Romania, gli emigranti non tornano a casa
Negli anni passati, per molti romeni (provenienti soprattutto dalle zone rurali) l’emigrazione ha rappresentato un’occasione di riscatto economico e sociale. Oggi la crisi ha cambiato le prospettive, ma il ritorno in Romania non sembra una strada percorribile, e il futuro appare pieno di incognite
“È davvero dura qui. Lavoriamo di più e siamo pagati di meno… turni di tredici e quattordici ore in lavori di ristrutturazione sono diventati la norma. Mio fratello ed io siamo fortunati a trovare ancora lavoro qua e là a Madrid. Ma penso che quest’estate non potremo permetterci di tornare a casa. È la prima volta in sette anni che non lo facciamo. Abbiamo sempre mantenuto le spese al minimo, abbiamo comprato il cibo più scadente e non abbiamo acquistato un’auto vistosa, anche quando i tempi erano migliori. Abbiamo risparmiato per costruire una casa in Romania e avere dei soldi per i tempi difficili. Ma adesso guadagniamo a malapena per un appartamento sovraffollato, il cibo e duecento euro al mese da spedire alla nostra famiglia in Romania”.
Miti logori
Nicu Pop è sempre stato un inguaribile ottimista, ed è evidente che questa triste conversazione non è da lui. I suoi colleghi lo hanno sempre preso in giro per il suo ottimismo sconfinato. Ma la situazione, oggi, è abbastanza cupa da oscurare le aspettative anche dei più resistenti tra i lavoratori romeni impiegati nel settore edilizio spagnolo ed irlandese, un tempo in forte espansione. E con questi Paesi che scricchiolano sotto l’austerità fiscale e con i loro paesaggi urbani pieni di case vuote di recente costruzione, è chiaro che i posti di lavoro nell’edilizia, la nicchia di mercato di lavoro preferita dai lavoratori immigrati romeni, non torneranno mai più.
“Per anni ho fatto gli straordinari, ed ero disposto a mettere le mani sul fuoco se il datore di lavoro lo avesse chiesto. Ora però tutto sta cadendo a pezzi, e non ho idea di cosa fare. Alcuni dicono che dovremmo andare altrove in Europa, ma i miei unici contatti sono a Dublino. E nemmeno lì c’è lavoro. Forse dovrebbero radunarci tutti e spedirci a casa, così non avremmo più illusioni sul fatto che qui contiamo qualcosa”.
I miti sulle ricompense del duro lavoro fisico sono crollati tra i romeni emigrati in questi anni, in gran parte giovani uomini provenienti da zone rurali, la cui unica esperienza lavorativa prima dell’emigrazione era stata la massacrante attività agricola in un villaggio della Transilvania o lunghi spostamenti per lavorare in fabbrica, spesso con turni duri e bassa retribuzione.
Tuttavia, la diminuzione delle opportunità lavorative in Spagna ed Irlanda non ha provocato una massiccia emigrazione di ritorno verso la Romania. Al contrario, secondo le statistiche del governo di Bucarest, quasi mezzo milione di romeni ha presentato domanda e 140.000 hanno ottenuto un contratto di lavoro in Europa occidentale attraverso l’agenzia di collocamento governativa. Mentre Italia e Spagna sono state le destinazioni preferite durante l’ultimo decennio, nel 2010 la maggior parte di coloro che sono partiti hanno fatto ingresso nel mercato britannico e tedesco, con l’agricoltura ad assorbire la maggior parte dell’afflusso.
Niente ritorno a casa
Perché i romeni continuano a partire e perché gli immigrati disoccupati e sottoccupati non hanno fatto ritorno? In primo luogo, la maggioranza degli emigranti sono partiti da regioni rurali, dove si trovavano di fronte alla prospettiva di un’agricoltura di sussistenza, a sussidi di disoccupazione estremamente bassi ed a breve termine, con difficoltà d’accesso ai servizi pubblici e un’estrema scarsità di lavoro salariato. Per quanto possa essere difficile la vita nelle case popolari degli immigrati a Barcellona o Dublino, almeno ci sono i recenti ricordi del successo economico a cui gli immigrati possono attingere per mantenere la propria capacità di resistere durante la crisi.
Oltretutto, in Europa occidentale gli immigrati possono restare a galla durante la crisi grazie ad una combinazione di livelli accettabili di sussidi di disoccupazione e un ottimo accesso all’assistenza sanitaria, elementi questi molto insoddisfacenti in Romania. Inoltre, decine di migliaia di famiglie di immigrati hanno bambini che sono nati nei Paesi di destinazione o sono andati a scuola lì.
Per questi bambini la lingua romena è la lingua che parlano a casa con genitori e fratelli, magari in forma dialettale, piuttosto che la lingua della maggior parte delle loro attività quotidiane. Senza un’esposizione al sistema scolastico romeno, dove è insegnato il romeno standard, è probabile che questi bambini incontrerebbero difficoltà a scuola se fossero “riportati” al sistema d’istruzione romeno.
Al contrario, pur essendo socialmente gratificante, la vita di villaggio in Romania offre poco in termini di speranza. Durante l’ultimo decennio, l’interazione tipica tra lavoratori emigranti e le loro comunità d’origine avvenuta durante le vacanze di agosto e alla fine di dicembre, quando i villaggi ritornano alla vita con gli emigranti che riempiono i pub, lavorano alla costruzione di grandi case e sfoggiano auto semi-nuove.
Ritornare nello stesso posto a metà novembre o all’inizio di febbraio è una cosa diversa. Come dice scherzando Tabara Marin, un camionista licenziato che ha trascorso cinque mesi in disoccupazione in Spagna, “mia moglie ed io vivevamo in un’angusta casa popolare ad Almeria (Spagna), orari di lavoro pazzeschi e così via. Poi entrambi abbiamo perso il lavoro e non trovavamo nulla, non importa quanto cercassimo, e abbiamo anche pensato di superare i tempi duri, approfittando dei sussidi, e di tornare a vivere nel nostro villaggio natio. Dopo un mese, però, mi volevo suicidare…Fango sulle strade, età media sui settant’anni… Il miglior lavoro che puoi trovare è fare il contadino per un delinquente del posto, che paga sei euro al giorno. Quindi abbiamo deciso, ritorneremo in Spagna. Almeno lì possiamo sperare che la crisi passerà e che troveremo un lavoro, mentre qui, anche quando ritorneranno i tempi buoni, i lavori resteranno malpagati, l’ospedale sarà sempre un buco e la scuola continuerà a cadere a pezzi”.
Prospettive grigie
Fin dall’inizio della modernizzazione economica della Romania nel XIX secolo, l’industria e i servizi potevano contare su un esercito di manodopera a basso costo, proveniente dai villaggi. Questo è stato il caso soprattutto durante l’esperienza romena di sviluppo economico (neo)stalinista, quando la crescita a rotta di collo nell’industria ha lasciato nelle campagne quasi metà della popolazione.
Durante gli ultimi dieci anni è stato il boom immobiliare dell’Europa meridionale e dell’Irlanda a beneficiare dell’afflusso di quasi due milioni di giovani romeni, la maggior parte dei quali proveniente dai villaggi, ma disposta a lavorare in cambio di salari bassi e munita di almeno dieci anni d’istruzione e di una certa esposizione alle competenze di formazione professionale.
Adesso che la bolla immobiliare è scoppiata e il loro Paese d’origine offre loro ben poco, oltre a salari molto bassi e uno smantellamento sistematico dei diritti dei lavoratori, la più dinamica gioventù rurale della Romania affronta una lunga e scoraggiante traversata verso un’incertezza e precarietà ancora maggiori.
Come dice Nicu Pop con un sorriso sarcastico, “dopo che i lavori e i sussidi di disoccupazione saranno finiti e quando saranno esauriti i nostri risparmi, non avremo altra scelta che tornare a casa, senza illusioni, e lavorare la terra, come i nostri nonni. Non è proprio quello che avevamo in mente in tutti questi anni, ma almeno mangeremo pomodori biologici e carne senza additivi chimici, cosa che nemmeno i ricchi di Madrid possono permettersi”.