Sanzioni, non bombe
Negli anni ’90 era tra i leader del movimento studentesco a Belgrado e l’intervento della Nato lo ha vissuto da protagonista dell’opposizione al regime di Milošević. L’ambiguità dell’atteggiamento Occidentale, l’inutilità dei bombardamenti. Un’intervista a Čedomir Antić
Dieci anni sono passati da quel 24 marzo 1999, data del primo attacco Nato contro la Serbia di Slobodan Milošević, la prima "guerra umanitaria" dell’Alleanza Atlantica per fermare le persecuzioni in Kosovo e la prima volta dalla Seconda guerra mondiale che si bombardavano città europee. Čedomir Antić, storico dell’Accademia Serba delle Scienze e delle Arti, era negli anni novanta uno dei leader del movimento studentesco assieme a Čedomir Jovanović, tra quelli che entrarono nel partito democratico di Zoran Ðinđić. Primo portavoce del presidente del Partito democratico, si allontanò dal partito in seguito a forti contrasti, confluì nel G17 Plus, ma poi lasciò anche loro per ritirarsi dalla politica attiva rimanendo uno degli opinion maker più ascoltati. Oggi si considera un conservatore – nazionalista moderato, che vede come possibile soluzione ai problemi della Serbia un ritorno della monarchia dei Karađorđević.
Cosa succedeva all’interno dell’opposizione al tempo dell’attacco Nato?
Durante la crisi, che iniziò ad ottobre con la prima minaccia di bombardamento e finì a marzo con l’effettivo attacco, l’opposizione crollò totalmente. Non solo perché si divise – da una parte il Movimento di rinnovamento serbo di Vuk Drašković che appoggiò Milošević, dall’altra il Partito democratico di Ðinđić – ma anche perché gli Usa e i suoi alleati in Europa avevano appoggiato Milošević nel 1997 quando parte dell’opposizione guidata da Zoran Ðinđić aveva chiesto di boicottare le elezioni. Richard Holbrooke, rappresentante speciale del presidente Clinton, disse che gli Usa non avrebbero accettato questa decisione.
Un altro aspetto della nostra disunità era la questione del Kosovo. Alla vigilia delle dimostrazioni studentesche in Kosovo, nell’ottobre del ’98, noi facemmo un appello per unire insieme le nostre mani in una protesta per la libertà civile in Serbia, ma gli studenti albanesi ci respinsero dicendo che volevano libertà e un Kosovo indipendente.
Avevate contatti con l’Amministrazione Clinton?
Continuamente. Personalmente ho incontrato Madeleine Albright una volta e Robert Gelbert molte volte. Adesso è evidente che non furono onesti: ci dicevano di combattere il regime, ma riconobbero i risultati truccati delle elezioni del 1997. Nel ’98, ’99 fu molto difficile restare fermi nella nostra convinzione di riforma e di democrazia. Da una parte succedeva che il quotidiano "Politika" mi descrivesse come il traditore della battaglia del Kosovo del 1389, dall’altro lato i leader degli studenti albanesi come Albin Kurti ci chiamavano spie serbe, infine le grandi potenze non trattavano con noi ma con il regime.
Come si arrivò alla guerra?
Tutti pensavamo che la guerra sarebbe iniziata nell’ottobre 1998, invece Holbrooke trattò con Milošević e ci fu la missione dei verificatori Osce. Questa era la classica via "distrattiva" di Milošević: un momento è arrogante, l’altro debole e poi inizia la guerra e quando inizia la guerra molti crimini vengono commessi, specialmente dalle sue forze, e dopo dice "trattiamo".
Nel febbraio del ’99 non sembrava molto probabile che ci sarebbe stato l’intervento, io ero sicuro che alla fine Milošević avrebbe trattato. Mi ricordo che Ðinđić a metà febbraio mi disse che la guerra sarebbe arrivata in uno o due mesi. Secondo lui "Slobo" era così ostinato nel provocare la guerra perché non era capace di spiegare in altre maniere la secessione del Kosovo. Governare la provincia era difficile e costoso, c’era una rivolta in corso da due anni e per la prima volta, nel ’98, era stato sanzionato personalmente, le grandi potenze iniziarono a dare la caccia ai suoi conti all’estero ad impedire di viaggiare a lui e ai suoi fedeli.
Ritiene che la Nato nell’intervento del 1999 avesse dietro motivazioni anche geopolitiche?
Non vorrei togliere importanza al ruolo di Milošević. Era l’uomo sbagliato al momento sbagliato nel posto sbagliato. Con politiche differenti verso la Nato e gli Usa si sarebbero potute evitate molte cose brutte. Allo stesso tempo, la Nato senza la guerra umanitaria non avrebbe il ruolo e la presenza che ha ora nei Balcani. L’intervento in ex Jugoslavia è stato fondamentale per la ridefinizione del ruolo della Nato dopo la fine della guerra fredda.
Come era la vita durante il bombardamento?
Strana, non era normale ma in un certo senso era anche tutto regolare: i trasporti funzionavano anche le paghe arrivavano puntuali.
Tutti avevamo qualche immaginazione sul bombardamento, pensavamo che molte persone sarebbero morte nei primi giorni. La nostra memoria collettiva era legata al bombardamento nazista del 1941 in cui morirono 2000 cittadini il primo giorno e nel 1944 il bombardamento degli Alleati fu ancora peggio. Il primo giorno la gente fu presa dal panico, chi fuggiva e chi faceva scorte di cibo, ma dopo 3-4 giorni questa sensazione passò. Chi viveva vicino agli edifici pubblici se ne andava da parenti e amici ma per il resto era tutto normale. Anche se in realtà fu una guerra molto sanguinosa 3.500 persone morirono, e ciò significa che il tasso di mortalità giornaliero in quei 78 giorni era simile a quello della guerra di Bosnia. Naturalmente la guerra in Bosnia durò quattro anni, ma questo per dire che non fu una guerra chirurgica o senza vittime. Senza parlare dei kosovari albanesi: 100 morirono per il bombardamento, e molte migliaia in combattimenti o per le persecuzioni delle forze di Milošević.
Non fu una buona guerra come venne rappresentata dalla Nato. Per chi non era sotto le armi e non ebbe conseguenze personali fu una specie di "pace difficile", in cui ogni sera andavi a letto aspettandoti tuoni e bombardamenti e la mattina ti svegliavi sentendo che qualcuno era morto o andato a fuoco. Il momento più brutto forse è stato quando hanno colpito la torre di Avala, perché quella notte colpirono per la seconda volta anche il quartier generale dell’esercito in centro a Belgrado e subito dopo ci fu un terremoto naturale. Fu un momento di confusione e in quel momento ci sembrò di dover combattere anche con Dio.
Pensa che il bombardamento Nato aiutò la caduta di Milošević?
No, penso che la cosa principale furono le sanzioni, nel 1998, e la decisione del Dipartimento di Stato di sganciarsi dal presidente serbo. Gli Usa iniziarono a finanziare l’opposizione, a prendere contatti con i generali e gli ufficiali di partito. Alla fine l’intera rivoluzione del 5 ottobre 2000, fu una lotta segreta all’interno del partito. E, considerando che la più grossa ondata di privatizzazioni fu dall’ottobre del 2000 e gennaio 2001, si può affermare che l’intera classe politica, a parte Milošević e forse altre 50-60 persone che furono più o meno sacrificate, trasformò la propria influenza politica in influenza economica e offrì l’influenza politica all’opposizione.
Cosa ne pensa della posizione attuale della Serbia rispetto alla Nato?
Non siamo nella posizione di rimanere l’unico paese fuori dalla Nato, anche se una parte molto influente dell’estabilishment è contraria. Nel dicembre 2007 il parlamento ha votato una risoluzione che teoricamente impedirebbe ogni congiungimento alla Nato rendendo il nostro un paese neutrale. Ma la Serbia non se lo può permettere. Non solo perché è una piccola nazione chiusa, povera e devastata da un cattivo governo e dalle sanzioni, ma perché la Serbia ha interessi in Bosnia, Kosovo, Montenegro, Macedonia… ovunque.