Romania, a chi appartiene il corpo delle donne?

Il nuovo report di Human Rights Watch fotografa una situazione preoccupante: in Romania l’accesso all’interruzione di gravidanza è sempre più difficile. Complici l’aumento dei centri antiabortisti e una sanità pubblica carente, i diritti delle donne romene sono messi in discussione

02/05/2025, Sara Varcounig Balbi -

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© illustrissima/Shutterstock 

Nina ha 19 anni, è incinta e vuole abortire. Chiede aiuto al suo medico di base ma lui le nega assistenza. Si rivolge ad un ospedale ma non praticano questo servizio. Non sapendo chi contattare, Nina decide di cercare su internet e si imbatte in una clinica antiabortista che la terrorizza e la raggira.

Le settimane passano, supera il termine entro cui poter chiedere un’interruzione di gravidanza e si ritrova da sola. Abbandona il proprio lavoro e l’università, costretta a tenere una gravidanza che non vuole. A distanza di anni soffre ancora per non aver avuto una possibilità di scelta e per non aver potuto seguire liberamente le proprie ambizioni. “Forse è per questo che non riesco a legare bene con mio figlio”, confida all’intervistatrice. 

Kai ha 22 anni, è una studentessa di Bucarest, ed è rimasta incinta dopo aver subito una violenza sessuale. Anche lei non trova assistenza e s’imbatte su internet in una clinica antiabortista. Dopo vari tentativi, grazie all’aiuto di un’associazione, riesce a trovare un ospedale pubblico che le pratichi un’interruzione di gravidanza.

Aspetta l’intera giornata e la notte in ospedale e il giorno successivo, durante l’intervento, viene sottoposta a violenza ostetrica e a dolori forti. Terminata l’operazione, Kai chiede aiuto ad un’infermiera che con sgarbo le risponde: “Beh la prossima volta starai più attenta”. 

Le storie di Nina e Kai sono solo due esempi di quanto succede alle donne e alle ragazze romene che vogliono abortire. Un diritto garantito dalla legge ma ostacolato nella realtà. 

“Avortul e un serviciu esențial de sănătate publică”

Secondo la normativa vigente, in Romania, l’interruzione volontaria di gravidanza (ivg) è permessa entro le 14 settimane ed entro le 24 per motivi medici. Parallelamente, come in altri stati europei, al medico e al ginecologo viene garantito il diritto all’obiezione di coscienza ovvero la possibilità di rifiutare l’intervento poiché “contrario ai propri valori morali”, con l’obbligo di indirizzare la paziente altrove.

Un sistema che sembra bilanciare i diritti, ma che funziona solamente sulla carta. Infatti, secondo l’ultimo report di Human Rights Watch (HRW), le donne romene sono costrette ad affrontare blocchi, ostacoli e un ambiente fortemente ostile. 

Citando un po’ di dati, Balkan Insight riporta come – secondo l’Associazione delle ostetriche indipendenti (Asociația Moașelor Independente) – almeno l’80% degli ospedali pubblici sul territorio nazionale non offre la possibilità di avere un’interruzione di gravidanza. In queste strutture, l’associazione ha anche rilevato che il 90% dei medici obiettori non adempie all’obbligo di indirizzare la paziente verso un altro dottore, in contrasto con quanto previsto dalla legge. 

Il problema nel settore pubblico è rappresentato anche dalla mancanza di trasparenza. HRW riporta come, nella maggior parte dei casi, gli ospedali non dichiarino ufficialmente di essere contrari all’aborto ma nella pratica lo diventino sulla base di una decisione amministrativa informale e non verbalizzata.

Intervistati per il report, alcuni medici romeni hanno riferito di “regole non scritte” ma conosciute da tutto il personale ospedaliero. Si crea così una situazione di incertezza diffusa, nella quale la scadenza delle 14 settimane si avvicina ma non si sa a chi fare affidamento.

Queste criticità si sono aggravate ulteriormente nel periodo post-pandemico, con il mancato ripristino del servizio di ivg nelle strutture che l’avevano sospeso temporaneamente. In questi casi, la giustificazione addotta è stata la mancanza di spazio o del personale necessario per garantire un servizio ritenuto “non essenziale”. 

Secondo Radu Vlădăreanu, vicepresidente della Società romena di ostetricia e ginecologia, la responsabilità ultima è del ministro della Salute. A causa del termine massimo di settimane in cui può essere effettuato, per Vlădăreanu l’aborto è un “servizio di emergenza” e perciò dovrebbe essere garantito negli ospedali pubblici.

Anche il rapporto di Human Rights Watch punta il dito contro le autorità statali, sostenendo che “non solo non tutelano i diritti alla salute sessuale e riproduttiva, ma spesso contribuiscono attivamente ad impedire alle donne e alle ragazze di esercitare tali diritti”.

Oltre alla questione dell’aborto, il report infatti sottolinea come il problema sia sistemico, evidenziando carenze anche dal punto di vista dell’accessibilità ai contraccettivi e dell’educazione sessuale nelle scuole. Due fattori che contribuiscono a causare uno dei tassi più alti d’Europa di gravidanze adolescenziali, con impatti sui risultati educativi, salariali e di benessere psicologico delle giovani romene. 

Per ora, per chi se lo può permettere, la soluzione è rivolgersi alle cliniche private, dove abortire costa tra i 200 e i 5000 Lei (circa tra i 240 e i 1000 euro). Una spesa che, per chi vive nelle zone rurali, aumenta a causa dei costi dei trasporti. Così, il diritto all’aborto si trasforma in un privilegio che segue le divisioni strutturali della società e che viene negato alle donne più povere, vulnerabili e marginalizzate. 

“Vuoi abortire? Hai bisogno di aiuto o di informazioni? Siamo qui per te!”

Il sito avort.ro rappresenta un esempio di come le associazioni antiabortiste riescano ad entrare in contatto con chi cerca di interrompere una gravidanza. Fingendo di voler dare aiuto, il sito indica un numero di telefono che fa riferimento ad un centro per la “criza de sarcină” ovvero “crisi di gravidanza”, un termine utilizzato dagli antiabortisti per indicare il momento in cui si considera l’ipotesi di ivg. Queste strutture, nate su ispirazione statunitense, si sono rapidamente diffuse in Romania e rappresentano una delle minacce più pericolose per i diritti delle donne. 

Intervistata dal Guardian, Andrada Cilibiu del Centrul Filia, un’associazione femminista, ha sottolineato come queste organizzazioni cerchino di ostacolare l’aborto attraverso il senso di colpa e la disinformazione. “Le informazioni che forniscono, di solito, non hanno alcun fondamento medico. Al contrario, usano la paura” spiega Cilibiu.

Dai falsi appuntamenti per abortire con dottori inesistenti a tecniche di vera e propria manipolazione emotiva, come l’ascolto del battito del feto e la diffusione di video terrificanti sull’ivg: questi centri usano qualsiasi mezzo. L’obiettivo è far superare il termine delle 14 settimane, in modo tale che non sia più possibile effettuare un aborto.

Avendo avuto un’esperienza di incontro con queste realtà, l’attivista Irina Mateescu ha raccontato : “Ti mettono un sacco di pressione per tenere la gravidanza. Tutto veniva tramutato in un ti aiuteremo noi ad avere ciò di cui hai bisogno”. Mateescu ricorda anche come lo staff del centro chiamasse quotidianamente per cercare di farle cambiare idea. “Alla fine sono riuscita ad abortire ma non a liberarmi delle persone del centro” afferma “Mi hanno perseguitato”.

Oltre alle loro tattiche vessatorie, la pericolosità delle strutture per “la crisi di gravidanza” è nella loro rete di sostegno. In primis, un network internazionale. Diverse fonti documentano come i centri vengano finanziati dall’estero da movimenti antiabortisti di estrema destra e dalle associazioni cristiane “ProVita”.

L’esistenza di una rete transnazionale antiabortista era già stata dimostrata nell’inchiesta Bodies under siege della giornalista Sian Norris [in Italia: “Corpi sotto assedio” pubblicato da People, 2024] ma nello specifico, in Romania, è stato ricostruito un intreccio di finanziamenti che lega questi centri ai corrispettivi statunitensi in un rapporto di networking, advocacy, lobbying e raccolta fondi. Per fare un esempio , i primi centri a Oradea sono nati sulla base di movimenti cristiani evangelici degli USA. 

In secondo luogo, queste strutture hanno trovato terreno fertile all’interno di una società con una forte presenza religiosa conservatrice. Nel 2022, il Ministero della Salute ha rinnovato un protocollo d’intesa decennale con la Chiesa ortodossa romena e, sebbene non si parli apertamente di diritti riproduttivi, diversi attivisti concordano nel dire che faciliterà un condizionamento d’impronta religiosa, già presente in alcune realtà locali come l’ospedale “Elena Doamna” di Iași.

Allo stesso tempo, a livello statale, diversi enti pubblici hanno avviato delle collaborazioni, formali e informali, con i centri per la “crisi di gravidanza” permettendo loro di ottenere riconoscimento sociale e di accedere alle strutture sanitarie pubbliche. Il report di Human Rights Watch cita il caso del ministro del Lavoro e della Protezione Sociale che ha accreditato “Central PULS”, uno dei maggiori centri antiabortisti, come erogatore di servizi sociali. 

“Oggi il corpo delle donne romene appartiene alla società, ai loro mariti, non a loro stesse” sentenzia cupa Mateescu. Daniela Draghici, avvocata per i diritti riproduttivi, ricord a ancora quando nel 1966 Ceaușescu impose il divieto d’aborto , causando almeno 10mila morti. La sua preoccupazione è che quella memoria vada dimenticata.

Le fa eco Song Ah Lee, autrice del report di HRW: “Gli attivisti hanno lottato per decenni per ripristinare i diritti sessuali e riproduttivi nel loro Paese. Oggi si confrontano con un livello di regressione preoccupante.

La Romania dovrebbe ricordare la propria storia distruttiva e rispettare pienamente i diritti delle donne e delle ragazze”. Per non tornare ad un passato oscuro, per permettere a ragazze come Nina e Kai di poter decidere liberamente sul proprio corpo, la Romania deve invertire la rotta e rimettere le decisioni sulla propria salute sessuale e riproduttiva in mano alle donne romene.

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