Rosso come una sposa
E’ il titolo del primo romanzo della scrittrice albanese Anilda Ibrahimi. Scritto direttamente in italiano, con forti note autobiografiche il romanzo, nelle ultime settimane, è tra i primi venti libri più venduti in Italia. Nostra intervista con l’autrice
"Rosso come una sposa" è il primo romanzo della scrittrice albanese Anilda Ibrahimi. Scritto direttamente in italiano il romanzo percorre la storia dell’Albania dalla sua indipendenza ai nostri giorni, attraverso gli occhi e la vita di diverse generazioni di donne di una famiglia nel profondo sud albanese. Con forti note autobiografiche, e un costante stile scorrevole, asciutto e auto ironico, l’autrice costruisce attraverso i propri ricordi l’Albania che si trasforma e i regimi politici che si sostituiscono. Nata nel ’72 a Valona, l’autrice, ha lasciato l’Albania nel ’94 per trasferirsi prima in Svizzera e poi nel ’97 in Italia.
L’intervista è stata pubblicata in lingua albanese sul numero di luglio del mensile culturale di Bota Shqiptare/Shqiptari i Italise.
Come mai un libro scritto in italiano?
Questo è il mio primo libro in italiano, e penso che anche i prossimi libri saranno in italiano. Non si tratta di una scelta, è stata una cosa molto naturale. E’ che io non parlo più la mia lingua dal ’94, quando ho lasciato l’Albania, e nel frattempo la lingua è andata avanti, anche senza di me, mentre io ne sono rimasta fuori. Ormai ho perso la sintonia con la mia lingua, che rimane qualcosa che collego al mio passato, alla mia infanzia, e alle conversazioni su ricette balcaniche con mia madre.
Poi bisogna sottolineare anche il fatto che quando uno scrive, tende sempre a immaginare un pubblico, che appartiene a un determinata lingua, nel mio caso è l’italiano. Ovviamente io non posso scrivere un libro solo per me stessa e i miei familiari, ho bisogno di un pubblico. Per il pubblico albanese invece sono una perfetta sconosciuta, come avviene per tutti quelli che se ne vanno. Ma di solito a questa domanda rispondo è stato l’italiano a scegliere me. L’italiano sta scegliendo i suoi futuri scrittori mentre gli italiani sono molto occupati con la politica. Il paese è in piena decadenza e senza futuro per i giovani. La letteratura dei giovani italiani oggi è tutta concentrata sul privato, la crisi degli uomini di mezza età, dei quarantenni, dei trentenni, sui problemi sociali dei giovani, l’anoressia, la droga ecc. Quindi c’è bisogno di libri che raccontino cose diverse, storie d’altri tempi che mancano all’Italia di oggi. La lingua italiana ha bisogno di cultura, di quella che c’era una volta, dei grandi nomi, come l’ha conosciuta la mia generazione dall’Albania.
Tuttavia, nell’italiano del libro c’è molto albanese, espressioni che sono delle traduzioni letterali, mentre si potevano anche sostituire con altre più italiane anche se di un’altra natura. Il suo è un italiano molto albaneggiante…
Questo avviene perché la mia infanzia è tutta in albanese, e non in italiano. Per me l’Italia è un paese neutrale, e anche la lingua italiana per me è una lingua abbastanza neutrale su cui ho trasferito i miei ricordi. E’ molto semplice, ho trasposto nella lingua italiana senza traduzione tutto ciò che mi è rimasto dell’Albania. Si tratta di un trasferimento direi, non di una traduzione per cui sembra un italiano albaneggiante. E’ una cosa che mi è stata estremamente d’aiuto, perché se avessi scritto questo libro in albanese non sarebbe stato la stessa cosa, sarebbe stato di una pesantezza insostenibile, perché la nostra è una lingua pesante come tutte le lingue balcaniche, che contengono degli elementi di epica, molto difficili da digerire. L’italiano ha alleggerito tutto ciò, nel senso della "leggerezza" come la intende Italo Calvino.
C’è più o meno lo stesso italiano anche nei romanzi di Ornela Vorpsi, si sta creando un fenomeno linguistico degli scrittori dell’italiano migrante?
Non so se potrei definirmi migrante. Mi chiedo sempre "migrante rispetto a cosa? Verso che cosa?" Per me la letteratura è letteratura in tutti gli aspetti. Non mi piace il concetto di "scrittrice migrante", perché mi sembra la solita tendenza degli italiani a mettere etichette e categorie su tutto, al di là dalle quali sembra che uno non possa esistere. Non amo farmi etichettare o farmi raggruppare in categorie. Costruendo le categorie è come se creassero dei ghetti, e ti dicessero: "ecco la letteratura migrante, questo è il vostro ghetto, vedetela tra di voi". Ma non ha senso perché io vivo e scrivo in italiano, non ho nulla in comune con un altro scrittore, ad esempio che viene dal Camerun o dall’America latina. Io faccio letteratura e basta.
Questa è la sua prima prosa, mentre prima, pubblicava esclusivamente poesie. E’ stata una scelta per trasmettere determinati messaggi che alla poesia sfuggono?
No, il mio libro non trasmette alcun messaggio, poi sono i critici e i giornalisti quelli che commentano. L’ho scritto in quattro mesi, qualcosa di molto veloce, e a volte mi dispiace di non essermi data il tempo di approfondire certi aspetti. Visto il tempo che gli ho dedicato, penso che il libro stava dentro di me, è stata l’urgenza a dettarmi tutto. Si vede anche nella scrittura, che è molto veloce.
Non posso dire di aver voluto trasmettere determinati messaggi, ma essendo fatalista, forse sono stata mossa istintivamente da qualcosa che mi ha sempre offeso e amareggiato in Italia, l’immagine della donna albanese, che è un’immagine completamente sbagliata. Ha avuto inizio naturalmente dopo l’ondata della prostituzione degli anni ’90. Quindi con il mio fatalismo direi che forse ho voluto portare agli italiani le donne del mio paese come loro realmente sono, e che sono molto diverse da quello che si è detto per anni nei telegiornali italiani.
E la storia si ripete, ora per esempio pare che tocchi ai romeni. E’ di una violenza inaudita questo atteggiamento, ma a mio avviso i romeni non stanno subendo neanche una piccola percentuale della discriminazione che per anni hanno subito gli albanesi – se mi è concesso confrontare le disgrazie. Bastava accendere la TV, qualsiasi canale, ogni approfondimento, ogni cronaca aveva per protagonista noi, i nuovi mostri. Sapevo di bambini che a scuola non riuscivano a dire "Io vengo dall’Albania" o "I miei genitori sono albanesi". Si è trattato di un vero e proprio trauma psicologico che ha riguardato molta gente. Oggi, però, penso che abbia prodotto il riscatto, gli albanesi sono tra gli immigrati di successo in Italia, sono i meglio integrati e basta dare un’occhiata alla cultura, all’arte, all’imprenditoria per vedere il loro successo. Direi che ci stiamo trasformando in una minoranza di nicchia. Però, devo dire che molto dipende anche dal nostro carattere che vuole sempre e ovunque primeggiare. E i media italiani ci hanno dato una buona spinta.
Ma lei è arrivata in Italia, proprio nel peggior momento del linciaggio degli albanesi, nel ’97…
E’ strano, e sto ancora pagando la mia scelta obbligata, ma sono cose che uno fa quando è giovane. Me ne sono pentita, e se tornassi indietro non lo rifarei. Ero stata per tre anni in Svizzera, facevo la giornalista, e stavo benissimo. Poi verso la fine del ’96, decisi di ritornare in Albania, perché mi sembrava fosse il massimo, sentivo i miei amici che mi parlavano di un paese florido, pieno di guadagno facile, l’economia andava a gonfie vele, grazie alle società piramidali. E’ stata una scelta affrettata. Sono ritornata e ho lavorato per un po’ di tempo al quotidiano "Koha Jone", dove mi stava andando anche bene perché mi avevano dato da subito le prime pagine. Nel ’97 mentre il paese stava andando a fuoco per le rivolte, mi sono trovata a Valona, era surreale, si sparava ovunque, caos totale, una vera guerra, persino i bambini si vedevano andare in giro armati come se niente fosse. A un certo punto hanno evacuato tutti i giornalisti perché si trovavano in pericolo, tutti sono andati all’estero temporaneamente, e io sono venuta a Roma. Tra amici, conoscenti e colleghi ho trovato lavoro presso il Consiglio Italiano per i Rifugiati, ma ero sempre convinta che sarebbe stata una questione di giorni e sarei rientrata in Albania, l’Italia non mi stimolava granché. Poi ho visto che l’Albania stava precipitando e mi sono detta: vado o in Francia o negli Stati Uniti. Ma quando avevo finalmente deciso, ho conosciuto l’uomo della mia vita, un romano, che oggi è mio marito. Oggi invece non c’è giorno che non dica a mio marito: ma perché non emigriamo da questo paese? Vorrei far diventare emigrante anche lui, che non vorrebbe emigrare per nessun motivo al mondo. Ma non si sa mai…
Concepito come una breve saga "Rosso come una sposa" percorre anche la storia dell’Albania. E’ stato un mezzo per presentare al pubblico italiano, l’Albania sotto un’altra luce anche in questo senso?
Sì. Ma ho sempre immaginato un pubblico internazionale. Volevo che fosse comprensibile anche per qualcuno che lo vuole pubblicare in Tanzania. Non l’ho scritto solo per il pubblico italiano, perché rischierebbe di diventare qualcosa di folcloristico, un trucco per motivi editoriali, nel senso di folclore come di solito si intende in Italia. Non volevo che venisse trattato come qualcosa di esotico, come si usa quando si è osservati come "animale da baraccone". Io non volevo questo, volevo sì trasmettere un’altra cultura ma non necessariamente esotica. Volevo semplicemente raccontare in qualche modo la mia storia, ma non la storia del mio paese, perché non ho né le pretese né la capacità. Però può essere che involontariamente abbia riportato un affresco della storia albanese. Io volevo portare una storia femminile, parlare delle donne del sud albanese, ma non in senso folcloristico. Volevo ricostruire l’universo femminile di quelle donne, che trovo estremamente interessante, non solo per gli italiani ma anche per gli albanesi perché anche loro lo conoscono poco – ne sono convinta. Ma di questa storia volevo fare qualcosa di umano e di universale.
Dal suo libro si crea l’impressione che la società albanese sia una società fortemente matriarcale, mentre specie nei media italiani siamo abituati a raffigurarla come estremamente patriarcale, si parla indiscriminatamente del Kanun…
E’ molto semplice, il matriarcato e il maschilismo sono i lati della stessa medaglia. E’ un fenomeno diffuso in tutte le società mediterranee e anche in quelle arabe, alla fine si viene a creare un circolo vizioso. La donna partorisce il maschio, che è la cosa più felice che le possa capitare, e lo alleva come il futuro capofamiglia, cui lei trasmetterà tutto il suo potere quando diventerà suocera. E’ tutto coerente a mio avviso. Ci sono anche donne che non vedono l’ora di diventare suocere. Una volta suocera la donna darà poi il potere al figlio, che dal canto suo attribuirà a lei il potere di guidare la famiglia. La direzione famigliare ha sempre riguardato le donne. C’è il detto albanese "l’uomo in casa non è che ospite" perché quella che porta avanti la casa è sempre la donna. Mi interessava raccontare di questa assenza degli uomini. Ma ci sono anche differenze, come sintetizzava Indro Montanelli con "L’Albania una e mille" in modo più che appropriato, l’Albania ha una popolazione estremamente eterogenea nonostante sia un territorio esiguo, ci sono diversissime tradizioni, è diversa l’organizzazione sociale ecc. A nord forse è più pronunciato il maschilismo, c’era il Kanun di Lek Dukagjini. Mentre nel sud si aveva una situazione completamente diversa, c’era un altro Kanun, il Kanun della Laberia che è caduto in disuso da molto tempo, e anche l’organizzazione famigliare è molto diversa rispetto al nord. La donna del sud – se ne parla molto nel nostro folclore – è sempre stata più esposta alla vita pubblica, era una protagonista persino delle rivolte anti-turche, e anche durante la Seconda guerra mondiale la donna del sud ha avuto un ruolo importante. E’ sempre stata più indipendente, agile, e determinante nella vita pubblica. Ma, nel mio libro, non ho riportato riflessioni di qualche studio in materia, sono stata fedele ai miei ricordi, ho scritto quanto ricordavo della mia infanzia e dei racconti dei miei familiari.
A un certo punto del romanzo si vede una nonna che prega anche in moschea, anche in chiesa, anche in una tekkè… C’era questa sovrapposizione di religioni anche prima del caos prodotto dal comunismo?
Si tratta della convivenza delle religioni in Albania. Non l’ho inventato io e non ne parlo solo io. Tutti gli albanesi sono ben consci della loro convivenza civile e armoniosa tra le religioni. Forse è dovuto al fatto che all’inizio erano tutti bizantini, poi alcuni sono diventati cattolici, ai tempi degli ottomani altri sono diventati musulmani, altri sono rimasti ortodossi, e alla fine non ci hanno capito più niente, e hanno lasciato le cose come stavano. E’ qualcosa di molto positivo, perché dimostra che non siamo poi così sanguigni come ci descrive la storia, è molto significativa la convivenza di diverse religioni in un territorio così piccolo. E’ un buon esempio da seguire in un mondo dove si parla di conflitto di civiltà, di religioni che si fanno guerra e così via, mentre noi siamo riusciti a convivere pacificamente in un territorio minuscolo senza il minimo conflitto. Ma io non faccio trattati filosofici o religiosi, perché della religione non ci ho ancora capito niente. Sono cresciuta atea, negli anni ’90 ho rovistato un po’ tra le mille religioni che sono arrivate in Albania ma rimango fedele al materialismo dialettico. Mi convince più di qualsiasi altra religione.
Tornerebbe a vivere in Albania?
Mai dire no! Ma non ci ho mai pensato. Non faccio parte della categoria dei migranti che partono per guadagnare i soldi necessari per aprire un negozietto nel centro del paese, come facevano gli italiani negli anni ’50. Poi io l’Albania l’ho lasciata, ho avuto ciò che mi poteva dare. Sto pensando di andarmene anche dall’Italia perché oggi è un paese che non offre più niente a nessuno ma ovviamente non per tornare in Albania. Il mio paese ideale sarebbe il Kenya. Un giorno ci andrò. Invece, se tornassi in Albania adesso sarei una straniera, sarebbe un doppio sforzo, è più facile andare in un paese nuovo, e costruire tutto daccapo. Se ci ritornassi mi metterei a cercare la mia infanzia, e riviverla non mi sembra possibile. Lo faccio anche per proteggermi.