Serbia | | Diritti, Unione europea
Rientri forzati
Aperto di recente un ufficio a Belgrado per i rientri dei cittadini della Serbia e Montenegro, perlopiù profughi, che vivono nell’Unione europea. Ma i problemi che i rientranti dovranno affrontare non sono di facile soluzione, soprattutto se sono rom e sono fuggiti dal Kosovo durante la guerra
Martedì 14 febbraio all’aeroporto di Belgrado è stato aperto l’ufficio per i rientri con l’intento di accogliere in modo più efficace possibile le persone che vengono deportate dai paesi dell’Unione europea. L’ufficio lavorerà nell’ambito del ministero per i Diritti umani e delle minoranze. All’inaugurazione sono intervenuti il ministro per i Diritti umani e delle minoranze della Serbia e Montenegro, Rasim Ljajic, ed il ministro svedese per le Migrazioni, Barbo Holnberg.
Ljajic ha dichiarato che l’apertura di questo ufficio rappresenta un segnale positivo dello stato verso un alleggerimento del regime dei visti e della lista bianca di Schengen, che tra l’opinione pubblica locale è vissuta come uno degli elementi più rilevanti del cammino verso l’integrazione europea. In una dichiarazione per i media locali il ministro Ljajic ha detto che l’ufficio è stato aperto con il forte sostegno del governo svedese e dell’Agenzia europea per le ricostruzioni, i quali hanno destinato per questo progetto 72.000 euro. Il ministro svedese ha dal canto suo definito l’apertura di questo ufficio come una continuazione della riuscita collaborazione tra i due paesi.
Obiettivo di questo nuovo ufficio dovrebbe essere non solo quello di accogliere e censire le persone che vengono rimpatriate, ma anche preparare una loro rapida ed efficace integrazione nella società. In questo senso l’ufficio offrirà un aiuto di tipo tecnico – ad esempio sul come reagire nei casi di violazione dei diritti garantiti dai documenti e accordi internazionali – realizzerà statistiche e analizzarà la situazione sviluppando una strategia per il prossimo futuro.
Secondo i dati a disposizione del ministero per i Diritti umani e delle minoranze, il numero di cittadini della Serbia e Montenegro che nel prossimo periodo saranno rimpatriati nel paese va dai 50.000 ai 100.000, dal momento che dati precisi non sono ancora stati confermati. A queste persone è necessario garantire le migliori e più umane condizioni per il rientro, e proprio detto ufficio dovrebbe assolvere a questo importante compito.
Secondo i dati del Consiglio d’Europa, il maggior numero di cittadini della SM che saranno rimpatriati si trova in Germania, e il per la maggior parte si tratta di rom. Di altre nazionalità che sono invitati a ritornare nel paese sulla lista si trovano serbi, bosgnacchi, ma anche un alto numero di persone fuggite dal Kosovo. In una dichiarazione per la Tv RTS, il ministro Holnberg ha dichiarato che "la rgan aprte delle persone che chiede asilo in Svezia ha la cittadinanza della Serbia e Montenegro, e quasi nessuno di loro è riuscito ad ottenerlo", ecco perché è così importante che i due paesi continuino a collaborare su questo piano.
Il ministro Ljajic ha dichiarato, in reazione a questa dichiarazione, che una circostanza aggravante del fatto che un alto numero di persone chiede asilo in Svezia è che formalmente si tratta di cittadini della SM, ma in realtà si tratta perlopiù di cittadini del Kosovo, in particolare rom e albanesi, i quali non desiderano e non possono far rientro in Serbia. Con ciò il problema delle riammissioni è collegato alla soluzione dello status del Kosovo, cosa che per certi versi aggrava la posizione di Belgrado, ma ancor di più le persone che devono fare i conti con l’obbligo di rientrare. In questo senso, il ministro Ljajic ha dichiarato al quotidiano "Danas" che la SM ritiene che "tuttora non esistono condizioni tali per cui i nostri cittadini possano tornare in Kosovo, e alla Svezia e agli altri paesi abbiamo chiesto che venga prolungato il loro soggiorno nei paesi UE".
La soluzione del problema dei rientri è iniziata molto prima dell’apertura dell’ufficio. Nel 1999 la Serbia e Montenegro aveva firmato un accordo sulle riammissioni, ma non è stato ratificato. Negli anni che seguirono sono stati firmati accordi sulle riammissioni con 13 paesi dell’Europa occidentale, con la Germania, Svizzera, Slovenia, Svezia, Slovacchia, Bulgaria, Ungheria, Italia, Danimarca, Croazia, Austria e Benelux.
Secondo quanto affermato da Jelena Markovic, assistente del ministro, altri 12 accordi attendono la firma, e lo stato non si fermerà alla sola apertura dell’ufficio, ma lavorerà intensivamente anche alla realizzazione di una strategia per la reintegrazione dei rientranti. Questa strategia dovrebbe coprire tutte le questioni più importanti, come la possibilità dell’impiego e la frequenza scolastica, l’accettazione e il riconoscimento dei diplomi, l’introduzione di efficaci meccanismi istituzionali di protezione, l’insegnamento della lingua e tutti gli altri ambiti di rilevanza.
Tuttavia lo stato non riuscirà a fare niente di tutto ciò finché non sarà adottata suddetta strategia, ciò significa che i cittadini che verranno rimpatriati prima dell’entrata in vigore della strategia non potranno goderne i risultati. Fino all’adozione della strategia, dei problemi e dell’accoglienza se ne occuperà la Croce rossa, la cui missione consiste nell’offrire un aiuto di primo intervento. È chiaro inoltre che anche le questioni finanziarie saranno un serio ostacolo alla soluzione dei problemi delle riammissioni, e ciò in particolare se si tiene presente che l’ufficio è stato aperto grazie alle donazioni internazionali, ma pure grazie all’aiuto dell’aeroporto belgradese che ha messo a disposizione gratuitamente dell’ufficio per le riammissioni uno spazio nella zona degli arrivi del Terminal 2 e ha provveduto all’arredo completo.
Però, in misura minore si parla di ciò che più duole. I funzionari si danno da fare per mostrare comprensione per i problemi dei rimpatriati, ed in primo piano affermano che lo stato deve collaborare perché questa è una condizione per l’ingresso in Unione europea, ma l’opinione pubblica locale, abituata a tutta una serie di problemi, non mostra il benché minimo interesse per i cittadini che saranno costretti a far ritorno in patria.
In una dichiarazione per il quotidiano "Danas", Dragoljub Ackovic, membro della Presidenza dell’unione congressuale dei rom d’Europa, afferma che il governo locale ha iniziato troppo tardi ad occuparsi delle riammissioni, aggiungendo che "solo adesso aprono l’ufficio, ma sono già tre anni che dura l’allontanamento dei rom dall’Europa occidentale. Ci aspettiamo che dai vari paesi occidentali, nell’arco di un anno o due, saranno trasferiti circa 70.000 rom". Ackovic inoltre esprime dei dubbi sulla possibilità di integrare la popolazione rom, perché "qui non ci sono nemmeno le condizioni per farlo, e in particolare per i rom del Kosovo che non hanno dove tornare. Non ci sono tali condizioni nemmeno per la loro integrazione nella Serbia centrale, che ha già da fare con l’alto numero di disoccupati. Ci hanno chiesto di far rientrare persino i rom che già da 15 anni vivono all’estero, dove hanno trovato lavoro e i cui figli non parlano nemmeno il serbo. E qui graverebbero ulteriormente sui genitori e girerebbero per le discariche comunali".
Simile è la situazione per le persone di altre nazionalità. Da tempo non sentono la Serbia e Montenegro come il loro paese, molti non parlano nemmeno la lingua locale, e di certo al rientro dovrebbero fare i conti con numerosi problemi, cosa che rende questa questione ancora più pesante e dolorosa.