Sarajevo dopo l’anniversario
I media di tutto il mondo sono tornati a Sarajevo per ricordare quanto avvenuto 20 anni fa nel cuore dell’Europa. La capitale bosniaca commemora i propri morti e inaugura un importante museo virtuale dell’assedio. Ma è il presente a reclamare attenzione
Questo articolo viene pubblicato oggi in contemporanea su OBC e Il Manifesto
I veterani di fronte al Parlamento di Sarajevo, avvolti nelle tute mimetiche, scaldano il caffè nei fornellini da campeggio. Elvir, 45 anni, mi spiega le ragioni della protesta. Sono stati pensionati anticipatamente dalle forze armate della Bosnia Erzegovina, ma i soldi per le pensioni non ci sono. “Abbiamo fatto i soldati per 20 anni, non sappiamo fare altro”. Quattro di questi anni li hanno trascorsi in guerra, combattendo gli uni contro gli altri. Sotto le tende, montate da 15 giorni nel traffico incessante della Zmaja od Bosne, ci sono infatti serbi, croati e bosgnacchi. Il loro status, nella Bosnia di Dayton, è lo stesso. Anche i loro volti sono identici. Sono facce da sconfitti.
Venti anni fa, il 6 aprile del 1992, alcuni cecchini sparavano dalle finestre dell’Holiday Inn su di una folla che, in questo stesso piazzale, manifestava per la pace. Con il sangue e con la paura, una minoranza riusciva a far precipitare il Paese in un incubo lungo 4 inverni. Obiettivo della guerra era quello di dividere la Bosnia su linee etniche e religiose. Dopo 4 anni di t[]ismo, e 100.000 vittime, l’obiettivo è raggiunto. Due milioni e duecentomila persone, su di una popolazione di poco più di 4 milioni, hanno abbandonato le proprie case.
Chiedo a Mario Nenadić, del ministero statale per i Diritti Umani e i Profughi, quanti siano ritornati, dopo 20 anni. “Un milione e settantamila, secondo i nostri dati”. In realtà, come lui stesso chiarisce, nessuno conosce le cifre esatte dei rientri, perché il censimento della popolazione non viene fatto dal 1991. La comunità internazionale, alla fine della guerra, si è impegnata a garantire a tutti il diritto al ritorno. Pochi però hanno voluto rientrare dove erano stati commessi crimini, o dove nuove maggioranze li facevano sentire in pericolo. Molti hanno ripreso possesso delle proprietà solo per rivenderle e, viaggiando attraverso il Paese, non sembrano esserci dubbi sul successo della pulizia etnica.
Per ricordare il ventennale dell’assedio, i giornalisti di tutto il mondo si sono dati appuntamento all’albergo Holiday Inn, un cubo giallo in cemento armato a Marijn Dvor dove tutto è iniziato, sede della stampa internazionale durante la guerra. Lo sguardo è rivolto al passato. La città ricorda invece i propri morti, con un concerto per 11.541 sedie vuote sulla Titova, la centralissima via Maresciallo Tito e inaugurando un museo virtuale sull’assedio che raccoglie 1.400 testimonianze sul periodo 1992-1996.
Lontano dagli eventi e dai riflettori dei media internazionali, brevemente riaccesi sul palcoscenico bosniaco, questo però è uno strano anniversario. Coincide con la data che segna la liberazione della città dagli occupanti nazisti, nel 1945. Abdulah Sidran, il poeta di Sarajevo già sceneggiatore dei primi film di Emir Kusturica, nel presentare ieri in conferenza stampa la sua ultima pubblicazione (“Sarajevo, il libro dell’assedio”, ADV edizioni, con scritti di Karahasan, Kulenović, Sarajlić e Vešovic), ha ricordato gli anni ’90 e “quel fascismo, che ci ha tolto anche il nostro passato, i nostri ideali”, paragonando la propria generazione a “quegli orologi le cui lancette sono state interrotte da un terremoto”. Marko Vešovic, lo scrittore sarajevese di origine montenegrina, intervenendo poco dopo ha però sottolineato che “restare a Sarajevo, anche durante la guerra, ha significato resistere”.
In un Paese in cui oggi tutto è diviso, dalle scuole alle istituzioni, è ancora presto per capire quanto di quella resistenza sia rimasto. La storia di questa città è vecchia almeno quanto quella dell’hagaddah, il manoscritto portato qui dagli ebrei in fuga dalla Spagna, e 4 anni di orrore forse non sono riusciti a cancellarne il genius loci. Oggi però non è il passato, ma il presente a reclamare attenzione. In un Paese in cui il tasso di disoccupazione ufficiale sfiora il 30%, i veterani sono decisi a non mollare. Almeno fino a quando non saranno loro garantiti 300 euro al mese di pensione.