Reportage da Sarajevo
Carta, sul proprio sito, riporta un reportage di Davide Sighele, dell’Osservatorio sui Balcani: la città di Sarajevo nei giorni della presentazione dell’Appello "L’Europa oltre i confini". Una Sarajevo molteplice in equilibrio tra novità ed immobilità.
Dormiamo all’Hotel Saraj che s’aggrappa ad un pendio pericolosamente affacciato sulla città di Sarajevo. In primo piano la Biblioteca nazionale, in parte ricostruita, i segni dell’incendio slavati dalle giornate di pioggia dei molti anni passati dal giorno in cui il simbolo della città è stato denudato dalle fiamme. Le finestre sbarrate con assi di legno contrastano con la maggior parte degli edifici del centro i cui colori sono ancora forti di una tintura recente, le cui medicazioni nascondono le ferite degli anni dell’assedio.
Non è così nell’immediata periferia, le facciate se ne restano con le dita infilate delle schegge di granate, alcuni palazzi resistono con i loro precari equilibri. Simboli di una guerra da anni finita e di una pace che ancora non c’è.
Mihailo è di Nis, Serbia, per la prima volta a Sarajevo. Cammina per Bascarsjia, la parte più intima della città, il centro storico con i suoi edifici bassi ed il ciottolato addolcito. Telefona al padre, "indovina dove sono" e glielo sussurra ridendo. Il padre però risponde preoccupato "stai attento". Ma Mihailo non ha paura, è felice di poter essere a Sarajevo, di essere serbo e tranquillamente passeggiare per le strade della capitale bosniaca. A volte però s’incupisce. Accade ogni mattina quando, a colazione, dalle finestre del ristorante dell’albergo che domina l’intera vallata scorge sul crinale di una collina vicina centinaia di steli bianche, troppo bianche per avere secoli. "Che reputazione abbiamo noi serbi" si chiede ed assieme constata a voce alta. Sembra il protagonista del film di Goran Paskalievic "La Polveriera". Un rifugiato dalla Bosnia a Belgrado che nella scena finale urla disperato, aggrappato ad una rete, "Ko je kriv?", chi è il colpevole? E questa domanda, forse in modo meno opprimente, pesa su tutti noi quando ancora, attraversando la città, scorgiamo il fiore di un’esplosione sul marciapiede, quando le lapidi lambiscono i palazzi realsocialisti della periferia, quando scopri che più della metà di quelli che incontri sono stati rifugiati all’estero.
Il 6 ottobre scorso è la data significativa dei dieci anni dall’inizio della tragedia in Bosnia Erzegovina, è una ricorrenza tragica che si va ad accavallare con un’altra data sempre festeggiata quando esisteva la Jugoslavia: quella della liberazione del Paese dal nazifascismo. "Il 6 aprile venivo sempre a Sarajevo" ha ricordato Gianni Scotti, giornalista ed intellettuale della minoranza italiana in Croazia, "e si festeggiava leggendo poesie. Ritorno commosso e spero possa rinascere un po’ di quella poesia". Nelle strade con la sua macchina fotografica c’è anche Mario Boccia. Nello zaino una scatola con alcune fotografie in bianco e nero. "Le ho scattate in questi anni ad amici e gente che ho incontrato. In questi giorni voglio rincontrarli e restituire loro almeno parte di queste immagini". E molti incrocia per strada, lo riconoscono e lo salutano. "Incontro più gente qui che sotto casa mia", sorride.
Gianni Scotti, Mario Boccia ma anche Mihailo sono a Sarajevo per tre giorni di iniziative a favore di "Un’Europa dal basso – Un’Europa oltre i confini" organizzate dalla città di Sarajevo, dall’Osservatorio sui Balcani e dal Consorzio Italiano di Solidarietà.
Partecipano associazioni, autorità locali, ONG italiane, del sud est Europa ed europee. Più di 350 persone. Tra i momenti più rilevanti quello della presentazione di un Appello a favore dell’integrazione certa, rapida e sostenibile dei Balcani in Europa, presentato presso la sede del Parlamento federale. "Perché" ha ricordato il sindaco di Sarajevo Hamamdzic "dopo il crollo del muro di Berlino abbiamo conosciuto sulla nostra pelle un muro ancora più escludente, ancora più difficile da superare: quello di Schengen". Mauro Cereghini, coordinatore dell’Osservatorio sui Balcani ha aggiunto che "si tratta di un Appello ambizioso, che pone un obiettivo alto ma necessario: l’ingresso di tutti i paesi dell’area sud-orientale nell’Unione Europea, con tempi certi, con forme sostenibili e con percorsi che coinvolgano le intere comunità e non solo i loro rappresentanti ultimi". Ma "è di questa "Europa oltre i confini" che sentiamo tutti il bisogno, ancora di più oggi davanti ai nuovi drammatici scenari di violenza in terre vicine. Sentiamo il bisogno di un’Europa che sia ancora più autorevole, e capace di rappresentare una polarità forte all’interno di una comunità internazionale a volte un po’ troppo inerme". Rivolgendosi poi a Prodi, venuto a Sarajevo, per la prima volta da Presidente della Commissione europea per assistere alla presentazione dell’Appello, ha sottolineato come "l’integrazione potrà aiutare anche la parte ricca e pacificata del Vecchio continente a ritrovare le radici profonde del suo progetto comune, che vanno ben oltre la mera dimensione economica o finanziaria. E come è difficile per i paesi della sponda orientale dell’Adriatico trovarsi fuori dalla Casa comune europea, così per chi ci vive dentro l’assenza di quei paesi è una privazione; l’Europa senza Sarajevo, come senza Belgrado, senza Tirana o senza Zagabria, è un’Europa dimezzata … piccole patrie e grandi orizzonti possono convivere solo dentro un contenitore ampio e plurale, come di fatto è l’Europa, ovvero" ritornando con gli occhi sul Presidente della Commissione "con una metafora che le sappiamo cara – un’unione di tante minoranze".
In Bosnia vi è voglia d’Europa. "Bravo Danise" su di un’enorme striscione appeso al balcone del Teatro Nazionale. Festeggiamenti per la vittoria dell’Oscar di "No man’s land" di Danis Tanovic. Regista che ha vissuto e convissuto l’assedio, girando ore e ore di pellicola. Ha ottenuto un riconoscimento internazionale non per essere stato un assediato, una vittima, ma per essere artista. "Bravo Danise" che ci fai alzare la testa, che fai in modo l’Europa sia orgogliosa di noi. "Bravo Danise" urlava una piazza stipata di ragazzi, quasi nessuno sopra i 25 anni. E’ immediato chiedersi quanti anni avessero durante la guerra. Pochi. Ma chi sono, che identità si sono creati in un’adolescenza così travagliata. Alcune ragazze presenti nella piazza portano il velo, paradossalmente la maggior parte delle loro madri non lo facevano. E’ un’identità complessa fatta di voglia di non dimenticare il passato "caparbiamente abbiamo resistito ed abbiamo continuato a vivere" cantavano dal palco, ma anche voglia di andare in fretta aventi, paura di rimanere fermi ed affondare. Identità che si ritrova la notte nei molti locali "underground" intrisi di fumo ma anche nei locali di Bascarsija, chiusi presto la sera e dove non si servono bevande alcoliche. "Durante la guerra vi erano troppe risse e da allora abbiamo smesso di distribuirli" è la mezza verità di un giovane cameriere.
I tre giorni di iniziative finiscono in centro. Tutto è pronto per la partenza della corsa podistica Vivicittà. Si è conclusa il giorno prima la conferenza "Europa dal basso", Prodi è ripartito in fretta, l’orchestra Filarmonica di Sarajevo e l’orchestra Haydn di Trento e Bolzano hanno già suonato assieme nel Teatro Nazionale. Negli occhi di tutti si mescola il ricordo del direttore Johannes Wildner che stringe ripetutamente la mano del primo violinista con quello delle pettorine bianche dei partecipanti e dei corridori che si riscaldano a gruppetti nel parco adiacente alla partenza. Poi, "attenzione…via".
Il gruppo si muove rapido, sembra una metafora ben augurante per il futuro di questo paese. "La Bosnia Erzegovina sta andando veloce lungo la strada della democrazia" ha affermato Prodi. Una mezza verità come quella del cameriere di Bascarsjia. E’ una Bosnia che certamente è cambiata. Meno nazionalista ma a volte anche più disillusa.
Attraversandola in macchina lo sguardo si sofferma ancora su ciò che non è cambiato, su ciò che è rimasto in questi dieci anni congelato. Una casa dal tetto bruciato su di un altopiano nei pressi di Bihac, Bosnia nord-occidentale. Un albero con la sua chioma appena abbozzata, primaverile, è cresciuto all’interno delle sue quattro mura, come per proteggere ciò che ne rimane, fare quello che l’uomo non ha potuto fare. Vi sono ancora un milione di sfollati e rifugiati causati dalla guerra e gli alberi rimangono spesso gli unici a mettere radici nelle intimità sventrate della pulizia etnica.
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