Sarajevo, la musulmana

Sarajevo non è la città di un tempo. Non ci sono più decine di migliaia dei suoi abitanti, alcuni l’hanno tradita, altri l’hanno lasciata. Ma non si può colpevolizzarla per questo. Lentamente ritorna alla vita, come dopo un terremoto

08/04/2015, Azra Nuhefendić -

Sarajevo-la-musulmana

Sarajevo, febbraio 2015 (Foto Fabio DiEvangelista)

“Sarajevo è musulmana”. C’è chi lo afferma, chi te lo domanda, chi lo rimprovera, oppure accusa. Qualsiasi cosa sia, negli ultimi venti anni questa dichiarazione si ripete e ogni volta provoca polemiche.

È vero, oggi la maggioranza degli abitanti di Sarajevo è costituita dai musulmani bosniaci. I dati esatti non si conoscono. Bisogna aspettare i risultati del censimento, fatto nel 2013, il primo e l’unico dopo la guerra, per capire come stanno esattamente le cose.

Essere una città dove prevalgono i musulmani non è un male di per sé, e non c’è nulla di cui vergognarsi, né di cui scusarsi. Sarajevo è la più grande città della Bosnia Erzegovina, qui l’atmosfera e lo spirito islamico si sentono più fortemente che altrove, ma questo non significa che la città sia musulmana.

L’affermazione “Sarajevo è musulmana” suona altisonante. Chi lo dice, difatti, accusa la città di essere clericale, non laica, non democratica, non europea.

E tutto questo non è vero.

La popolazione di Sarajevo è molto cambiata negli ultimi venti anni, in particolare durante la guerra. Ma non solo perché è diminuito il numero dei non-musulmani. Almeno un terzo degli abitanti che vivevano lì prima della guerra, oggi non ci sono più. Si è ridotto il numero dei serbi, dei croati, degli ebrei, dei rom… Ma anche decine di migliaia di musulmani sarajevesi sono altrove. Delle cinque case dei miei parenti più stretti, oggi a Sarajevo ne è rimasta una.

Prima della guerra, i serbi costituivano un terzo della popolazione cittadina (157.143, oppure il 29,81%). Oggi, secondo le stime, ne sono rimasti circa quarantamila.

Venti anni fa a Sarajevo vivevano 34.873 croati, il 6,61% della popolazione. Oggi ce ne sono circa 16.500. Quelli che si sentivano e dichiaravano jugoslavi erano 56.470, oppure il 10,71% della popolazione. Oggi ci vuole coraggio per dichiararsi jugoslavo (non solo in BiH, ma in tutta l’area ex jugoslava), perché si rischia di essere classificato come jugonostalgico, il che è un’etichetta prossima all’alto tradimento.

Di recente Nenad Janković, in arte “Dr. Nele Karajlić”, ha ripetuto che “a Sarajevo non ci torna se prima non rientrano i duecentomila serbi espulsi”.

Nenad Janković era uno dei principali protagonisti del mitico spettacolo televisivo “Top lista Nadrealista”. Adesso fa parte del gruppo rock (quello nuovo, creato a Belgrado) “No Smoking Orchestra”.

Sarajevo, marzo 2015

Sarajevo, febbraio 2015 (Foto Fabio DiEvangelista)

Janković scappò da Sarajevo a Belgrado due-tre giorni prima dell’inizio della guerra. Da Belgrado parlava male della sua città natale, diceva che Sarajevo non era mai stata una città multietnica, multireligiosa e che le amicizie, la tolleranza e il vivere insieme era tutto falso e inventato.

Quelli che, come Nenad Janković, criticano l’assenza dei non musulmani a Sarajevo, infatti, incolpano i sarajevesi di aver fatto la pulizia etnica e religiosa.

Sarajevo oggi è (anche) musulmana, ma non perché i bosniaci sarajevesi hanno fatto la pulizia etnica e non perché i cittadini di religione islamica hanno distrutto la propria società di lunga tradizione multiculturale e multireligiosa.

La “pulizia”, secondo i fatti e le testimonianze, fu fatta in modo diverso.

1992: la fuga da Sarajevo

I primi serbi che lasciarono Sarajevo alcuni giorni prima dell’inizio della guerra, nell’aprile 1992, furono quelli che sapevano, perché avevano avuto delle informazioni segrete, che stava per scoppiare un attacco sulla città.

Il partito dei serbi bosniaci, SDS, aveva diffuso in gran segreto, tra i suoi membri e i serbi di fiducia, la notizia che stava per cominciare la battaglia per Sarajevo, e aveva loro suggerito di “mettersi al sicuro per una decina di giorni”. Quel tempo, si credeva, sarebbe bastato per prendere Sarajevo, e si consigliava di fare ritorno quando tutto si sarebbe calmato.

Credo che anche molti non-serbi di Sarajevo si sarebbero messi al sicuro se avessero avuto questa informazione.

Quando capimmo cosa stava succedendo, però, era ormai tardi. Sarajevo era già assediata e lasciare la città era molto difficile e pericoloso.

L’iniziale fuga dei serbi da Sarajevo fu un’amara sorpresa per i non serbi. I nostri fino a ieri amici, colleghi, vicini, conoscenti, avevano l’informazione dell’imminente pericolo e non volevano condividerla con noi. Ci sentivamo traditi.

Alcuni sparivano, se ne andavano all’improvviso, senza dire nulla, semplicemente non si vedevano più, altri prendevano una decina di giorni di ferie “per sbrigare lavori urgenti”, dicevano, oppure in fretta e furia andavano a far visita alla famiglia in Serbia, o in Montenegro, altri si ritiravano nelle vikendice (casette per il weekend e le vacanze) in territorio sicuro, cioè controllato dai serbi nazionalisti.

C’era chi prendeva l’aspettativa per malattia. Una coppia di vicini se ne andò, con le valigie, a “raccogliere i funghi”, ci disse. L’amica Nada si ritirò con la famiglia a Pale, la roccaforte dei serbi nazionalisti. Ci telefonava da lassù, per tutto l’aprile del 1992 ci chiedeva come andavano le cose “giù” e ci diceva di stare attenti perché stava per cominciare il bombardamento.

In questa prima fase si trasferivano al sicuro le donne e i bambini, mentre i maschi restavano in città per mantenere l’appartamento e il lavoro, convinti che nel giro di una settimana i serbi sarebbero entrati trionfalmente a Sarajevo. Di queste ritirate abbiamo, tra l’altro, una testimonianza non voluta, un articolo del giornalista serbo Risto Đogo, conosciuto per il suo “turbo” nazionalismo.

Sarajevo, febbraio 2015 (Foto Fabio DiEvangelista)

Il 5 aprile 1992, il giorno prima dell’inizio della guerra, Đogo scrisse un reportage che doveva testimoniare l’esodo dei serbi di Sarajevo. Quel giorno, però, lasciavano Sarajevo solo quelli che sapevano che i serbi stavano per attaccare la città. L’articolo di Risto Đogo lo conferma:

“… Migliaia di bambini serbi, madri, anziani, si stanno spostando. L’obiettivo è il territorio serbo di Pale… All’incrocio di Vraca incontro Ljubo Nikolić, un collega… Prendo sua moglie e i bambini per trasferirli nella Romanija. Ljubo, invece, torna nella parte musulmana di Sarajevo”.

C’erano casi “eccellenti” di fughe, come quello della giornalista star della TV di Sarajevo Dubravka che, con la scusa di sentirsi minacciata, se ne andò a Belgrado per un mese pagata dalla stessa TV, e mai più tornata. L’altra collega, corrispondente da Bruxelles del quotidiano “Oslobođenje”, fece ritorno non nella città natale, ma a Belgrado, per stare “con il suo popolo”, mentre il resto della sua famiglia era già là, al sicuro.

Mentre i serbi fuggivano da Sarajevo, arrivavano nella città i musulmani e i croati espulsi dalle parti attaccate e occupate dai serbi. Nei primi mesi del 1992 arrivarono migliaia di musulmani dalla Bosnia orientale, dove i serbi avevano fatto una profonda pulizia etnica, e da aprile anche dai quartieri di Sarajevo occupati dai serbi: Pale, Vogošća, Grbavica, Ilidža, Sokolac, Nedzarići, Dobrinja, Lukavica, Rajlovac, Nahorevo.

A mia sorella, che faceva il medico a Pale, già il 5 aprile 1992 fu detto di “non tornarci più”. Come lei, altre migliaia di non serbi furono costretti a lasciare Pale. Di questo scrive Mladen Vuksanović, un giornalista della TV di Sarajevo, nel suo libro “Dnevnik s Pala” (Diario da Pale). Suo padre era serbo, sua madre croata, e questo fatto, di non essere musulmano, gli aveva permesso di stare i primi tre mesi di guerra a Pale senza rischiare l’espulsione. Vuksanović è poi scappato in Istria, dove è morto nel 1999.

“Fanno l’elenco dei musulmani che devono lasciare le loro case, le aziende agricole, il bestiame e i beni per andare a Sarajevo… I musulmani, con cui ho condiviso tutta la vita, la buona e la cattiva sorte, stanno là, aspettano l’autobus e piangono come bambini. Perché devono lasciare le loro case, i terreni, le mucche e le pecore e con un fagotto in mano andare nell’inferno della vita da rifugiati”.

Nel maggio 1992, un mese dopo l’inizio (ufficiale) della guerra, nel centro di Sarajevo c’erano già diciassettemila profughi musulmani e croati espulsi dalle parti periferiche occupate dai serbi. Solo in un giorno, il 22 luglio 1992, quando l’Alto Commissario per i profughi, Sadako Ogata, fu in visita nella regione, arrivarono a Sarajevo tremila musulmani espulsi da Pale.

Nel giugno 1992 dal centro di Sarajevo fu evacuata la caserma “Maršal Tito”, la più grande in BiH. In quell’occasione tra soldati, ufficiali e le loro famiglie, se ne andarono da Sarajevo alcune migliaia di non musulmani.

Una collega, che era tra di loro, si lamentava con me perché i suoi vicini (non serbi) cercavano di impedirle di partire… Sapevano che una volta scappati i serbi dalla città, la distruzione di Sarajevo sarebbe stata più violenta e veloce.

L’assedio

Una volta che Sarajevo fu messa sotto assedio, lasciare la città divenne molto difficile. La gente, disperata, inventava modi e vie per uscire. Si fuggiva correndo per i tubi della fognatura, attraversando il fiume, passando per i campi minati, oppure attraversando l’aeroporto.

Un conoscente serbo, che ho incontrato a Belgrado, mi ha detto di essere scappato mentre nella zona di Dobrinja scavava le trincee per l’esercito bosniaco.

Un altro amico serbo era uscito perché faceva parte di un’organizzazione umanitaria (“Dobrotvor”). Altri pagavano i caschi blu che, per alcune migliaia di marchi tedeschi, ti mettevano in salvo.

Sarajevo, febbraio 2015 (Foto Fabio DiEvangelista)

Esisteva anche un canale ufficiale per uscire dalla Sarajevo assediata, lo scambio delle persone che volevano passare dalla parte “dei propri”: per i musulmani rilasciati dai territori controllati dai serbi lasciavano uscire altrettanti serbi dal centro della città.

In quelle fughe dall’assedio, però, i non musulmani erano avvantaggiati. Perché una volta fuori, i serbi e i croati erano liberi, si trovavano in territori fraterni, propri, controllati o dai serbi o dai croati. Mentre i musulmani fuggiti da Sarajevo rischiavano di trovarsi in territorio nemico.

Molti musulmani che si erano salvati dalla città assediata finirono infatti nei campi di concentramento, in prigione, oppure furono uccisi. Tra questi casi si distingue, per la sua tragicità, quello dei musulmani bosniaci scappati in Montenegro, catturati dalla polizia montenegrina, consegnati ai serbi bosniaci e mai più visti.

Un’amica, che riuscì a scappare da Sarajevo, si nascose presso degli amici a Rovigno, in Croazia, prima di passare in Italia. In Croazia non usciva mai per strada, perché la polizia croata faceva retate per catturare i profughi bosniaci.

Ma ricordiamo anche casi anomali di fuga da Sarajevo, come quello di Nenad Kecmanović, docente universitario che, all’inizio della guerra, faceva parte del governo di Sarajevo. Uscì dalla città per negoziare con i serbi bosniaci, rimase a Pale e poi si trasferì a Belgrado, dove i suoi familiari erano già al sicuro.

Oppure il fuggi-fuggi di personaggi, come il già nominato Nenad Janković, o Goran Bregović ed Emir Kustrurica, che durante la guerra si erano stabiliti a Belgrado. La loro scelta è stata una dichiarazione politica, poiché stavano presso e con il regime serbo che teneva Sarajevo sotto assedio bombardandola per quasi quattro anni.

Durante la guerra, i serbi che rimasero a Sarajevo, e che l’ex leader dei serbi bosniaci Radovan Karadžić chiamava con disprezzo “i serbi di Alija” (Izetbegović, l’ex presidente bosniaco), in gran parte avevano condiviso la sorte dei concittadini. Furono esposti alla fame, al freddo, ai tiri dei cecchini e ai bombardamenti. Si calcola che dei dodicimila sarajevesi uccisi durante la guerra, almeno un quarto erano membri del popolo serbo o di origine etnica serba.

Kazani

In tutto e per tutto i serbi di Sarajevo spartivano la sorte dei loro vicini musulmani e croati, tranne che nel cosiddetto caso di “Kazani”, dove i sarajevesi di religione ortodossa furono le principali vittime.

Kazani è un burrone alle pendici del monte Trebević. Là sono spariti innocenti civili serbi e croati che, dal 1992 al 1993, il comandante della X Brigata dell’Esercito di Bosnia Erzegovina, Mušan Topalović “Caco”, catturava e ammazzava.

Del caso di Kazani, già nel 1993 scriveva il settimanale di Sarajevo “Dani”. Caco fu ucciso nel 1993 in uno scontro con l’esercito bosniaco. Dopo la guerra fu sepolto come un eroe.

Dalla cavità di Kazani, fino ad oggi sono stati recuperati i resti di ventinove persone. Il numero delle vittime, ufficialmente, non è mai stato determinato. Per i crimini di Kazani, sono stati condannati quattordici soldati dell’Esercito di Bosnia Erzegovina. Secondo gli esperti le condanne non corrispondono alla gravità del crimine.

Le autorità bosniache non hanno mai fatto un’analisi sistematica sull’identità e sul numero delle vittime sparite nelle fosse di Kazani il che, fino ad oggi, lascia spazio alle speculazioni e all’uso politico delle vittime, e macchia la legittima ed eroica difesa della città.

1996: l’esodo

Il più grande esodo dei serbi da Sarajevo avvenne nei primi mesi del 1996, quando le aree della città occupate durante la guerra dall’esercito serbo (Grbavica, Vogošća, Ilijaš, Hadžići e altre) dovevano “reintegrarsi” con la città, come determinato dagli Accordi di Dayton.

Sarajevo, febbraio 2015 (Foto Fabio DiEvangelista)

I capi serbo bosniaci, in particolare Momčilo Krajišnik (condannato dal Tribunale dell’Aja per crimini di guerra) avevano invitato e spinto i serbi a lasciare Sarajevo per non rimanere “nel Paese di Alija” (Izetbegović). E non solo gli si suggeriva di portare tutto quello che potevano con sé, ma addirittura di disseppellire e trascinare via i propri morti.

Gli emissari, politici e militari, giravano tra la popolazione serba e controllavano chi partiva. Chi esitava o era indeciso, lo convincevano con le minacce e la forza.

Conosco dei vicini, del quartiere di Grbavica, i coniugi Vera e Duško, oppure Živko e Milica, che erano decisi a rimanere nelle proprie case. Fino all’ultimo giorno, per difendersi, dicevano a quelli che li spingevano ad andarsene: “Siamo pronti a lasciare la nostra casa, ma aspettiamo i camion dalla Serbia”.

In quei tre mesi precedenti alla riunificazione di Sarajevo, tutto quello che i serbi non potevano portare con sé fu distrutto e bruciato. Per giorni, spesse nuvole del fumo degli incendi oscurarono il cielo. Ci furono danni per decine di miliardi di dollari provocati dalla dislocazione o dall’incendio di fabbriche e impianti di produzione; tutti gli uffici pubblici, le istituzioni sanitarie, le scuole, gli edifici residenziali furono completamente devastati, fu portato via o distrutto tutto, fino all’ultima grondaia o finestra.

Jovo Janjić, un serbo di Ilidža, non ha lasciato la propria casa. “Ci facevano pressione per andarcene, ci promettevano un sacco di cose altrove, la costruzione di una Sarajevo più grande e più bella, una città migliore di questa, ci mostravano il modellino della futura città nuova, insomma ci promettevano mari e monti”.

I serbi si spostavano a migliaia, molti in lacrime. Non era un esodo né spontaneo né caotico. La maggior parte di loro si stabilì nella regione del distretto di Sarajevo sotto l’amministrazione della Republika Srpska (RS), cioè a Lukavica e a Pale.

I serbi d’interi quartieri, come Hadžići, ad esempio, furono trasferiti in due città nella Bosnia orientale: Bratunac e Srebrenica, prima ripulite dai musulmani. Così furono etnicamente omogeneizzate molte città che, con gli accordi di Dayton, erano state consegnate all’entità della Republika Srpska come Višegrad, Foča, Banja Luka, Bijeljina, Zvornik, Vlasenica, Trebinje, Doboj, Tešanj, Bosansko Grahovo, Prijedor, Bosanski Brod.

Dopo il terremoto

Con la pace non si è fermata l’emorragia dei sarajevesi dalla loro città, non solo dei serbi. È stato un processo simile all’assestamento, alle tante piccole scosse che seguono un terremoto. La lasciavano molti che vi avevano trascorso tutta la guerra, quelli che non ne potevano più, amareggiati, delusi, stanchi, impauriti, che se ne andavano cercando altrove un futuro migliore e più sicuro: Canada, America, Australia erano le mete preferite, oppure i paesi vicini, Serbia o Croazia. Altri si spostavano in altre zone della stessa Bosnia Erzegovina, dove il proprio popolo era maggioranza.

Sarajevo, febbraio 2015 (Foto Maurizio Puato)

Ma questo spostamento non fu riservato solo ai non musulmani, e non fu circoscritto solo a Sarajevo.

Parallelamente, musulmani da altre parti della Bosnia Erzegovina si trasferivano a Sarajevo per stare al sicuro. Sì, la città che era stata sottoposta al più lungo assedio della storia moderna appariva più sicura a chi fuggiva dalle zone etnicamente pulite dai non serbi, come Srebrenica, Cerska, Višegrad, Foča, Bjeljina, Bileća, Stolac. “Al peggio non c’è mai fine”, si dice in Bosnia.

Nel corso degli ultimi venti anni, dopo la fine della guerra, i politici serbo-bosniaci non hanno mai cessato di demonizzare Sarajevo per farla apparire un posto non adatto ai non musulmani. Le si rimprovera di avere più moschee di Teheran, non per fare paragoni, ma per insinuare il senso di un certo estremismo religioso. Le proteste sociali dell’anno scorso, i capi serbo-bosniaci le hanno interpretate come “anti serbe”. Quando i serbi che vivono nei quartieri di Lukavica o Dobrinja (che appartengono alla RS) fanno compere nel centro della città, vengono rimproverati per la loro mancanza di patriottismo, e se ci si ferma a parlare da quelle parti con un conoscente, collega, amico serbo, si sta ben attenti per non farsi vedere come uno che “socializza” con i musulmani.

Gli ammalati dei quartieri che fanno parte dell’entità serba non vengono curati negli ospedali del centro di Sarajevo a cinque o dieci chilometri di distanza, ma a Banja Luka, duecento chilometri più in là. Fa scalpore se uno studente di Banja Luka decide di studiare a Sarajevo, e quando i sarajevesi accorrono ad aiutare gli alluvionati serbi a Doboj, l’aiuto viene rifiutato. Chi lo accetta è etichettato come traditore e, nel caso di funzionari, questi vengono destituiti.

Sarajevo oggi non è come una volta. Non ci sono più decine di migliaia dei suoi abitanti, alcuni l’hanno tradita, altri lasciata. Ma sono rimasti Jasmila Zbanić, Danis Tanović, Ahmed Imamović, Srđan Vuletić, Jim Marshal, Emir Hadžihafizbegović, Dino Mustafić, Faruk Šehić, Ozren Kebo, Nenad Veličković, Mile Stojić, Adisa Bašić, Ivan Lovrenović, Marko Vešović, Abdulah Sidran, Safet Zec, Jusuf Hadžifejzović, Maja Bajević, Damir Nikšić, Amira Medunjanin, Božo Vrećo, Damir Imamović, Timoty Clancy, Goran Simić, Jovan Divjak, Svetlana Broz, Dževad Karahasan, Christian Jennings, Claire Dupont, Susanne Prahl, Pierre Courtin.

Verificate chi sono questi nomi e capirete cos’è la Sarajevo di oggi.

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