Ratko Mladić: la sentenza e le reazioni in Bosnia Erzegovina
Ergastolo per genocidio e crimini contro l’umanità. È questa la sentenza emessa il 22 novembre dal Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia nei confronti dell’ex capo militare dell’esercito serbo-bosniaco
“Quando non sono più in posizione di abusare di persone indifese, diventano molto fragili”. Così Eric Gordy descrive il comportamento di Ratko Mladić presso il Tribunale dell’Aja per l’ex-Jugoslavia (ICTY). Mladić, da tempo in condizioni di salute precarie, ha esposto al mondo le proprie debolezze fisiche dall’inizio del processo nel 2012 fino all’ultimo atto di ieri, quando durante la lettura del verdetto ha prima richiesto e ottenuto una pausa, e poi inveito con parole stentate e scomposte contro la corte, che l’ha poi fatto allontanare dall’aula. Un’immagine che stride completamente con quel famoso video , impresso nella memoria dei più che hanno conosciuto in vari modi la guerra in Bosnia Erzegovina, che lo ritrae deciso mentre fa ingresso nelle strade di una Srebrenica completamente vuota e conquistata, e che invece di mantenere il presidio in città indica con gesto sicuro la direzione verso Potočari, il villaggio dove si erano rifugiati migliaia di bosniaci musulmani cercando invano protezione dai caschi blu dell’ONU.
La sentenza
Come era prevedibile, le motivazioni del verdetto ricalcano quello inflitto a Radovan Karadžić un anno fa. Mladić è stato dichiarato colpevole di quattro “imprese criminali congiunte” (Joint Criminal Enterprise, JCE): il genocidio di Srebrenica, i crimini contro l’umanità in altre municipalità, il t[]e contro la popolazione civile di Sarajevo, la presa in ostaggio del personale ONU. Così come per Karadžić, solo un capo di imputazione (ma importante, come si spiegherà più avanti) è decaduto: l’accusa di genocidio per altre sei municipalità della Bosnia orientale e settentrionale. La pena, però, è diversa. Karadžić fu condannato a 40 anni, perché si accolsero alcuni fattori attenuanti: il suo ritiro dalla politica, la buona condotta in carcere e qualche “segno di pentimento”. Per Mladić invece è arrivato l’ergastolo pieno, così come avvenne in passato per quattro ufficiali dell’esercito serbo-bosniaco (Beara, Galić, Popović, Tolimir). Nell’attesa di leggere la sentenza intera, è probabile che la condotta dell’ex-generale durante il processo, sempre sprezzante verso la Corte e i testimoni, unita ad uno staff difensivo più debole rispetto a quella dell’ex-politico in quanto a documentazione, testimoni, strategia e abilità, oltre naturalmente ai capi di imputazione di per sé, abbiano influito sulla decisione di attribuire la pena più dura.
Nel riepilogo della sentenza, i giudici hanno demolito l’impianto difensivo che tentava di minimizzare il ruolo di Mladić e del proprio esercito come meri esecutori militari di decisioni politiche, scaricando implicitamente la responsabilità su Karadžić, sulle strutture di polizia o sui paramilitari. Nel testo della corte infatti si ripete più volte che le azioni di Mladić erano così determinanti che, senza di lui, “i crimini non sarebbero avvenuti nello stesso modo”. E c’è un elemento innovativo che, secondo alcuni analisti, potrebbe ancora orientare la giurisprudenza (e l’analisi storica) sui crimini in ex-Jugoslavia. Si afferma che Mladić era “in contatto con membri della leadership [politica] in Serbia e dell’esercito jugoslavo per soddisfare gli obiettivi dell’esercito serbo-bosniaco”. Questa formulazione potrebbe portare a riconsiderare, ancora una volta, il coinvolgimento diretto di Belgrado nei crimini di guerra in Bosnia Erzegovina, un aspetto rimasto in sospeso dopo le assoluzioni del generale dell’esercito jugoslavo Perišić e degli ufficiali Stanišić e Simatović. Di questi ultimi è in corso il processo-bis presso il MICT , il “Meccanismo Residuale” che si occuperà degli appelli e dei casi in giudicato mentre l’ICTY si appresta ormai a chiudere i battenti.
Meno innovativo, invece, appare il punto della sentenza sul genocidio del 1992 (dunque all’inizio della guerra) nelle sei municipalità della Bosnia orientale e settentrionale: Foča, Vlasenica, Ključ, Sanski Most, Prijedor, Kotor Varoš. È l’unico capo di imputazione da cui Mladić è stato dichiarato non colpevole. La motivazione della Corte è che il numero di vittime era “relativamente ridotto e non sostanziale” rispetto al totale dei bosniaci musulmani residenti in quelle municipalità.
Caterina Bonora, esperta in giustizia transnazionale e docente presso l’Università di Brema, spiega a OBCT: “Vista la riluttanza dell’ICTY nel configurare la violenza del primo anno di guerra, il 1992, come genocidio già nel caso Karadžić, era difficile aspettarsi grosse novità a riguardo. Ma nemmeno si potevano escludere”. Bonora ricorda un fatto importante avvenuto nell’agosto 2013, a processo Mladić già in corso: avvenne il ritrovamento della fosse comune a Tomašica, vicino a Prijedor, quindi “nuove prove a supporto della tesi di genocidio nel 1992, poi ammesse nel caso Mladić nel 2014. Poi però la camera di prima istanza, anche in quel caso, ha escluso il genocidio al di fuori di Srebrenica”.
Il mancato riconoscimento del genocidio ha deluso le associazioni di vittime delle sei municipalità, che da tempo sembrano vivere con disagio una sorta di sindrome da secondo piano, essendo stati colpiti da crimini meno conosciuti e sanzionati, ma che costituivano parte dello stesso disegno di pulizia etnica che avrebbe poi trovato in Srebrenica l’eccidio di scala decisamente più ampia e più brutale, e quindi più ricco di prove documentali e elementi simbolici. Dell’eccezionalità di Srebrenica ne hanno approfittato, e ne approfitteranno, in tanti. In primis certi revisionisti che, di fronte alla mole inconfutabile di documentazione, ormai non possono negare l’evidenza (per capirci, anche l’ultranazionalista serbo Vojislav Šešelj ha ripetutamente riconosciuto, pur minimizzandolo, Srebrenica come “un crimine” e “il punto più oscuro della parte serba”) ma la presentano come un incidente di un percorso altrimenti legittimo.
Allo stesso tempo, però, va riconosciuto che la sentenza ha dichiarato colpevole Mladić di “deportazione”, “trasferimenti forzati”, “sterminio”, “omicidi” e “persecuzione” contro bosniaci-musulmani e bosniaco-croati nell’intero territorio della Bosnia Erzegovina reclamato dalla Republika Srpska, secondo un’impresa criminale a cui Mladić aderì sin dal maggio 1992.
Se nel presente la distinzione tra genocidio e gravi crimini contro l’umanità causa ancora sofferenze, il fatto che sia stata riconosciuta e documentata l’enorme gravità e l’estensione spazio-temporale di questi atti potrebbe rendere, nel medio-lungo periodo, la distinzione più una questione da giuristi che di sostanza, come aveva commentato in passato Eric Gordy.
Infine, è stato confermato il capo d’accusa che riguardava il t[]e contro la popolazione civile di Sarajevo. La giurisprudenza dell’ICTY ha dunque respinto definitivamente la versione, sempre sostenuta dalle difese di Karadžić e Mladić, nonché da alcuni ambienti cospirazionisti nel resto del mondo, secondo cui le granate dei massacri di Markale (la piazza del mercato) sarebbero state lanciate dall’esercito bosgnacco per attirare l’intervento della comunità internazionale contro le forze serbo-bosniache.
Le reazioni in Bosnia Erzegovina
La sera prima della sentenza, le homepage dei principali media di Sarajevo aprivano con la riforma delle pensioni e le relative polemiche interne al governo della Federazione BiH. Le notizie sulla sentenza imminente erano poche e più defilate. Certo, nel giorno del verdetto l’attenzione è cresciuta, e hanno fatto il giro del mondo immagini come quella delle madri di Srebrenica in piedi a braccia alzate davanti alla TV, sospese tra il conforto di un verdetto finalmente effettivo e la rievocazione traumatizzante della perdita dei loro cari.
Le reazioni ufficiali e delle associazioni delle vittime (tranne, come si è detto, quelle delle “sei municipalità”) alla condanna all’ergastolo generalmente hanno espresso un certo senso di consolazione, se così si può dire, diversamente dalla pena a 40 anni di Karadžić, che a Sarajevo fu principalmente contestata perché considerata troppo lieve.
L’impressione è che ci sia un diffuso senso di sollievo anche per il completamento del ciclo di attività dell’ICTY, dopo 25 anni che hanno visto accrescere sì la giurisprudenza, ma anche le distanze tra le memorie contrapposte. In generale, pare avvertirsi un clima di stanchezza, in particolare tra i più anziani, e di sovraccarico da memoria pubblica e memorie individuali-familiari, soprattutto tra i giovani. Un clima alimentato dal tanto, troppo tempo trascorso tra i crimini e la giustizia, nonché dalla stringente pressione dei problemi sociali quotidiani.
Ben diverse sono state le reazioni a Banja Luka, capitale della Republika Srpska (RS). Già nei giorni precedenti, media e vertici politici avevano operato una glorificazione di Ratko Mladić che, seppure in chiara continuità con la linea degli ultimi anni, ha raggiunto nuovi livelli. “A prescindere dalla sentenza, tutti abbiamo la sensazione che, dato quello che abbiamo visto contro i serbi finora, Ratko Mladić resta una leggenda nel popolo serbo. Un uomo che ha offerto le proprie capacità umane e professionali al servizio della difesa e del popolo serbo dovunque si trovasse”, ha commentato il presidente della RS Milorad Dodik il giorno prima del verdetto.
Poco prima, la televisione pubblica della RS dava ampio risalto alle dichiarazioni del capo degli avvocati di Mladić, Branko Lukić, secondo cui l’ICTY si apprestava a giudicare “tutti i cittadini della RS che hanno avuto più di 16 anni nel 1992” e che la eventuale condanna equivarrebbe a una condanna “all’intero popolo”. “Mladić sarà ricordato nella storia e questa sentenza rafforza solo il suo mito tra la nazione serba, che gli è grata per averla salvata dalla persecuzione e dallo sterminio”, ha dichiarato dopo la sentenza il sindaco di Srebrenica Mladen Grujčić.
Mitocrazie
Uno dei principi fondanti dell’ICTY, come spesso sottolineava il suo primo presidente Antonio Cassese, era l’individualizzazione dei crimini, per evitare che una colpevolizzazione collettiva ostacolasse l’elaborazione del passato e suscitasse nuove reazioni identitarie. L’apparato politico e mediatico della Republika Srpska è riuscito a rovesciare quest’impostazione, passando nel tempo da un linguaggio vittimista e difensivo (incentrato ad esempio sulla presunta parzialità del Tribunale a danno di imputati serbi) a uno apertamente aggressivo e rivendicativo dell’operato dei criminali di guerra.
È l’apoteosi di quella che alcuni analisti hanno chiamato “cementazione del mito ” o “mitocrazia ” sugli anni Novanta, ovvero la rigida imposizione delle interpretazioni “ufficiali” della storia nei media e nel sistema educativo, che garantirebbe la continuità dei cosiddetti interessi nazionali, e la riproduzione di modelli sociali intrinsecamente conformisti e autoritari.
Sia chiaro, il problema della mitocrazia coinvolge tutta la regione: dalle istituzioni della RS a quelle croate e croato-bosniache che hanno glorificato Dario Kordić e Ante Gotovina, da quelle bosniache-musulmane che esaltano la figura di Naser Orić a quelle della Serbia che proprio nelle scorse settimane hanno invitato un criminale di guerra che ha scontato una pena di 15 anni, Vladimir Lazarević, a insegnare all’accademia militare statale.
La mitocrazia è lo strumento delle istituzioni in quella che Refik Hodžić ha chiamato “guerra per la verità ”, fondata sulla superiorità etno-nazionale e combattuta non con le armi, ma con discorsi e narrazioni sul passato in tutti gli spazi: pubblico e privato, laico e religioso, politico e civico.
Ieri mattina Ratko Mladić ha lasciato il processo (e, forse, la scena pubblica definitivamente) mentre urlava “Bugia, bugia” (“Laž, laž”), la stessa parola che, nel luglio scorso, dava il titolo alle numerose iniziative negazioniste dei crimini di guerra previste a Srebrenica e Banja Luka. L’ex-generale ha perso la sua personale battaglia per la verità con il Tribunale, ma fuori c’è ancora chi la sta proseguendo per lui, e ora toccherà soprattutto alle nuove generazioni scegliere se continuarla, abbandonarla o combatterne di nuove.