Rifugiati in Bosnia Erzegovina: la storia di un giornalista pakistano
La storia di Muhammad Yasir, giornalista pakistano fuggito dal suo paese perché sotto minaccia per il suo lavoro e oggi rifugiato in Bosnia Erzegovina nel campo di Velika Kladuša
(Originariamente pubblicato da Media Centar Sarajevo )
Il 27enne Muhammad Yasir ha lavorato per sei anni nella sua città natia, Faisalabad, in Pakistan, come cameraman e reporter per l’emittente televisiva Dunya News. Modestamente, ma con orgoglio, ci mostra alcune fotografie risalenti al periodo in cui collaborava con alcuni dei più noti giornalisti pakistani, i suoi accrediti e certificati professionali, e infine, ironia della sorte, un volantino con una foto che lo ritrae insieme ai suoi colleghi, creato in occasione della Giornata mondiale della libertà di stampa.
Dico ironia della sorte perché in Pakistan di libertà di stampa ce n’è ben poca. Nel rapporto 2018 di Freedom House, il Pakistan è infatti classificato come paese “non libero”, mentre nell’indice stilato da Reporter senza frontiere si trova tra i dieci paesi dove è più difficile fare il giornalista. Se tralasciamo i paesi dilaniati da conflitti, come Siria, Iraq e Somalia, il Pakistan è il secondo paese più pericoloso al mondo per i giornalisti, dopo il Messico. Nel periodo compreso tra il 2012 e il 2016 in Pakistan si sono verificati 30 omicidi di giornalisti, con una media di un omicidio ogni due mesi. Per fare un paragone, in Iraq nello stesso periodo sono stati uccisi 46 giornalisti, e in Somalia, afflitta ormai da anni da una guerra civile, hanno perso la vita 36 giornalisti. A differenza dei paesi come Siria, Iraq e Somalia, dove i giornalisti perdono la vita mentre svolgono il loro lavoro in zone di guerra, in Pakistan i giornalisti nella maggior parte dei casi cadono vittime di attacchi t[]istici e di omicidi mirati.
Dopo essere sopravvissuto a un attacco t[]istico, Muhammad Yasir ha deciso di lasciare il Pakistan. Nel novembre 2015, la redazione di Dunya News di Faisalabad è stata oggetto di un attacco dinamitardo nel quale sono rimasti feriti tre colleghi di Muhammad. L’ordigno è stato lanciato negli uffici della redazione da una motocicletta in corsa, come si vede nelle immagini riprese dalle telecamere di sorveglianza, che Muhammad ha salvato sul suo telefono. L’attacco, i cui esecutori materiali non sono mai stati trovati, è stato rivendicato dal gruppo t[]istico “Daulat-i-Islamia-Khorasan” legato all’ISIS.
Dopo l’agguato contro la redazione di Dunya News anche la casa dello zio di Muhammad è stata presa di mira con colpi d’arma da fuoco, dopodiché la famiglia di Muhammad ha lasciato Faisalabad trasferendosi in un villaggio. Muhammad ci mostra il messaggio lasciato da chi ha attaccato la sua famiglia, un messaggio che gli ha fatto capire che sarebbe stato meglio andare via dal Pakistan. Così ha deciso di partire per l’Europa in cerca di un nuovo lavoro e una nuova vita.
Fare giornalismo in Pakistan
In Pakistan, i casi di intimidazioni, rapimenti e omicidi di giornalisti e altri professionisti dei media sono piuttosto frequenti, e il sistema giudiziario è poco efficace nel proteggere chi si occupa di giornalismo. Dei 55 casi di omicidio di giornalisti verificatisi nel paese negli ultimi 15 anni, solo due hanno avuto un epilogo giudiziario, tra cui l’omicidio del giornalista Wali Khan Babara. Il fratello di Wali tuttavia mette in dubbio i risultati delle indagini ufficiali, sostenendo che almeno altre sette persone legate al caso di suo fratello – tra cui alcuni informatori, poliziotti e membri delle loro famiglie – siano state uccise. È probabile quindi che il numero di omicidi di giornalisti e di persone a loro legate sia superiore alle cifre ufficiali.
In Pakistan i giornalisti che svolgono il loro lavoro in modo professionale sono costantemente sotto pressione. La libertà di espressione è limitata a tal punto che ogni critica o satira nei confronti del capo dello stato, dei membri dell’esercito e rappresentanti del potere esecutivo, legislativo e giudiziario viene censurata. In tali circostanze, è facile oltrepassare i limiti di quanto viene ritenuto accettabile, soprattutto sui social network. Capita spesso che i funzionari politici e militari attacchino pubblicamente i giornalisti per la loro attività sui social network, incoraggiando in tal modo atteggiamenti ostili nei confronti della libertà di espressione ed esponendo i giornalisti al rischio di aggressione da parte di gruppi e individui che interpretano le accuse rivolte ai giornalisti scomodi come un consenso o persino invito alla violenza.
Emigrazione come unica via d’uscita
Ed è per questo che ogni minaccia contro i giornalisti deve essere presa molto sul serio, soprattutto se fa seguito a un attentato dinamitardo o un agguato a colpi d’arma da fuoco. Muhammad ha riflettuto seriamente sulle minacce subite prima di decidere, l’anno scorso, di lasciare il paese. Ha viaggiato in macchina fino a Istanbul dove, come afferma lui stesso, ha pagato 5000 euro a un camionista per portarlo fino in Austria. Può sembrare strano che un cameraman pakistano abbia tanti soldi, ma uno degli aspetti della vita nei paesi di provenienza dei migranti di cui spesso abbiamo una percezione distorta è quello economico. La città di Faisalabad, che conta 3,2 milioni di abitanti, registra un Pil di 20 miliardi di euro, una cifra superiore di 4 miliardi di euro rispetto al Pil della Bosnia Erzegovina.
Muhammad dice che non ha lasciato il Pakistan per motivi economici, perché con il suo lavoro guadagnava decentemente.
“Non sono un migrante economico, in Pakistan guadagnavo sufficientemente per vivere. Le persone non fuggono solo dalla povertà, ma anche per sottrarsi a pericoli e condizioni di insicurezza”, spiega Muhammad. E se c’è qualcuno che potrebbe capirlo, sono i cittadini della Bosnia Erzegovina che, a distanza di quasi un quarto di secolo dalla fine della guerra, continuano a emigrare in massa.
Muhammad ha viaggiato per due giorni nascosto nel camion, senza cibo né acqua, ma invece di portarlo in Austria, il camionista lo ha fatto scendere a Budapest.
“La polizia ungherese mi ha subito arrestato. Ho detto di voler fare domanda di asilo e mi hanno dato alcuni documenti da firmare, senza la presenza di un avvocato né tanto meno un traduttore. E io li ho firmati. Cos’altro potevo fare?”, spiega Muhammad, aggiungendo che, come emerso successivamente, gli hanno fatto firmare il provvedimento di espulsione.
Nonostante Muhammad sia arrivato a Budapest attraversando la Bulgaria e la Romania, le autorità ungheresi lo hanno espulso verso la Serbia, violando la normativa europea in materia di asilo.
Muhammad ha trascorso più di due mesi nel centro per migranti e rifugiati di Preševo nel sud della Serbia ed è stata, come afferma, solo una perdita di tempo. Ha lasciato il centro e, insieme ad altri migranti, è arrivato in Bosnia Erzegovina attraversando il fiume Drina nei pressi del villaggio di Brasina, a poca distanza da Loznica. Dice che c’è un traghetto che trasporta i migranti dall’altra parte del fiume e che la polizia di frontiera fa finta di niente. Alla domanda se la polizia serba – come crede una parte dell’opinione pubblica bosniaca – stia aiutando i migranti ad attraversare in Bosnia Erzegovina, Muhammad risponde: “No, ma nessuno ha cercato di fermarci. Dalla parte serba non abbiamo visto alcuna pattuglia della polizia”.
Dopo aver attraversato la Drina, Muhammad si è diretto verso Sarajevo, passando per Sapna e Tuzla, e una volta arrivato nella capitale, ha preso un autobus per Bihać. Attualmente si trova nel campo di Velika Kladuša, dopo due tentativi falliti di entrare nell’Ue. La prima volta è quasi riuscito a raggiungere l’Italia, mentre la seconda volta è stato fermato a Slunj, in Croazia.
“Le autorità slovene mi hanno consegnato alla polizia croata che mi ha derubato. Mi hanno picchiato, mi hanno rotto il telefono, hanno preso tutti i soldi che avevo e hanno dato alle fiamme il mio sacco a pelo e i miei oggetti personali”, dice Muhammad, quasi in lacrime, mostrando i lividi sulle gambe provocati, come afferma, da percosse ricevute dalla polizia di frontiera croata.
Muhammad dice di non sentirsi sicuro nel campo di Velika Kladuša, dove le condizioni di vita sono disumane. I circa 500 migranti hanno a disposizione solo 4 docce, mentre i bagni chimici allestiti nel campo sono ormai da tempo fuori uso.
“L’intera zona intorno al campo viene usata come toilette, se si continua così scoppierà un’epidemia”, dice un migrante afghano, mostrando le aree coperte da escrementi. Nel campo ci sono anche alcuni volontari stranieri, dei quali i migranti però non si fidano. Dicono di fidarsi dei bosniaci e apprezzano l’impegno dei volontari locali, ma sono piuttosto diffidenti nei confronti degli stranieri.
“Scattano delle fotografie e vogliono sapere come ci muoviamo, per poter informare la polizia croata e slovena”, spiega l’afghano.
Muhammad dice che continuerà a tentare di costruirsi una nuova vita, forse in Italia, dove ha uno zio. Aggiunge che sarebbe felice ovunque, basta che stia al sicuro e abbia un lavoro. Non può tornare in Pakistan. Muhammad non è un fannullone né tanto meno un ladro o tossicodipendente. È vittima della repressione della libertà di espressione, in un paese dove i giornalisti non possono contare sull’aiuto né sulla protezione delle istituzioni. Pertanto fa appello a tutte le associazioni di giornalisti e operatori dei media affinché lo aiutino.
Cosa pensano i cittadini bosniaci?
“Questi non sono profughi. Sono dei fannulloni per i quali non c’è posto nel nostro paese. Bisogna caricarli tutti sugli aerei e rispedirli da dove sono venuti. Come possono essere profughi se arrivano da paesi dove non c’è nessuna guerra! La guerra in Afghanistan si è conclusa ormai da tempo. In Pakistan non c’è nessuna guerra. Vogliono solo approfittare del sistema di welfare europeo. Io li caccerei tutti dalla Bosnia. Portano droga e criminalità. Non scappano da nulla, e anche se provengono da zone di guerra, sono tutti maschi in età militare, che vadano a combattere per il proprio paese!”
Questi sono alcuni dei commenti a un articolo sull’attuale crisi dei rifugiati nel cantone di Una-Sana che riecheggiano la retorica disumanizzante utilizzata dai media nel trattare questo argomento, una retorica che fomenta la paura dell’altro, tirando fuori il peggio delle persone. Oltre a rispecchiare atteggiamenti disumani e xenofobi nei confronti dei migranti, i commenti come questi testimoniano una profonda ignoranza su quello che avviene in altri paesi. Se tralasciamo le generalizzazioni, nelle quali è facile cadere quando si parla di migrazioni, si impone la domanda: quanto sappiamo davvero dei paesi di provenienza dei migranti?
In quali di questi paesi c’è la guerra? La guerra in Afghanistan è davvero finita? Cosa sta succedendo esattamente in Somalia? Ci sarà mai pace in Palestina? Quali paesi sono stati interessati dalla cosiddetta primavera araba? Dove si trova esattamente lo Yemen? È un paese in guerra? E in Pakistan va tutto bene, vero?
Sono domande alle quali molti di quelli che postano commenti su Facebook non sanno rispondere, e devo ammettere che ad alcune di esse neanch’io sapevo rispondere prima di visitare il campo nei pressi di Velika Kladuša, dove ho trascorso un giorno con i migranti provenienti da diversi paesi dell’Asia e dell’Africa. E no, in Pakistan non va tutto bene. L’ho saputo da Muhammad, il giornalista pakistano che ho conosciuto tra le tende del campo profughi di Velika Kladuša.
Questa pubblicazione è stata prodotta nell’ambito del progetto European Centre for Press and Media Freedom, cofinanziato dalla Commissione europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l’opinione dell’Unione Europea. Vai alla pagina del progetto