Salam, Dalgat
"Salam, Dalgat" è il titolo del racconto lungo di Alisa Ganieva, scrittrice daghestana, pubblicato recentemente in Italia da Marco Tropea Editore in un’antologia di giovani scrittori russi, “Il secondo cerchio”. Maria Elena Murdaca lo presenta ai lettori di Osservatorio Balcani e Caucaso
È uscito anche in Italia, pubblicato da Marco Tropea Editore per l’antologia “Il secondo cerchio”, “Salam Dalgat”, della scrittrice di origine daghestana (avara) Alisa Ganieva. “Il secondo cerchio” è una raccolta di opere di giovani talenti letterari russi. Sono i vincitori del premio Debut, un progetto letterario istituito nel 2000 per la scoperta di giovani scrittori promettenti. Insieme a “Salam, Dalgat”, “Il secondo cerchio” propone i racconti di Igor Savelyev, Anna Lavrinenko e Aleksej Lukjanov.
Dalgat, il protagonista, è un bravo ragazzo daghestano che delude tutti gli stereotipi sul genere. E’ quasi anonimo nella sua banalità, il che fa risaltare per contrasto il caleidoscopio a colori vivaci che ha intorno. È una figura maschile assolutamente priva del machismo di cui gli uomini caucasici vanno fieri. Non va in giro armato, non è palestrato, non prega, non si vuole sposare, non è un t[]ista islamico, non è un filorusso, non è un attaccabrighe e nemmeno un dongiovanni. È un antieroe che dice sempre di sì a tutti, suo malgrado.
Dalgat è in cerca dello zio, a cui deve consegnare una lettera. Passa così un giorno intero a seguirne le tracce, arriva sempre troppo tardi o incontra qualcuno che lo distoglie dalla sua caccia all’uomo. La ricerca dello zio ha un che di kafkiano: è ignoto il mittente della lettera, così come il suo contenuto, non è chiaro perché la lettera non può essere lasciata presso l’abitazione ma debba essere consegnata a mano. Dalgat rincorre lo zio senza mai raggiungerlo. E la conclusione del romanzo non soddisfa nessuna delle curiosità che nascono nel lettore.
La giornata di Dalgat assomiglia ad un lungo piano sequenza, con diverse soste in vari ambienti, i differenti microcosmi del Daghestan. Dalgat si muove andando sempre avanti, senza mai tornare indietro, senza mai ripassare due volte dallo stesso posto, senza mai incontrare due volte lo stesso personaggio. Un piano sequenza che parte dal cuore pulsante della città: il bazar. Colori vivaci, suoni striduli, ragazze, odori, sapori, tutto che si mescola in un quadro sonoro rumoroso e allegro. Poi la strada, le macchine straniere, le ragazze civettuole. In Caucaso le donne ci tengono a essere belle. Per questo anche al bazar si possono vedere “ragazze affaticate in smaglianti abiti da sera e scarpe col tacco che portavano a braccia secchi pieni di cetrioli”. E poi la strada, le macchine di marca straniera, strumento indispensabile per rimorchiare ragazze. “Il gruppo di ragazze che stava passeggiando proprio accanto alla macchina non poteva lasciare indifferenti: erano tutte vestite in modo vistoso, portavano scarpe dai colori brillanti e avevano i capelli stirati”.
La seconda tappa del viaggio di Dalgat è a casa degli zii, dove approda dopo aver superato una barriera di balordi grazie all’aiuto del cugino forzuto. Qui si ha l’incontro con Arip e l’Islam moderato, l’Islam che vuole imporsi con la preghiera e la forza morale ma che rigetta la violenza in tutte le sue forme, condannando i wahhabiti: “I wahhabiti non sono veri mujahidin, non si combatte così per l’Islam. Uccidendo la gente innocente non si va in paradiso. I wahhabiti mandano a morte i giovani, quelli come Kamil’. È l’America che li paga per uccidere i nostri ragazzi e fare la guerra alla Russia! Non riconoscono gli sceicchi, le preghiere, i luoghi santi, i maestri… Rinnegano tutto! Vogliono solo uccidere sfruttando i giovani”. E le operazioni antit[]ismo non sono meglio: “Sono arrivati a casa sua con il passamontagna. Perquisizione. […] Si sono portati via Musa.[…] Lo picchiavano a sangue ogni notte, lo strangolavano, lo torturavano con la corrente, gli strappavano i denti, volevano che confessasse di essere un wahhabita. […] Per due settimane il ragazzo, ferito, è rimasto rinchiuso nelle celle di quegli animali. Dopo nemmeno suo padre riusciva a riconoscerlo”. Poche righe che ricordano i reportage di Anna Politkvoskaja dalla Cecenia. Ma qui non siamo in Cecenia. Questa è la realtà quotidiana con cui il Daghestan e le altre repubbliche del Nord Caucaso devono convivere da anni. E a descriverla non è una giornalista militante, ma una giovane scrittrice di prosa, vincitrice di un prestigioso premio letterario russo.
Il ritratto dell’intelligencija daghestana invece, si ha in biblioteca alla presenza della poetessa Gjul-Bike Akaevna in occasione dell’uscita del suo quindicesimo libro di poesie. La descrizione delle matrone e dei funzionari, dal sapore di passato, con fare drammatico e magniloquente sproporzionato alla rilevanza dell’evento, condito di altisonante retorica dalle vaghe reminiscenze sovietiche, suscita il dubbio che dietro il fotogramma ci sia un intento lievemente parodico. Difficile dire se l’effetto sia voluto o meno, ma è lo schizzo che più fa sorridere il lettore, per la prosopopea e l’ingenuità che la scena sottende. “Gjul’-Bike è una donna della Grande Steppa. È già una leggenda vivente. La sua poesia è profonda come il mar Caspio e alta come le nostre montagne del Caucaso… e io mi sento vibrare ogni volta che leggo le sue poesie sull’amore, l’anima, la natura, il popolo. C’è un’altra cosa che vorrei dire, ma non ne ho quasi il coraggio. Gjul’-Bike è una donna magnifica… anche io sono venuto, cara Gjul’-Bike, con dei versi. Spero che siano, anche solo in minima parte, comparabili alla tua bellezza.”. La prosopopea che ammanta tutta la scena viene smontata un secondo con l’apparizione dello scrittore mancato: “Ti racconto una cosa. Vado alla sezione di letteratura lezghina, porto i miei versi, spiego ogni cosa, gli dico: Pubblicatemi. Si rifiutano. Perché, chiedo, questa Sivla Jarachmedova esce con la sua quinta raccolta? Mi hanno risposto: Ah,mi dispiace, ma lei lavora al ministero, lei! Tu, no.” Per ammettere subito dopo: “Sono riuscito a farmi pubblicare solo a Mosca, grazie a un parente che mi ha aiutato”. La descrizione del meccanismo di funzionamento dell’élite letteraria locale non potrebbe essere più chiara di così. Viene da chiedersi dove lavori la poetessa Gjul’-Bike, per essere stata pubblicata quindici volte.
Scene tratte da: “Il mio grosso grasso matrimonio greco”, potrebbe essere il titolo per la sequenza successiva, dedicata alle nozze. Il matrimonio da 3000 invitati è un’accattivante immagine delle tradizioni daghestane, fatta di danze, piroette, allegria, soldi che si regalano, quantità epiche di cibo, ragionamenti tortuosi fra anziani che si lamentano e ragazze parate a festa che spettegolano. Uno sposalizio che è piuttosto un evento sociale, tutt’altro che privato, con una tale quantità di invitati (“La sala era apparecchiata per tremila persone e piena di gente. Dalgat conosceva quasi tutti, almeno di vista”) e autorità pubbliche con discorsi ufficiali. E proprio durante la festa si palesa l’estremismo islamico più fosco e nel modo più cruento, con l’omicidio di Ajdemir, il politico locale. Portavoce ne è Murad, il salafita, il cugino cattivo, che fa da contraltare al cugino buono, Arip. Mentre Arip cerca di convincere Dalgat a pregare e diventare un buon musulmano, con la forza dell’osservanza, Murad cerca di reclutarlo per la guerra santa: “Non discutere. So che sei dei nostri. Stasera non vengo solo. Sei strano, ma anche tu ami la giustizia. Hai una ragazza?” “No”. “Bravo. Non sei un fornicatore. Comunque quello sulle nostre sorelle è un discorso a parte. Arriverò verso mezzanotte, resta a casa.”
Il rapporto con i russi è invece esaminato nell’ultima sequenza, che vede Mesedu, compagna di università di Dalgat, in partenza per San Pietroburgo per lavorare in un’agenzia di traduzioni. Una sfida al comune buon senso, che vuole la donna sposata e a casa. “Mi dicono che a Pietroburgo ci sono molti skin. Ma immagino che non mi succederà niente. Mi prenderanno per una russa.” […] “Rimani qui, Mesedu, cosa ci vai a fare a Pietroburgo?” disse Dalgat. “Lassù pensano che noi siamo tutti banditi e selvaggi”. “Qui invece pensano che gli uomini russi sono tutti ubriachi e rammolliti e le donne tutte prostitute. Dov’è la differenza?” domandò Mesedu. “Comunque sia, nessuno ha simpatia per nessuno”.
Il ritratto nudo e crudo di un paese ai confini della Russia, senza giudizi, positivi o negativi senza prese di posizione. Un pamphlet di presentazione, un tour conoscitivo della Repubblica del Daghestan. A tratti esilarante, proteiforme per i continui cambi di scena, antropologicamente interessante, il racconto di Alisa Ganieva è una lettura gradevole dalla prima all’ultima pagina, senza cadute di stile o punti morti.
Una curiosità: il libro in Russia è stato pubblicato sotto lo pseudonimo maschile Gulla Khirachev. Gulla è un antico nome di lingua avara che significa “proiettile”. La Ganieva, che è anche un noto critico letterario a Mosca, ha preferito partecipare al Premio Debut sotto pseudonimo per non influenzare la giuria.