Sarajevo Peace Event: la solidarietà come anticorpo

E’ un “evento di pace” ed ha aperto le celebrazioni del mese del centenario dell’inizio della Prima guerra mondiale. Quasi 6.000 persone hanno partecipato dal 6 al 9 giugno al “Sarajevo Peace Event”. Un reportage

11/06/2014, Andrea De Noni - Sarajevo

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Sarajevo Peace Event 2014

(Tratto da Le Courrier des Balkans , pubblicato originariamente il 9 giugno 2014)

“Non abbiamo niente a che vedere con il programma ufficiale di Sarajevo nel cuore d’Europa”, sottolinea Bernard Dreano, uno degli organizzatori, responsabile del Centro di studi ed iniziative di solidarietà internazionale (CEDETIM) di Parigi, “e tengo molto a sottolinearlo: d’altro canto, non ci hanno per nulla sostenuto”.

La ragione, secondo Bernard, è molto semplice. Nelle conferenze e nei workshop si parla molto di guerra. Della guerra in Palestina, della guerra in Ucraina e – chiaramente – del conflitto degli anni ’90 nell’ex Jugoslavia e questo non rientra per nulla nella visione degli organizzatori delle commemorazioni “ufficiali”.

“Il loro obiettivo è quello di venire a Sarajevo per parlare di pace. Non vogliono analizzare il passato, non si vogliono interrogare sui problemi del presente. Vogliono solamente visitare Sarajevo per qualche giorno per dire come si sta bene in quest’Unione europea d’oggi, finalmente pacificata… Non si tratta altro che di autocongratulazioni, di un’illusione propagandistica di pace europea…”

Per un mese intero Sarajevo ritroverà il suo spazio su tutti i quotidiani del mondo e il nome della città sarà, una volta ancora, legata ad un conflitto. Occorre evidentemente rassegnarsi. “Il secolo che è cominciato qui a Sarajevo è stato un secolo di crimini e distruzioni”, sottolinea Mairead Maguire, pacifista militante irlandese, premio Nobel per la pace nel 1978. E’ stata invitata al Sarajevo Peace Event. Secondo Ivo Komšić, sindaco di Sarajevo, “è necessario fare di questa città un centro di pace, cent’anni dopo l’inizio della Prima guerra mondiale”.

Se ci si riflette, è vero che questa città ha conosciuto un destino ingiusto. Il nome Sarajevo è divenuto sinonimo di guerra senza che la città abbia mai tentato di provocarne una sola. I colpi e le granate sono arrivate sempre da fuori. Perché allora l’Europa dovrebbe venire qui a commemorare le tragedie del ventesimo secolo? Di questo tragico ventesimo secolo portano responsabilità le cancellerie europee. E’ là che si dovrebbero avviare riflessioni: a Berlino, a Londra, a Parigi, a Mosca o Roma.

Essere pacifisti oggi

Il Sarajevo Peace Event ha avuto il grande merito di aver portato qui, nella capitale bosniaca, migliaia di persone dal mondo intero. E questo non è avvenuto senza problemi. “Non abbiamo fatto alcuna selezione delle attività proposte” ammette Bernard. “La qualità degli interventi è stata molto variabile. Vi sono tra i partecipanti molti idealisti, apostoli della non-violenza che sono venuti qui solo per predicare il loro vangelo, ma per fortuna vi sono anche giovani militanti molto preparati, molto seri, che provano a parlare delle loro esperienze”.

Il marchio di fabbrica del Peace event sembra essere stato quello di un certo caos. In questi tre giorni era molto difficile riuscire a partecipare agli eventi a cui ci si era proposti di prendere parte. A volte erano gli stessi organizzatori a non sapere più dove tenevano i loro seminari… Ho dovuto rinunciare alle conferenze che mi interessavano di più per seguire i dibattiti sulla repubblica democratica del Congo o sul processo di pace in Palestina.

Questa confusione ha le sue virtù: sabato mattina ho fatto conoscenza con Freddy Mulongo, militante congolese, fondatore di Réveil FM international, obbligato a fuggire dal suo paese e che ora vive in Francia. Poi ho potuto parlare con alcuni militanti di Gezi Park in Turchia e Euromaidan in Ucraina, della primavera araba in Tunisia, senza dimenticare gli amici dei plenum bosniaci di Tuzla e Sarajevo…

Questa è forse la scoperta più interessante che è stata fatta giorno dopo giorno, poco a poco, da un dibattito all’altro: il pacifista, oggi, è sempre meno un militante che si occupa di far terminare le guerre tra stati o differenti forze armate. Al contrario mi ritrovo a parlare con persone che lottano innanzitutto contro le persecuzioni di cui è responsabile il loro stesso governo. La “pace” nel 2014 non è più la colomba bianca con il ramoscello d’ulivo. E’, piuttosto, un concetto attivo, che include le nozioni di giustizia, di diritti sociali, di solidarietà. Il pacifista moderno è, innanzitutto, qualcuno che cerca di far valere i suoi diritti di fronte al proprio governo. L’isolamento di questi militanti e la loro debolezza non diminuiscono la legittimità della loro lotta.

Faccetta nera

Benché questa lotta possa sembrare idealista o naïve, mantiene tutta la sua attualità, anche nel 2014. Domenica sera, dopo essere tornato a casa, ricevo una telefonata da mia sorella, che vive ancora nella mia città natale in Italia. “Non ci crederai” mi dice “ma alla nostra festa di paese, 5 minuti fa, hanno suonato Faccetta nera”. Al telefono è ancora sotto choc. Faccetta nera è una canzone popolare italiana dell’epoca della conquista fascista dell’Etiopia, nel pieno del mito della virilità latina (mai confermata) che s’accompagna al razzismo del colonialismo italiano (bene documentato, perlomeno dal punto di vista storiografico).

Durante la guerra d’Etiopia gli italiano introdussero pratiche militari poi divenute tristemente diffuse durante il XX secolo, tra questi l’abitudine a trattare gli abitanti civili dei villaggi come obiettivi militari o ancora l’utilizzo di armi di distruzione di massa (il gas) contro popolazioni disarmate.

Quindi, a casa mia, in Italia, in una festa di paese, nessuno sembra più sapere cosa significhi Faccetta Nera. Questa propensione all’oblio collettivo non è esclusivamente italiana. La destra estrema e radicale sta avanzando in tutta Europa. Eppure abbiamo studiato la storia. La pace, nel 2014, è sicuramente un tema sul quale tutto il mondo dovrebbe concordare. Forse questo è il risultato della crisi economica. Siamo tutti belli e buoni finché le nostre pance sono sazie, abbiamo un lavoro e qualcuno che ci ama. Ma togliete tutto questo e sarà più difficile ricordare le cose che noi tutti dovremmo conoscere bene: per esempio che il rispetto dell’essere umano è fondamentale e che nessuna violenza o discriminazione è mai giustificata. “A volte mi dico che se c’è qualcosa che abbiamo in comune è quella di essere soli”, mi dice Valeria, una delle militanti che ho icontrato al Sarajevo Peace Event. La presenza di questi idealisti nella capitale bosniaca produce degli anticorpi di fronte a questo individualismo sempre più aggressivo e a questo silenzio crescente e ostile che ci circonda.

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