Rock jugoslavo
La storia della scena pop rock jugoslava dagli esordi alla Novi Val. La decadenza del turbofolk, i segnali di riscatto. Intervista con Amir Misirlić, autore del Bosanskohercegovački pop rock leksikon e corrispondente musicale da Sarajevo per il belgradese Politika
Come si è sviluppata la scena musicale pop rock in Jugoslavia e in particolare in Bosnia Erzegovina?
Inizierei col dire che questa scena è stata incredibilmente significativa per diverse ragioni. La Jugoslavia è stata l’unico paese al di là della cortina di ferro a passare attraverso il rock’n’roll. Le cose hanno iniziato a muoversi a Belgrado e a Zagabria dagli anni ’60, con l’apparizione dei primi gruppi, allora chiamati "električari". L’ostacolo della lingua sembrava insormontabile e la maggior parte delle band suonava solo strumentale. Sarajevo è rimasta un po’ in disparte fino alla pubblicazione dei primi pezzi degli Indexi alla metà degli anni ’60. È interessante notare che il rock’n’roll non arrivava direttamente dai paesi anglosassoni, bensì in gran parte dalla Francia e soprattutto dall’Italia, attraverso le giostre. I giostrai itineranti di solito arrivavano dall’Italia e la musica che portavano era quella in voga in quel momento. In questo modo la Jugoslavia ascoltava per la prima volta alcune hit internazionali dell’epoca. Verso la fine del decennio si è sviluppata una scena autoctona e nel 1967 gli Indexi hanno composto la prima canzone d’autore della storia del rock jugoslavo: "Pružam ruke". Negli anni ’70 in Jugoslavia domina la scena sarajevese, con due nomi chiave: i Bijelo Dugme e Zdravko Čolić. In particolare i Bijelo Dugme sono i primi a mostrare che in Jugoslavia il rock’n’roll può essere un business importante, sono i primi a vendere 100.000 dischi e anche i primi a essere censurati.
Cosa succede negli anni ’80?
All’inizio del decennio la Novi Val – New Wave – si sviluppa a Belgrado (Idoli, Šarlo Akrobata, Električni Orgazam) e a Zagabria (Azra, Haustor, Film, Prljavo Kazalište), che riprendono il primato. Sarajevo è in ritardo non solo rispetto alla scena mondiale, ma anche a Belgrado e Zagabria, e questo ritardo fa sì che le influenze arrivino attraverso diversi filtri, siano rielaborate per qualche anno e alla fine esplodano solo con l’apparizione del movimento del Novi Primitivizam, con Zabranjeno Pušenje, Elvis G. Kurtović, Bombaj Štampa.
Esisteva un messaggio comune a queste band?
Sì, credo che fosse la volontà di non acconsentire alla primitivizzazione della società jugoslava. Ognuno si batteva a modo suo. Nella Novi Val si combatteva anche in modo diretto. Jhonny Štulić e gli Azra mostrano esplicitamente le loro posizioni, per esempio quando nel 1981 nella canzone "Poljska u mome srcu" La Polonia nel mio cuore dicono "non si mandano per due volte i carri armati sui lavoratori". In qualche modo sanno che l’Unione Sovietica non interverrà in Polonia, sebbene a quel tempo anche i politici siano convinti che ciò succederà. C’è un compositore ermetico come Milan Mladenović, prima negli Šarlo Akrobata e poi negli Ekv, che ha un suo modo di esprimersi introverso, ma parla di temi universali. I Prljavo Kazalište sono i primi a dire ad alta voce alcune cose sulla nostra società. Poi sono apparsi i New Primitives di Sarajevo, che hanno portato anche una buona dose di humor, sarcasmo e autoironia. Hanno biasimato l’apparizione di alcuni fenomeni sociali, hanno cantato storie di outsider, ma sempre con simpatia. Goran Bregović ha detto che gli Zabranjeno Pušenje sono l’unica autentica risposta jugoslava al punk perché fino ad allora qui il punk era stato presentato più come forma che come sostanza. È paradossale che alcune band che negli anni ’80 combattevano in prima linea il socialismo, vengano in fondo da esso favorite. Se non fosse esistito un tale regime di finanziamento della discografia, semplicemente non avrebbero avuto l’opportunità di registrare perché spesso non erano abbastanza commerciali. Oggi invece l’opportunità di registrare la ottengono quasi solo le band commerciali. In Jugoslavia il rock’n’roll ha espresso un certo tipo di ribellione, e la voglia di uscire fuori, almeno con la mente, da quel sistema.
Si sente molto spesso parlare di Jugonostalgija…
Sì, ma credo che non abbia molti fondamenti politici, quanto piuttosto rappresenti la storia di un comune codice culturale, di una mentalità comune, di uno stesso viaggio sentimentale attraverso il passato.
Il rock jugoslavo aveva un pubblico al di fuori del paese?
Molti musicisti sono stati delle grandi star nell’Europa orientale durante gli anni ’60 e ’70. Allora la Jugoslavia si è orientata più verso l’Est e ha utilizzato questa sua posizione tampone per fare in modo che nei paesi del blocco orientale giungessero quelle sonorità che non potevano arrivare in modo diretto. Così gli organizzatori dei concerti in Unione Sovietica, nella Germania dell’Est, in Polonia, in Cecoslovacchia, potevano dire: "Noi non organizziamo un concerto rock con degli artisti decadenti venuti dall’Ovest, ma con artisti di una nazione sorella socialista" e alla fine questa nazione sorella socialista veniva e suonava i classici del rock’n’roll. C’è stato anche qualche tentativo di aprirsi al mercato europeo, ad esempio alcune band hanno inciso in inglese. Ma senza grandi risultati, ad eccezione dei Laibach.
Quale relazione correva tra il cosiddetto "spirito di Sarajevo" e la scena musicale?
È difficile spiegarlo a qualcuno che non vive qua, ma direi che Sarajevo è una città che ama i suoi grandi nomi, ma non li fa soffrire. Una città in cui può apparire un fenomeno come quello del Novi Primitivizam, che ha portato all’estremo il concetto che nessuno va glorificato. Una città che è sempre sfuggita al culto della personalità in tutti i contesti e soprattutto nell’arte. I grandi artisti qua sono stati indotti a rimanere consci della loro dimensione umana. C’è un aneddoto molto conosciuto. Mentre il premio Nobel Ivo Andrić passeggiava per Sarajevo, due ragazzacci da una kafana gli gridarono: "Ciao, scrittore! Cosa scrivi?". In questo modo non volevano deriderlo, quanto esprimere un particolare amore e l’impossibilità di articolare il rispetto che sentivano. I musicisti di Sarajevo, per quanto fossero grandi in quel momento, quando hanno voluto sentirsi delle star sono andati a Belgrado o a Zagabria, dove hanno trovato la ressa davanti alle loro stanze d’albergo e la gente che li fermava per strada chiedendo autografi.
Cosa succede negli anni precedenti alla guerra?
Questa scena si sviluppa con un’eccezionale concentrazione di qualità fino al 1988. In quell’anno, quando esce il primo album dei Bombaj Štampa, si chiude la storia di queste band che hanno portato dentro di sé una tale energia e un tale messaggio. Poco dopo, subentra una nuova generazione, che non dico valesse di meno, ma non aveva quella intensità, quell’unità e quella fede nel fatto che il rock’n’roll possa cambiare il mondo, come era avvenuto nel periodo dal 1980 al 1988. Appena prima della guerra, inoltre, vediamo apparire terribili e distruttivi esempi di musica commerciale e kitsch, che assume il primato e pone le fondamenta di quello che più tardi verrà chiamato "turbofolk". E che sarà veramente l’espressione musicale del brutale affondamento dei valori morali in questi territori.
Come descriverebbe il turbofolk?
Da un punto di vista musicale, il turbofolk ha uno schema musicale molto semplice: un ritmo idiota, una melodia che entra facilmente nell’orecchio e un ritornello che viene ripetuto finché non rimane in testa. È musica per l’ascolto collettivo, per il sudore, per l’ubriachezza, e per mostrare le gonne più corte possibili. Dal punto di vista sociale, il turbofolk è musica per "sponzoruše". Intendo con questo termine le ragazze cresciute nel periodo bellico o in quello della transizione, che hanno osservato che era più facile e semplice, di questi tempi e in questi luoghi, guadagnare con la propria bellezza che con il proprio cervello. Purtroppo le "sponzoruše" stanno diventando una categoria molto ampia nella società di oggi, insieme ai loro sponsor, ai tycoons dell’ultima ora, a chi vorrebbe entrare in questo mondo. Ognuno cerca la sua musica. Il rock’n’roll non fa per loro. E quindi è apparso il turbofolk, che è l’espressione musicale della tragedia che si va svolgendo sul nostro palcoscenico.
Com’era la scena musicale in Bosnia durante la guerra?
Per quanto la guerra sia stata un male, per quanto abbia distrutto, si è verificata una situazione assurda in cui la scena è sbocciata. Tutti i grandi artisti a un certo punto hanno lasciato Sarajevo in massa e si è aperto uno spazio per i giovani musicisti. Se non ci fosse stata la guerra e fosse rimasta a Sarajevo quella concentrazione di qualità non avrebbero avuto un’opportunità. Da una prospettiva di oggi, in quel senso la guerra ha offerto un’occasione alle band di qualità. Ovviamente sarei felicissimo se ciò non fosse accaduto.
Cosa pensa dell’attuale scena musicale?
E’ in cammino, alla ricerca di qualcosa. Esistono moltissimi musicisti di qualità, esistono anche collaborazione e amicizia tra di loro, ma in qualche modo manca quell’unità, quella relazione interattiva con il pubblico, in cui il pubblico li vive come un unico organismo, che possa aiutare a cambiare le cose, o almeno ad esprimere quello che le persone sentono. Manca anche una chiara idea-guida e, ciò che è più importante, non siamo pronti a sostenere la scena in modo qualitativo. Ci sono i Dubioza Kolektiv. Con il loro album di quest’anno, "Firma ilegal", hanno deciso di cantare non più in inglese ma in bosniaco e hanno fatto forse il passo chiave per la loro carriera. Ci sono i Letu Štuke che però appartengono a un’altra generazione. Dino Šaran ha formato la band nel 1988, ma per i casi della vita non hanno avuto l’opportunità di incidere fino al 2005. Il fatto che una band registri il suo primo album dopo 17 anni penso che sia una curiosità anche su scala mondiale. C’è Edo Majka di Tuzla, che, sebbene operi in Croazia, è decisamente parte della scena bosniaca. C’è la bravissima Irina Kapetanović di Konjic. Ci sono gli Zoster di Mostar. Quando si parla della scena bosniaco-erzegovese non bisogna parlare solo di Sarajevo.
Da un punto di vista musicale quali sono oggi le relazioni tra gli stati della ex Jugoslavia?
Quelle relazioni a un certo momento sono state bloccate, ma non si possono mai interrompere. Si tratta di quella linea di sangue del rock’n’roll talmente intrecciata tra le differenti repubbliche, per cui non è possibile isolare chi è autore di cosa. Moltissimi musicisti sono nati, cresciuti, hanno studiato e infine lavorato in diverse parti della Jugoslavia. Dopo la guerra si sono dovute innanzitutto abbattere le barriere politico-amministrative, come le proscrizioni o l’ostilità verso i musicisti delle altre repubbliche. Oggi non esistono più questi divieti, ci sono ancora delle piccole barriere nelle teste, ma piano piano tutto si sta aprendo. Questo lo posso osservare direttamente… Ho iniziato 3 o 4 anni fa a seguire la scena musicale di Sarajevo per il più influente quotidiano serbo, "Politika". Mi sento orgoglioso di mostrare ai belgradesi che a Sarajevo esiste qualcosa di qualità e che quel qualcosa non è esclusivamente legato agli anni ’80, ma che anche la scena postbellica ha molto da offrire.