelli).

E’ venuto sulla nostra porta un russo, sfinito da far pietà ed ha stesa la mano supplicandoci… Che cosa dargli, se non abbiamo nemmeno il necessario per noi? Mi sovvengo che ci sono due patate lesse, due di numero in un piatto. E corro a portargliele. Proprio in quel momento appare sul pianerottolo un ufficiale: “Che cosa fa, signorina? Mi dice in tedesco, questi è un nemico!” “Io non ho nemici!” gli rispondo (Anna Menestrina).

Non tutte le relazioni si limitavano a singolari gesti di umanità. Alcune testimonianze invitano ad approfondire gli scambi culturali tra prigionieri e civili, soprattutto laddove il contatto era quotidiano come nelle campagne e in alcuni cantieri. Ha ricordato una testimone all’epoca bambina:

[il prigioniero] si sedeva su quei due gradini in legno che dalla cucina portavano in poggiolo e ci parlava in russo e ci capivamo benone, pensate voi! Ci faceva vedere le immaginette sacre che portava sempre in tasca e anche le fotografie dei suoi figli e di sua moglie”(Maddalena Chiocchetti.)

Tra gli elementi di convergenza culturale più ricorrenti emergono sicuramente i sentimenti religiosi, che accomunavano la popolazione locale e i prigionieri al di là della diversa confessione cristiana, ortodossa o cattolica. Sono diverse le testimonianze di questo tono:

In chiesa facevano il segno della croce in senso contrario e si prostravano su pavimento secondo l’usanza ortodossa; mi sembravano così profondamente religiosi e, poverini, sempre così affamati” (Elisa Coser).

D’altra parte, la consapevolezza della crescente drammaticità della condizione di prigionia, in un conflitto che stava dilaniando l’Europa come mai prima, poteva diventare veicolo di solidarietà, nella speranza che lo stesso trattamento fosse garantito ai trentini in divisa austro-ungarica prigionieri in Russia dai civili locali:

[tra i prigionieri] ci sono persone civili studenti padri di famiglia che forse in paese erano persone onestissime industriose, con una famiglia che amavano teneramente. Ora e per tanto tempo staccati con tante sofferenze e privazioni! E che sarà dei nostri che pur sono prigionieri colà [in Russia]? Troveranno cuori umani che allevino almeno le sofferenze del lungo esilio?” (Daniele Speranza).

Un ultimo aspetto che vale la pena di ricordare riguarda le relazioni affettive instaurate tra i prigionieri di guerra e le donne del luogo. Come in tutta Europa, la guerra determinò un passaggio significativo per i rapporti di genere, soprattutto nelle campagne. In assenza di padri, mariti e fratelli le donne divennero le prime responsabili della produttività e si ritagliarono maggiori, per quanto precari, spazi di autonomia. L’intrecciarsi di relazioni sentimentali con i prigionieri fu duramente stigmatizzato e perseguito, ma sono emerse le prime fonti che raccontano di amori, di figli, di promesse di matrimonio e persino di decisioni da parte dei prigionieri di restare a guerra finita.

In una guerra che stava producendo una mobilitazione “totale” nei vari paesi coinvolti, i limiti posti a questo processo pongono molte questioni. Una ricognizione preliminare degli atteggiamenti mostrati dalla popolazione evidenzia come questi potessero differenziarsi a seconda della posizione sociale, del contesto e delle sue evoluzioni. Quanto la solidarietà dal basso sia stata effettivamente diffusa e che possibilità di impatto concreto abbia avuto sulle azioni delle autorità e sulle condizioni dei prigionieri è difficile da valutare senza indagini più approfondite. Sembra tuttavia importante riscoprire questa ulteriore pagina di umanitarismo dal basso da parte dei civili, come tassello di una storia che avrebbe contraddistinto, al fianco di quella delle diffuse violenze, l’intero ventesimo secolo.

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