Romanzo di Londra: un grande, bizzarro palcoscenico
È uscito recentemente Romanzo di Londra di Miloš Crnjanski, uno dei maggiori scrittori dell’ex Jugoslavia e dell’Europa del ‘900, emigrato a Londra dal 1940 al 1965. Una recensione di Božidar Stanišić, autore della postfazione
Una strana “avvocatura”
Sostengo, come altre volte, che sui miei incontri, sulla mia corrispondenza o sui colloqui con gli editori italiani potrei scrivere un romanzo documentario. Un’opera, naturalmente, tragicomica e, suppongo, del tutto inutile. Neppure le traduzioni dei due volumi di Migrazioni, o del poema Lamento per Belgrado, o del Diario di Čarnojević rappresentavano un’argomentazione abbastanza convincente per i miei tentativi di far uscire di Miloš Crnjanski in italiano – fra gli altri inediti – le sue opere Dalla terra degli Iperborei e Libro su Michelangelo. Un editore ha obiettato che di Crnjanski parlavo come fossi il suo avvocato! Ed ecco che Romanzo di Londra in edizione italiana è uno dei soggetti della suddetta “avvocatura”. Ci arriva, finalmente, proprio in un momento della storia italiana ed europea dominata da un’idea politica sui migranti che li riduce a una cifra, al genere neutro e, soprattutto, a un’eccedenza nell’attuale dramma della globalizzazione, delle sue conseguenze e degli effetti collaterali. Tutto il resto, dall’empatia alla solidarietà con gli espatriati, è oscurato dal predominio di quell’idea.
Emigrante – sinonimo di traditore
La vita dello scrittore Crnjanski rappresenta una componente essenziale di quella difesa, vita in cui un posto preminente spetta al suo periodo da emigrante a Londra (1940-1965), e in questo periodo ai suoi giorni più cupi, senza i quali questo romanzo probabilmente non esisterebbe neppure. Comunque, Crnjanski continuò a scrivere, senza pensare se i suoi manoscritti avrebbero mai visto la luce in una patria in cui la stessa parola “emigrante” era sinonimo di “traditore”. Lo faceva senza sosta, così che il suo è uno di quei rari esempi in cui possiamo parlare di maledizione della penna. Dolce e amara; dolce perché crea l’illusione di un tentativo di stabilire un collegamento con la propria sorte, amara perché gli conferma che nella resa dei conti con il mondo è comunque un perdente.
Ma non è tutto.
Crnjanski è l’unico scrittore al mondo che in vita abbia avuto l’esperienza di essere proclamato morto. Nel saggio Tri mrtva pjesnika (Tre poeti morti, 1954), il poeta Marko Ristić, un tempo suo amico, seppellì Crnjanski assieme a due altri poeti, Paul Éluard e Rastko Petrović. A quel funerale Crnjanski rispose con il poema Lament nad Beogradom1 (1956). Nove anni dopo, con il consenso delle autorità comuniste, tornò a Belgrado, con la moglie Vida. Ed ecco Crnjanski, nuovamente un “traditore”, ma questa volta per l’emigrazione anticomunista in Inghilterra e in Europa. Di questo, dicono, dopo l’arrivo a Belgrado non parlava volentieri. Alla domanda di un giornalista che cosa, dopo tanti anni di vita da emigrante, rimpiangesse, rispose che gli dispiaceva che ora avrebbe incontrato tutte quelle giovani donne della sua gioventù divenute ormai vecchie nonne. E poi nel 1971, con Romanzo di Londra, vinse il Premio NIN per il romanzo dell’anno: 750 pagine in edizione serba di eccezionale conferma che per Crnjanski la scrittura coincideva con la vita. La quale, riteneva, di qualunque genere fosse, non è normale se un uomo non la vive nel suo paese.
Un ricordo personale
Mio padre Velimir era un amico di Srđa Prica, che al tempo dei preparativi del ritorno di Crnjanski in patria era ambasciatore jugoslavo a Londra (allora ero un bambino, non sapevo né chi fossero gli ambasciatori, né chi fosse Crnjanski, né perché lo scrittore vivesse fuori dal nostro paese). Una decina d’anni dopo, Prica raccontò a mio padre come reagì Tito quando gli presentò il "problema Crnjanski".
“Ma che cosa fa là?”
“Scrive…”, rispose Prica al Maresciallo.
“Se scrive là, allora può farlo anche qui…”
Un russo fuori posto
Credo che anche ai lettori italiani non mancheranno degli interrogativi sul modo di scrivere di Crnjanski. Penso, prima di tutto, alla sua narrazione con cui crea un’illusione di completa chiarezza del romanzo e di trasparenza dei suoi personaggi, fra i quali emerge non solo il suo protagonista Repnin, emigrante russo, ma anche Londra: metropoli che vive la sua metamorfosi postbellica in città dominata dalla musica del denaro e del profitto, nel cui abbraccio vivono milioni di sudditi che la ferrovia sotterranea inghiotte al mattino e vomita la sera.
Ma si tratta solo dello scontro fra la metropoli e il nipote del nobile anglofilo Anikita Repnin, che nel bambino Nikolaj aveva creato l’immagine idealizzata dell’Inghilterra e della sua cultura? A questa domanda retorica occorre aggiungerne altre, fra cui anche quella sulla decisione di uno scrittore emigrante serbo di creare il personaggio di un russo. Per questo Crnjanski aveva una risposta concisa, che, parafrasando, faceva riferimento alla miseria dell’emigrazione jugoslava a Londra degli anni ’40 e ’50 del secolo scorso. E una risposta su Londra e sull’esilio in quella città, metafora del rifiuto degli altri e dei diversi che non accettano di rinunciare alla propria identità e alle proprie idee sul mondo, ci viene data dal suo principe Repnin. Che è stato un soldato, ed è rimasto tale, anche dopo la sconfitta dei bianchi nella guerra civile in seguito alla Rivoluzione d’Ottobre. Che crede nell’onore e nella parola data, anche in un mondo dominato dal denaro.
E quando alla fine del romanzo ci pare che sia tutto chiaro, il viaggiatore della metropolitana londinese che un giorno del primo inverno postbellico è sceso dal vagone e, come uno spettro, si è avviato alla casa di Mill Hill, dove l’aspetta sua moglie Nadja, iniziando anche il suo cammino verso il suicidio, ecco in quel momento, sono convinto, sentiamo la necessità di rileggerle tutte le sue, per molti oggi spaventose, 900 pagine in italiano di quest’opera. Essa ci parla delle metamorfosi dell’emigrante Nikolaj Rodionovič Repnin in contabile di una bottega di calzolaio, distributore di libri e stalliere, e della sua Nadja in sarta per bambole e, in seguito, emigrante in America. Ma queste sono solo trasformazioni esteriori, relative allo status, di questa coppia in una metropoli spietata, in cui, se un uomo non è useful, non esiste, e poco importa se è ancora vivo. Le vere metamorfosi avvengono nella psiche di Repnin e conferiscono a questo romanzo un carattere filosofico.
Quanto è difficile intuire se il principe di Crnjanski, qualora non avesse lasciato la Russia, l’avrebbe pensata diversamente sulla gioventù e la vecchiaia, l’amore e il sesso, il sud e il nord, i grandi personaggi della storia e le persone normali, la morte e il t[]e di questa nella miseria? Ma sappiamo che una dimensione non sarebbe esistita nella psiche del principe Repnin, la dimensione della vita in un paese straniero, anche nella sua elementarità: essere altrove, diventare qualcun altro.
Malgrado tutto però, non dimentica una consapevolezza acquisita in terra straniera: il ricordo è un sollievo, che apre gli spazi luminosi del passato.
Un anticonformista nella città Leviatano
Le paure del principe Repnin sono le paure di Crnjanski, emigrante a Londra. Nel suo romanzo, l’opera più grande della letteratura mondiale scritta sul tema dell’esilio e della dispersione dei destini in un mondo di disordine, il suo Repnin teme di finire nella miseria, come dice, in un rigagnolo. E teme, soprattutto, che questa sia la sorte di Nadja. E quella paura si presenta in Repnin ogni volta che pensa alla vecchiaia in terra straniera. Gli pare che non esista altro romanzo se non un lungo racconto sulla gioventù e la vecchiaia.
Ci può sembrare che l’emigrante di Crnjanski sia angosciato dalla morte come lo furono anche Michelangelo e Kierkegaard. Ma egli teme la vecchiaia in un paese straniero più che la morte. E la fine, senza dignità. Tutto ciò in una città che è un Leviatano, che parla tante lingue, ma soprattutto una, quella dello straniamento e dell’egoismo.
Londra da lui pretende il conformismo, ma il protagonista del romanzo non è mai riuscito a uscire dai ricordi. Solo un conformista sa come si conquista un paese straniero e come vi si trova il proprio posto e ruolo. A misura degli abitanti del luogo, naturalmente. Ma è un ruolo, in ogni caso. Ma Repnin, anticomformista in tutto, non riesce a vivere in altro modo. A ciò contribuisce, ripeto, anche il fattore dell’invecchiamento: finché era giovane, Nadja e lui si erano trovati bene in Portogallo, e in Italia, e in Francia… Ma in una Londra, fra milioni di abitanti, egli, più che vivere, vegeta. Malgrado tutto però, non dimentica una consapevolezza acquisita in terra straniera: il ricordo è un sollievo, che apre gli spazi luminosi del passato.
Le betulle, gli scoiattoli e la neve
A Repnin basta ricordare le betulle, gli scoiattoli e la neve del villaggio di Naberežnaja. E quel nome suona come la prossimità di un sogno. Ed è felicità, strana e rara a Londra. Prima di avviarsi al suicidio, come a un ballo, come a una passeggiata serale, in Repnin la nostalgia viene risvegliata dalle fotografie di uno di quei pochi libri a cui si è ridotta la sua biblioteca (Kundera ne L’ignoranza ritiene l’Odissea l’epopea fondatrice della nostalgia. Questo autore ceco ci ammonisce anche che la soglia critica dell’assenza dalla patria è un periodo di vent’anni. Poi, il ritorno non è più né positivo né logico). Repnin è fuori già da venticinque anni. Egli vive in terra straniera, convinto che nessun uomo ne avrebbe davvero motivo. E che là dove è nato dovrebbe invece attendere tranquillamente la morte. Per questo Repnin, prima di accingersi a scendere dal grande, bizzarro palcoscenico, dice: Se potessi, domani tornerei a Mosca, o a Pietroburgo, in qualsiasi situazione mi trovassi (…) Vivere nel proprio paese è logico, di qualunque vita si tratti. In terra straniera, no.
Post scriptum
“I media serbi e bosniaci hanno mai parlato delle edizioni italiane delle opere degli scrittori provenienti dalla ex Jugoslavia che hai curato, o delle opere che hai proposto alle case editrici italiane?“, mi ha chiesto recentemente un mio amico italiano.
“Solo una volta, in occasione dell’uscita dell’edizione italiana di un libro di Predrag Finci. Ne ha parlato il quotidiano di Sarajevo Oslobođenje…“, gli ho risposto.
“Solo in quell’occasione! Questo ti dà fastidio?“
“Fastidio? E perché dovrebbe darmi fastidio? Io provengo dalla regione più lussuosa d’Europa“.
“La più lussuosa? Non capisco!“
“Caro amico, dovresti essere nato lì per capirlo… Ma non sei nato lì. Perciò parliamo di qualcos’altro, qualcosa di più allegro…“.
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Miloš Crnjanski: Lamento per Belgrado, Il ponte del sale – Rovigo 2010, prefazione di Massimo Rizzante con uno scritto di Božidar Stanišić