Riesumazioni e ritorni
Ritornano le minoranze e cominciano a vivere nuovamente luoghi che per anni erano rimasti abbandonati. E così riemergono i corpi ed i crimini della pulizia etnica. Il difficile ritorno alla normalità in Bosnia Erzegovina.
Tre anni fa Fajko Pocic era ritornato a Biscani, villaggio vicino a Prijedor, nel nord della Bosnia. Era fuggito nella primavera del 1992 da un territorio sconvolto dalle atrocità della pulizia etnica. Poi il difficile ma testardo ritorno. In un’atmosfera ancora carica di tensione. La prima cosa alla quale aveva pensato era stata la casa. Almeno due stanze riscaldate per poter passare l’inverno. Poi pian piano aveva risistemato anche l’intonaco, le altre stanze. Poi il giardino. Un lento distendersi nella normalità, nel proprio passato ritrovato.
Fajko aveva deciso di approfittare di quest’autunno stemperato per ripulire un pozzo su di una sua proprietà situata dove la Ljeva Obala, la strada che percorre la riva destra del fiume Sana, si biforca. Da una parte porta a Rakovcinai e dall’altra a Biscane, il suo villaggio.
Ma invece di fango e detriti ha ripescato dal pozzo una scarpa, un calzino e delle ossa inequivocabilmente umane.
Le autorità bosniache insieme a quelle internazionali hanno riesumato dal suo pozzo cinque corpi, due donne e tre uomini. Uno è il corpo di una suora, un altro quello di un prete. Trovato seminudo ma con ancora il crocifisso al collo e con alcuni paramenti da messa. In seguito agli esami sul DNA è arrivata la conferma che si tratta di Padre Tomislav Matanovic, ex parroco cattolico di Prijedor, "scomparso" il 19 settembre del 1995. Il funerale si è già svolto pochi giorni fa e scandalosamente nessuna autorità serba era presente a testimonianza di un passato che si tende a rimuovere pitoosto che superare.
Secondo un’indagine condotta dall’IPTF, polizia internazionale che fa capo alle Nazioni Unite, il parroco fu arrestato dalle autorità serbe nella notte del 25 agosto del 1995. Nella stessa notte la sua casa fu saccheggiata e la chiesa distrutta. Impiegarono una notte intera a raderla al suolo: la sua struttura in cemento armato caparbiamente resisteva alle cariche di esplosivo. Ed intanto le campane suonavano, scosse da quei definitivi e terribili tremori. Ora al posto della chiesa vi è un prato. Tutte le macerie furono rapidamente portate via. Per far dimenticare e nascondere la ferita.
Padre Tomislav fu poi messo agli arresti domiciliari, nella casa dei genitori. Ai pochi ai quali fu concesso fargli visita manifestò la propria inquietudine. Temeva per la sua vita e per quella dei genitori. Era allarmato per le molte visite di persone che, incuranti dei due poliziotti alla porta, entravano in casa e minacciandolo chiedevano soldi, gioielli ed altri oggetti di valore. Infine il 19 settembre, nella notte, due macchine prelevarono padre Tomislav ed i suoi genitori, Bozena e Josip. Di loro non si seppe più nulla. Simod Drijaca, allora capo della polizia ed uno dei maggiori responsabili delle feroci azioni di pulizia etnica nella municipalità di Prijedor, dichiarò ad alcune delegazioni di monitoraggio dell’Unione Europea ed agli agenti dell’IPTF di non saperne nulla e che con tutta probabilità il prete cattolico era stato portato in Croazia dalla Croce Rossa locale. I rappresentanti di quest’ultima, anch’essa coinvolta in azioni di pulizia etnica, negarono.
Ora la verità riemerge in tutta la sua fisicità anche se non sono ancora chiare le responsabilità. Il maggior indiziato per quanto riguarda la morte di padre Tomislav resta Simod Drijaca ucciso in uno scontro a fuoco con i soldati inglesi dell’IFOR che tentavano di arrestarlo nel luglio del 1997.
Ritornano i corpi in un doloroso riaffiorare. Alcuni con un nome, altri no, lo hanno perso in questi anni passati sottoterra, o dimenticati in un pozzo.
E’ sempre in questo autunno mite che la Commissione per gli scomparsi in Bosnia Erzegovina ha annunciato l’identificazione nella municipalità di Prijedor di altre fosse comuni contenenti i corpi di musulmano e croato-bosniaci vittime della pulizia etnica serba nella primavera-estate del 1992. La più grande è stata quella rinvenuta presso la miniera di ferro di Ljubija ai piedi di un’alta rupe. I 372 corpi furono portati con alcuni camion fino al bordo del precipizio e poi gettati nel vuoto. Per ricoprirli si utilizzarono cariche di tritolo. Tra i corpi sono stati ritrovati una quarantina di documenti personali che faciliteranno l’identificazione.
L’ubicazione di molte di queste fosse comuni si conosceva. Le testimonianze dei sopravvissuti erano inequivocabili e purtroppo lasciavano solo tragiche certezze sulla sorte delle migliaia di persone che sparirono in quegli anni. Solo adesso però si riesce a riesumare i corpi. Solo adesso perché i corpi e le vittime parlano. Prima non lo potevano fare in una Republika Srpska ancora chiusa nella morsa nazionalista, in una Prijedor nei primi anni del dopoguerra ancora controllata dai responsabili della pulizia etnica. Dal capo della polizia Simod Drljaca, dal sindaco Milomir Stakic, dal Presidente della Croce Rossa locale Srdjo Srdic.
Ma ora la situazione è mutata. Molti dei criminali di guerra arrestati e la società civile di Prijedor, anche e soprattutto grazie alle iniziative di diplomazia popolare e cooperazione decentrata stimolate da alcune realtà italiane, sempre più attiva e strutturata.
Ed il riemergere dei corpi e dei loro nomi è anche testimonianza di un ritorno alla normalità. Il campo di Fajko era rimasto incolto per molti anni. Le erbacce avevano abbracciato le macerie e gli alberi da frutto. Lì come in altri scorci di paesaggio nelle campagne e nel cuore di Prijedor. Per anni luoghi abbandonati. Ora ritornano ad essere vissuti. Le sterpaglie ripulite, le mura ricostruite. Scuole, ambulatori e persino moschee. E’ in questo rivivere i luoghi che riemerge il passato. Prima della guerra nella municipalità di Prijedor vivevano circa 50.000 bosniaco-musulmani ed una più ristretta comunità di croato-bosniaci. 18.000 di questi sono già ritornati e Prijedor da città simbolo della pulizia etnica con i suoi campi di Omarska, Trnopolje, Keraterm sta diventando città simbolo del ritorno delle minoranze. Anche quel pozzo dove sono stati ritrovati quei poveri corpi non è più, come pochi anni fa, circondato da macerie ed abbandono ma da suoni, rumori quotidiani, da bambini che ritornano ad andare a scuola.
Sperando che in fondo a quel pozzo si sia ritrovata l’opportunità per la ricostruzione di una società multietnica capace di guardare indietro al proprio passato, riconoscerlo, superarlo senza doverlo dimenticare.
Un passo pesante verso la normalità riscoprire i propri morti ed i propri cari. Un passo necessario verso la normalità riconoscere le vittime di una propria follia.