Referendum in Macedonia: le lancette della crisi
Il 7 novembre in Macedonia si terrà il controverso referendum sulla abrogazione della nuova legge sul decentramento. Favorevole l’opposizione, contrari sia il governo che la comunità internazionale, secondo la quale il Paese rischia di far ritorno al passato
"Ogni Paese si trova di fronte ad una scelta veramente semplice, spostare le lancette dell’orologio in avanti o iniziare a spostarle indietro… Ciò che attende la Macedonia è una piena accoglienza nell’UE. Quindi, onestamente speriamo che gli elettori macedoni al referendum, che è un loro diritto politico, capiscano che ogni voto contro l’Accordo di Ohrid è un voto contro l’Europa", ha detto il ministro della Gran Bretagna in carica presso l’UE per gli affari esteri, Denis MacShane, a Skopje il 26 ottobre, dopo aver incontrato il presidente macedone Branko Crvenkovski.
Davanti al parlamento, subito dopo l’incontro, MacShane ha tirato fuori il suo orologio da polso e ha iniziato a muovere le lancette di fronte ai giornalisti con l’intento di enfatizzare ulteriormente la sua dichiarazione.
"Il messaggio è semplice: non spostate l’orologio indietro. Capisco le paure e il coinvolgimento, ma domenica 7 novembre rimanete a casa", ha aggiunto MacShane.
Todor Petrov, il coordinatore del comitato dell’opposizione unita, responsabile del referendum, e presidente del Congresso Pan-macedone, vero iniziatore del processo in corso, ha inteso le dichiarazioni di MacShane come una "gaffe diplomatica" e come una "chiassosa interferenza negli affari interni". "La Macedonia non è l’Africa, per minacciare i suoi cittadini con lo spostamento dell’orologio", ha detto Petrov.
Questo è solo l’ultimo, e forse il più rumoroso, di una serie di avvertimenti che i rappresentanti della comunità internazionale hanno inviato alla Macedonia. I loro messaggio è chiaro. Vogliono che il referendum fallisca. Se dovesse passare, significherà un indebolimento dell’Accordo di Ohrid e del processo di decentramento da esso previsto: il più importante strumento per garantire una maggiore autonomia alla seconda, per numero, comunità del Paese, gli Albanesi. Secondo i rappresentanti internazionali, ciò inevitabilmente avrà delle ripercussioni sul processo di graduale avvicinamento alla UE e alla Nato.
Un altro analista, Sasho Ordanovski, ha detto un paio di settimane fa che una tale pressione diretta dall’estero sta mettendo "fuori gioco i nazionalisti macedoni". Ma ciò è controproducente. Più i politici stranieri eserciteranno pressioni sui Macedoni per fargli accettare l’accordo, più rivolte e frustrazioni si abbatteranno su quegli elettori che sono forse tra i più moderati.
Il 7 novembre i Macedoni andranno alle urne per appoggiare o rifiutare la legge, recentemente adottata dal parlamento, sui nuovi confini territoriali. La legge riduce il numero delle precedenti 123 municipalità ad unità più grandi. Queste nuove unità cambiano la distribuzione etnica della popolazione e il bilanciamento del potere locale tra Macedoni e Albanesi e le altre comunità come i Turchi, Valacchi, Serbi, ecc.
Ciò significa che alcune delle nuove municipalità avranno più del 20% di Albanesi, percentuale che gli permetterà di adottare ufficialmente la lingua albanese nell’amministrazione. Ciò significa, inoltre, che gli Albanesi saranno in maggioranza in alcuni comuni in cui fino a poco fa erano in minoranza, il che si rifletterà ovviamente sulla composizione del governo locale.
Degno di nota è l’esempio della città di Struga, che fino ad ora aveva una maggioranza macedone, ma che dopo la divisione territoriale, ne ha una albanese. I Macedoni di Struga hanno rifiutato la divisione, e in città sono scoppiati episodi di violenza, il sindaco ha detto che se la nuova mappa territoriale dovesse entrare in vigore, dichiarerà l’indipendenza e chiederà l’introduzione di uno status sul modello di San Marino.
Le voci più conservative provenienti dalle fila dell’opposizione affermano che questa nuova sistemazione territoriale apre la via per una futura ricomposizione territoriale, crea la possibilità per la richiesta della Grande Albania e per la secessione della parte occidentale del Paese, dove gli Albanesi rappresentano la maggioranza.
L’opposizione afferma inoltre che questa organizzazione territoriale è stata fatta sulla base di criteri etnici che guidano al federalismo e ad uno stato bi-nazionale, ed è in collisione con lo spirito dell’Accordo di Ohrid, là dove quest’ultimo afferma che "non ci può essere una soluzione territoriale alla questione etnica". Inoltre l’opposizione sostiene che il referendum sia più contro l’Accordo di Ohrid che contro gli Albanesi, perché non è mono-etnico, ma coinvolge le comunità dei Turchi, dei Serbi, dei Valacchi e dei Bosgnacchi.
L’opposizione afferma che il referendum è contro l’esclusione della volontà popolare e contro un accordo non trasparente siglato da alcuni politici sia macedoni che albanesi, per dare beneficio agli Albanesi e detrimento a tutti gli altri.
Il governo afferma che l’opposizione sta intimidendo la popolazione con i discorsi sulla secessione e sulle divisioni, e che il successo del referendum significherebbe "NO" all’Europa. "Non so chi sarà interessato ad investire in Macedonia quando un gruppo di suoi politici cammina per le strade e afferma che il paese si disintegrerà", ha detto Radmila Sekerinska, Ministro per l’Integrazione europea.
Gli uomini di governo sostengono che il referendum è una avventura inutile ed una perdita di tempo. Secondo il Minitro Gestakovski, la legge non è perfetta ma fornisce il prospetto per l’implementazione del decentramento.
Il ministro aggiunge che le modifiche nel numero degli abitanti e delle etnie da parte dei comuni, non dovrebbero spaventare la popolazione, dal momento che le decisioni più grosse saranno ancora prese dalla cosiddetta "maggioranza Banditer", un meccanismo di voto incrociato fra comunità che assicura la partecipazione della minoranza e previene la semplice messa in minoranza, che prende il nome dal noto giurista francese impegnato nelle crisi balcaniche in diverse occasioni sin dal loro inizio negli anni ’90.
"Un successo del referendum significherebbe un ritorno al passato, quindi il 7 novembre rimanete a casa e guardate la TV", ha ribadito il Ministro delle Finanze, Nikola Popovski .
In sostanza, l’opposizione invita ad una massiccia affluenza alle urne, il governo e la comunità internazionale all’astinenza. I leader dei partiti albanesi affermano che gli Albanesi esprimeranno il loro dissenso non votando. L’OSCE impiegherà degli scrutatori nel paese e il coordinatore dell’opposizione Petrov ha minacciato i funzionari di governo con accuse penali, per atti contro le libere elezioni e il libero voto, mediante l’invito al boicottaggio e spaventando la popolazione con la guerra o la rinuncia.
La maggior parte dei sondaggi, a dieci giorni dal referendum, prevedono un’affluenza di massa e una votazione contro la nuova carta territoriale.
Cosa significherà questo per la Macedonia? Il successo del referendum potrebbe significare una nuova guerra?
È veramente difficile concepire in questo momento il pensiero che è stato l’auspicio delle peggiori premonizioni. Probabilmente e con un po’ di speranza non sarà così, ma di sicuro tutto ciò sarà foriero di una nuova e prolungata insicurezza. E questa è stata la base del rumoroso interesse da parte occidentale
L’IWPR (Institute for War and Peace Reporting), ha realizzato un dibattito tra esperti la scorsa settimana, in cui molti partecipanti erano d’accordo sul fatto che a prescindere dalla riuscita del referendum, la Macedonia entra in una nuova fase il cui esito nessuno è in grado di prevedere. Gli intervenuti al dibattito, noti accademici locali, analisti e giornalisti, concordano sul fatto che a dispetto dell’impeto iniziale riguardante la soluzione territoriale, nel frattempo il referendum ha raggiunto l’apice di un’ondata di malcontento popolare per le condizioni generali in cui versa il Paese.
vedi anche:
Macedonia: le ONG nel processo di decentralizzazione